Viaggio nel mondo delle donne che non possono risposarsi anche se il matrimonio è finito. Per i gruppi che le difendono non si tratta di anacronistiche bizzarie religiose, ma di violenza di genere
Se lo scorso luglio vi foste trovati a Haifa, avreste potuto imbattervi, passeggiando per la parte bassa della città, in un’installazione molto particolare: una grande gabbia, arredata come un salotto di casa, preceduta da un cartello che invitava i passanti a entrare e sedersi al suo interno. Lo scopo della curiosa opera (foto nell’articolo di Stephanie Wasserman sul Jerusalem Post) era sensibilizzare sul problema delle agunot, le donne letteralmente “incatenate” a un matrimonio di fatto finito, ma non libere di rifarsi una vita in quanto il marito rifiuta di concedere il get, il decreto di divorzio che determina lo scioglimento del vincolo matrimoniale di fronte alla legge ebraica.
La questione delle agunot è oggi particolarmente sentita dai gruppi ebraici per i diritti delle donne, in Israele e nella Diaspora, tanto che è stato istituito, da cinque anni a questa parte (per la precisione a marzo, in corrispondenza del “Digiuno di Ester” che cade il 13 di Adar) l’International Agunah Day come giornata speciale di informazione e sensibilizzazione. Unchain my heart, con sede in Australia, è uno dei tanti movimenti che si è formato a partire da queste giornate: ma la supplica di “unchaining” delle agunot non c’entra nulla con l’amore passionale cantato nel celebre brano di Ray Charles. I gruppi e le organizzazioni di difesa e supporto a queste donne insistono molto su un fatto: ancora prima di essere una questione religiosa, quella delle agunot è un problema di violenza domestica.
La definizione
Secondo Jewish Virtual Library, si definisce agunah una donna sposata alla quale è impedito di divorziare dal marito e risposarsi. Una situazione che può essere determinata da due circostanze: la sparizione del marito e l’impossibilità di sapere se è ancora in vita, o il rifiuto di questi a concedere il divorzio. In questo secondo caso, sarebbe più preciso descrivere la donna con l’espressione mesorevet get (colei alla quale si rifiuta il get, il divorzio), ma il termine “passe-partout” agunah tende a predominare. C’è un terzo ipotetico caso, quello in cui il marito, colpito da malattia o incidente, sia mentalmente incapace di esprimere la sua volontà.
Secondo la Halakhà il matrimonio non può sciogliersi su pronunciamento di un tribunale, è indispensabile l’espressa volontà dei coniugi. Mentre per l’uomo esistono maniere di “aggirare” un eventuale rifiuto o impossibilità della donna a concedere il get (come rivolgersi a un tribunale rabbinico per chiedere un heter nissuin, ossia il permesso di un “matrimonio aggiuntivo”), la stessa cosa non vale all’inverso. Naturalmente, una donna alla quale non è concesso il get può ottenere di divorziare e risposarsi attraverso le vie civili, ma il suo status all’interno della comunità ebraica rimane quello di agunah. Nel caso di una nuova relazione, non potrà risposarsi con rito ebraico; e se da essa dovessero nascere dei figli, saranno considerati mamzerim, figli di relazione adultera.
