Il progetto di Marva Zohar a sostegno delle donne vittime di violenza di genere. Per trasformare il dolore in potere, la vulnerabilità in leadership, la vergogna in resilienza e la solitudine in solidarietà e comunità
Ci sono violenze di cui è difficile parlare. Che chi ha subito non riesce a raccontare. Spesso perché nessuno vuole ascoltarle. Le chiamano violenze di genere, spesso indicate con l’acronimo di GBV, Gender Based Violence. Categoria che raccoglie non solo gli stupri, ma tutti i tipi di violenza, sia fisica sia mentale, commessa in privato o in pubblico, legata al sesso o al genere. Di solito a quello femminile.
Quando aveva appena dodici anni, Marva Zohar è stata violentata da un gruppo di uomini. Devastata dai disturbi post traumatici emersi negli anni successivi, ha finito con l’essere vittima di altri abusi, questa volta perpetrati dalla società. I nuovi oltraggi hanno preso la forma di ricoveri in ospedali psichiatrici con cure mediche e farmacologiche che l’hanno portata sull’orlo del suicidio. Marva però è sopravvissuta. E ha trovato le parole non solo per parlare di quanto le era accaduto, ma anche per dare voce a chi quelle parole non era stato in grado di pronunciarle. Come le sue amiche, vittime come lei di stupro, che si erano tolte la vita a seguito delle violenze subite.
La sua reazione ha preso strade diverse ma convergenti. Ad esempio, ha fondato in Israele la School of Gynecosphy, un luogo dove le antiche medicine tribali femminili provenienti da tutto il mondo incontrano le moderne conoscenze occidentali. Ha poi dato vita all’organizzazione non governativa Ohela, affinché nessuna donna debba più subire i suoi stessi abusi, e ha contribuito a creare il primo protocollo israeliano per la presa in carico e il trattamento psichiatrico delle sopravvissute alla GBV, guidando gli specializzandi in psichiatria a formarsi su questo tema. Ha pure conseguito un master in scrittura creativa presso la Bar Ilan University, esplorando con le sue poesie le rappresentazioni dello stupro e della GBV che il linguaggio di solito costringe al silenzio. Convinta che alla violenza si possa sopravvivere e che la guarigione dal trauma rappresenti una rinascita spirituale ed emotiva, Marva ha infine fondato la comunità di guarigione AMEN (dell’ebraico Admat Marpe Nashit), The Land Where Women Heal.
Fondata tre anni fa a Kiryat Tivon, nel nord di Israele, “la terra dove le donne guariscono” è un eco-villaggio dedicato alle vittime di violenza di genere. Qui le donne sono accolte da un team composto da assistenti sociali clinici, consulenti e volontarie che utilizzando un approccio “femminile, femminista e olistico” forniscono un supporto continuo e costante, 24 ore al giorno e 7 giorni su 7. Le partecipanti sono aiutate a gestire sintomi quali pensieri e comportamenti suicidi, autolesionismo, disturbi dell’alimentazione e del sonno ed episodi dissociativi. Anziché essere trattate come malate, le ospiti di AMEN sono portate a vedere le proprie reazioni come risposte umane normali alla terribile violenza subita, trasformando, come si legge sul sito dell’organizzazione, “il dolore in potere, la vulnerabilità in leadership, la vergogna in resilienza e la solitudine in solidarietà e comunità”.
AMEN è per Marva il punto di arrivo di un percorso difficile ma arricchente che negli anni l’ha portata a confrontarsi con la società civile così come con il mondo religioso. Come si legge in Hey Alma in apertura a una recente intervista, fin da adolescente Zohar aveva cercato “uno spazio sacro per le donne nel giudaismo”. Ripensando a quegli anni, racconta: “Stavo cercando un ebraismo femminista che mi desse ciò di cui avevo bisogno per essere forte e sicura. Ho avuto un bat mitzvah, ma la mia parsha era tutta incentrata sul fatto che le donne violentate vengono lapidate o costrette a sposare i loro stupratori. Mi sono sentita incapace di vedermi in sinagoga, negli ambienti tradizionali”.