Le agunot nella storia, l’approccio delle diverse denominazioni, il ruolo della comunità
Storicamente, esistono diverse indicazioni su come i rabbini nelle varie epoche avessero elaborato tutta una serie di possibilità per rendere meno difficile la posizione della donna. Secondo Asheri, aiutare una agunah a “liberarsi dalle catene” è una mitzvah, mentre secondo Maimonide astenersi dal farlo è addirittura una trasgressione della Halakhà. Nella Mishnà ad esempio si prevede che il caso di un uomo disperso in guerra possa costituire un’eccezione alla regola che nessun fatto è dato per valido senza almeno due testimonianze: per decretare la morte dell’uomo e dichiarare la donna vedova e libera di risposarsi basterà un testimone solo o, secondo un successivo parere ancora più radicale, basterà la parola di lei. La testimonianza di un apostata (un ebreo convertitosi ad altra religione) o di un non ebreo sarà altresì considerata valida. Rashi inoltre descrive l’uso del get al tenai, un “divorzio condizionale” che gli uomini che partivano per la guerra dovevano lasciare alle mogli affinché fossero libere nel caso non fossero tornati. Tutto ciò per quanto riguarda la prima circostanza, quella in cui il marito sparisca e non si sappia se è vivo o morto. E il secondo caso? Come scrive Robert Gordis su My Jewish Learning, la agunah nel senso di mesorevet get è a tutti gli effetti un problema dei tempi moderni. Un marito “recalcitrante” infatti poteva essere “messo a posto” da una comunità forte e coesa: “Il problema della agunah rimase relativamente risolvibile finché la tradizione ebraica conservò la propria autorità e la comunità ebbe il potere di applicare le sue decisioni (…). Al di fuori dei tribunali, la comunità poteva fare pressione sul marito attraverso l’opinione pubblica e l’ostracismo sociale; in aggiunta, il tribunale aveva facoltà di decretare il herem [scomunica o messa al bando, la forma più grave e irrevocabile di esclusione dalla comunità], che avrebbe significato l’isolamento totale. In genere, la minaccia bastava per rimettere il marito in riga”.
Sempre My Jewish Learning spiega come le diverse denominazioni ebraiche affrontano oggi il problema della agunah: molte comunità ortodosse contemplano la possibilità di un accordo prenuziale tra i coniugi che tuteli la donna nel caso in cui il rapporto dovesse finire; oppure, la possibilità di annullare il matrimonio se la donna riesce a provare di essere stata ingannata sulla vera natura del marito al momento delle nozze (es. la presenza di un disturbo mentale di cui era ignara). Similmente si muove l’ebraismo conservative, che ha sviluppato una sua propria forma di accordo prenuziale, generalmente non accettato però dagli ortodossi. L’ebraismo riformato e ricostruzionista infine, nel caso di rifiuto a concedere il get, accettano il divorzio civile come prova dello scioglimento del matrimonio.
Il rifiuto del get come forma di violenza
Alla domanda “Perché il rifiuto del get va considerato una forma di violenza domestica?”, la Organization for the Resolution of Agunot (ORA) risponde in una delle sue Frequently Asked Questions: “Si definisce violenza domestica quel tipo di comportamento attraverso il quale un coniuge cerca di affermare il suo controllo sull’altro. La violenza domestica può manifestarsi in molte forme: fisica, emotiva, economica, sessuale o psicologica. Dopo che è un matrimonio è naufragato, il get resta l’ultimo vestigio di controllo del marito sulla moglie”.
Nell’articolo di Hailey Gleeson su ABC News – parte di un’inchiesta più ampia su religione e violenza di genere in Australia – la Direttrice di ORA Keshett Starr insiste: “Le comunità ortodosse a volte sono lente a capire che la violenza domestica può assumere forme diverse da quella fisica e così non sempre riconoscono la dinamica perversa che è in gioco come tale. Inserire il rifiuto del get nella categoria della violenza domestica fornisce un contesto al quale la sfera legale può accedere, invece di sminuirlo come un’esoterica faccenda religiosa che non c’entra niente con la legge”.
E Deborah Wiener, avvocata che ha lavorato per la Jewish Taskforce Against Family Violence, conferma: “L’uomo che rifiuta il get alla donna sta dicendo: Tu appartieni ancora a me, non ti permetterò di vivere la tua vita”.
Matthew e Orly Kushner su My Jewish Learning si soffermano sui risvolti pratici del ricatto: “A causa della profonda disparità di potere, le donne possono trovarsi ingiustamente svantaggiate nelle trattative di divorzio. Il marito può negare il get per estorcere concessioni dalla moglie. Ad esempio, può ricattarla chiedendole in cambio soldi o beni, o anche di rinunciare alla custodia dei figli”.
In Israele: il caso Gorodetsky
Rispetto a quelli della Diaspora, i tribunali rabbinici di Israele hanno assai più margine di manovra, in quanto le loro decisioni in materia di diritto familiare sono riconosciute dallo Stato. Le forti pressioni che hanno facoltà di esercitare su un marito che si ostina a non concedere il get possono arrivare addirittura a farlo arrestare e imprigionare. Ma capita che anche queste misure estreme non risolvano il problema. Emblematico in questo senso è il caso Gorodetsky, ben riassunto da Tamara Shamir su Harvard Political Review che da ormai 25 anni fa discutere il Paese. È il 1995 quando la 19enne Tzviyah Gorodetsky chiede il divorzio dal marito Meir: lui l’ha picchiata talmente da provocarle un aborto spontaneo a pochi giorni dal parto. Tutti i tentativi via via più pressanti del tribunale rabbinico di convincere Meir Gorodetsky a “togliere le catene” a Tzviyah non servono a nulla: lui, il get non glielo concede. Piuttosto, accetta di scontare il massimo della pena, 19 anni di prigione. Questo è il paradosso: un uomo può essere indotto, con vari mezzi, a sentirsi obbligato, ma non essere obbligato direttamente. Fino a che non concede il get, la donna rimane una agunah. Come Tzviyah, che nel 2017 intraprende persino uno sciopero della fame di fronte alla Knesset.
Nel giugno 2018, l’organizzazione no-profit Center for Women’s Justice, rappresentante legale di Tzviyah Gorodetsky, ha chiesto a una commissione indipendente di rabbini ortodossi di riesaminare formalmente il suo caso. La commissione, guidata da Rabbi Daniel Sperber, ha deciso finalmente l’annullamento d’ufficio del matrimonio in base a tre principi halakhici: la gravità della violenza, che avrebbe costituito motivo di rifiuto delle nozze se fosse stata conosciuta a monte (umdena d’mochach); l’invalidità del contratto di matrimonio, dovuta alla malattia mentale del marito (mekah ta’ut); e infine, l’invalidità del matrimonio stesso in quanto era stata Tzviyah e non il marito – come sarebbe previsto – a pagare per le fede nuziali (kinyan).
Tutto è bene quel che finisce bene? Non proprio: Tzviyah Gorodetsky è stata sì “liberata”, ma da una commissione che non appartiene al Rabbinato d’Israele e quindi non conta nulla di fronte allo Stato. Formalmente, Tzviyah Gorodetsky rimane una agunah e non può risposarsi in Israele. La fondatrice del Center for Women’s Justice Susan Weiss ritiene tuttavia che sul lungo periodo il ricorso a queste commissioni private possa avere un qualche effetto, perlomeno nel sensibilizzare verso il problema e nel “disturbare” il monopolio del rabbinato israeliano. E cita uno dei rabbini che ha partecipato alla commissione per Tzviyah: “La Halakhà non cambia; siamo noi che cambiamo di modo da poter vedere cosa c’è nella Halakhà. L’invenzione della tradizione è un processo cruciale della filosofia e della legge ebraica ed è tuttora in evoluzione”.
Laureata a Milano in Lingue e Culture per la Comunicazione e la Cooperazione Internazionale, ha studiato Peace & Conflict Studies presso l’International School dell’Università di Haifa, dove ha vissuto per un paio d’anni ed è stata attiva in diverse realtà locali di volontariato sui temi della mediazione, dell’educazione e dello sviluppo. Appassionata di natura, libri, musica, cucina.
Shalom,
quello che è scritto nell’articolo e che sempre viene raccontato in merito alla questione è sempre parzialmente aderente ai fatti concreti.
Io sono stata agunàh per ben due anni in Israele e ho dovuto sottostare a tutta una serie di ricatti e rinunce per potere ottenere il ghet. Ebbene durante questi due anni non c’è stata NESSUNA PRESSIONE SOCIALE, né da parte della comunità né tanto meno da parte dei rabbini. Se ne sono lavati tutti le mani, come ahimè succede nella maggior parte dei casi.
Prigione? soluzione applicata in casi rarissimi. Le associazioni? ho trovato associazioni che chiedevano denaro per aiutarmi, e nelle cui sedi ho trovato molta freddezza e poco ascolto reale.
La verità è che una donna agunàh spesso viene lasciata completamente sola, malgrado nei media e negli articoli dei giornali venga propinata tutta questa sete di giustizia che di fatto non c’è.
Forse bisogna cominciare da questo: prendere atto della situazione nuda e cruda com’è. Grazie tuttavia di aver toccato l’argomento
Una donna che divorzia civilmente ma non riceve il ghet se dovesse avere un figlio da un non ebreo, il figlio sarebbe ebreo a tutti gli effetti