Impegnata in un viaggio fuori e dentro se stessa, Marva si è diplomata prima come doula e quindi come ostetrica, lavorando poi da una parte all’altra del mondo, da un campo profughi ugandese a una comunità Amish in Colorado, esplorando le tradizioni celtiche così come le tecniche di guarigione dei nativi americani. È stato però il ritorno in Israele e l’iscrizione all’università a farle fare il grande passo. La relazione che aveva all’epoca con un ragazzo aveva riportato a galla il trauma mai superato trascinandola in un vortice di fenomeni da stress, dai disturbi dissociativi all’autolesionismo fino al tentato suicidio. Guardando anche alle tante persone che come lei avevano subito violenza di genere si era resa conto che non esisteva un rifugio, un luogo che desse spazio al dolore. Inoltre, racconta, “i sistemi esistenti sono effettivamente in atto per servire il paradigma esistente e la cultura dominante. Gli individui all’interno dei sistemi possono essere molto gentili e compassionevoli, ma il sistema stesso è davvero lì per mantenere silenziosa la ferita”.
Ricoverata in un ospedale psichiatrico dove non poteva né piangere né parlare di quanto le era accaduto, aveva sperimentato sulla propria pelle il funzionamento di quei sistemi. Da questa esperienza era nato un libro di poesie, accompagnato da una serie di richieste inviate senza successo al Ministero della Salute e a quello degli Interni perché si facesse qualcosa per salvare le vittime di GBV da ulteriori crimini. Rassegnata a non ricevere una adeguata risposta dalle istituzioni ufficiali, la donna aveva deciso di muoversi in altre direzioni. Percorrendo anche la strada della spiritualità. Entrata in contatto durante i suoi viaggi sia con la ruota celtica dell’anno sia con la ruota della medicina degli indiani d’America, aveva individuato delle precise connessioni tra le quattro direzioni di questi cerchi e le quattro antenate bibliche, Sarah, Rebecca, Rachel e Leah: “La spiritualità è una parte enorme di ciò che facciamo; è una parte enorme di ciò che ci dà resilienza. Le donne che vengono da noi potrebbero aver perso la fiducia nell’universo, nel mondo, nel loro potere superiore. Riscoprire quella fiducia fa parte del nostro programma”.
Trovando quanto vi è di universale e comune nelle saggezze antiche, le terapeute di AMEN danno così vita a rituali e processi di guarigione che a volte coinvolgono anche persone esterne al villaggio. Come quando, nel centro di Tel Aviv, hanno tenuto un rituale di lutto per le “ferite del patriarcato e della violenza” al quale hanno partecipato anche le persone che in quel momento stavano semplicemente passando per la via.
Attualmente il progetto pilota di AMEN può accogliere fino a 12 donne a tempo pieno nel villaggio, altre 12 sono impegnate in attività sporadiche e altrettante nel corso di laurea, ma l’obiettivo è quello di creare in futuro un centro più grande che aiuti le centinaia di persone attualmente in lista d’attesa. Il progetto riguarda Israele, ma Marva è convinta che il suo modello possa essere esportato: “Credo che ogni singolo stato e provincia del mondo abbia bisogno di una terra dove le donne guariscano. È una terra dove stiamo guarendo da qualcosa, ma anche dove possiamo andare a guarire il mondo dalla mascolinità tossica. Stiamo imparando come prendere l’auto-violenza e trasformarla in una rabbia sacra che può spostare le montagne”.
Camilla Marini è nata a Gemona del Friuli (UD) nel 1973, vive a Milano dove lavora da vent’anni come giornalista freelance, scrivendo prevalentemente di cucina, alimentazione e viaggi. Nel 2016 ha pubblicato la guida Parigi (Oltre Edizioni), dove racconta la città attraverso la vita di otto donne che ne hanno segnato la storia.