Diritti umani
“Amerai il tuo prossimo che è come te”

Il dovere di stabilire tribunali giusti. Una disamina del concetto di giustizia

A discutere di Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo con un rabbino si scopre che la tensione interna al pensiero ebraico è basata proprio sul rapporto tra Universale e Particolare. Nel caso specifico, come si può parlare di qualcosa di universale in relazione all’essere umano, dal punto di vista religioso? Si può ammettere, sempre da quel punto di vista, un universalismo unicamente umano, che abbia valore normativo? Abbiamo raccolto il pensiero di Rav Haim Cipriani, che propone una disamina del problema a partire dalla Genesi.

In principio, la creazione
Il primo a sottolineare la tensione presente nel pensiero ebraico tra umano e divino è stato Rashì che considera l’incipit della Torà: perché non inizia con la storia del popolo ebraico in Egitto? Non sarebbe più logico, dal punto di vista umano, partire dalla sua uscita dalla schiavitù? Ma la Torà punta a inquadrare la natura umana in un contesto più ampio, in cui si conciliano il punto di vista religioso con quello umano. Ecco perché la Genesi inizia, in modo più simbolico, con la creazione: occorre creare la cornice universale in cui inserire il particolare. E qui si arriva alla domanda delle domande: qual è il grande principio della Torà? “Amerai il tuo prossimo che è come te” (mi piace usare questa traduzione, che ritengo sia più fedele al testo). Cosa significa? Adamo è creato da HaShem, a sua immagine, dunque esiste un pedigree divino in ogni essere umano. Ecco, l’impronta universalistica è inserita nella Biblioteca Nazionale che per me è la Torà, con il rifiuto altrettanto dichiarato, però, di confinarla entro una nazione. Cioè, non sono gli ebrei a essere stati creati a immagine di Dio, ma tutti gli esseri umani. Abramo, si dice nel cap. 12 della Genesi, è destinato a diventare benedizione per tutte le famiglie della terra. Dunque il “gruppo nazionale”, gli Israeliti come popolo, esiste per portare a modo proprio la benedizione a tutti.
A modo proprio. Occorre soffermarsi su questa espressione, perché è una limitazione di campo: ogni cammino particolare è universale. Come dire che l’universalità, quando si tratta di esseri umani, è limitata. In quanto umani, siamo costretti a partire dal particolare per tendere all’universale. E diventare benedizione per tutte le famiglie del pianeta significa esprimere la volontà di costruire una società esemplare nel riconoscimento dei diritti degli altri.

L’Egitto, o della presa di coscienza collettiva
Ecco allora che, dopo l’inquadramento universale e simbolico della creazione, si arriva alla narrazione della schiavitù in Egitto. La Torà presenta un progetto ben preciso: il popolo ebraico deve prendere coscienza di sé attraverso la sottomissione per poter creare, una volta libero, una società non egiziana, anti-egiziana, dove sia garantita una giustizia per tutti e per i più fragili. Ma per essere certi che ciò accada, occorre sviluppare gli anticorpi alla “malattia”: così gli ebrei vengono esposti a una società brutale affinché quella giustizia, loro negata, diventi la propria ambizione. Nella Torà leggiamo “Perseguirai la giustizia”. Si tratta di un ideale irrealizzabile, per questo va inseguito costantemente e perseguito ad ogni costo. Per esempio, verso lo straniero. Il termine Gher, straniero appunto, in alcune epoche ha indicato colui che risiede in un posto che non è il suo, in altre il proselita. Per altri ancora, questa figura indica qualcuno verso cui altri hanno dei doveri e viceversa. Esprime dunque un’idea democratica: i doveri sono per tutti. Al punto che i Rabbini hanno immaginato sette mitzvot (responsabilità) dei figli di Noè, un codice minimo morale a cui tutta l’umanità dovrebbe attenersi per non distruggere il pianeta. Anche questo dato va letto in maniera più ampia: racconta della presa di coscienza dell’essere umano di appartenere a un mondo più vasto. Il giardino in cui è stato posto a vivere, secondo la Genesi va “lavorato e protetto”, dunque necessita di una relazione di cura e protezione. Esattamente come Abramo deve responsabilizzare il suo popolo perché continui, dopo di lui, a fare giustizia e diritto.

Trascendente, umano
Dunque il problema di una Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo va guardato in un’ottica più ampia, che consideri tutto il creato. Perché l’uomo tende a infliggere ai propri simili le peggiori sofferenze. Ecco perché nelle sette Mitzvot dei figli di Noè si dice come unico obbligo affermativo (le altre sono proibizioni) quello di stabilire tribunali giusti. Il motivo? L’abuso è purtroppo un segno ontologico dell’essere umano. Addirittura, l’uomo si definisce attraverso una forma di abuso, che nel Cristianesimo è rappresentato dal peccato originale. Dunque, forse esiste una giustizia superiore, non lo sappiamo, ma sicuramente sappiamo che deve esisterne una umana, immanente, che va perseguita e garantita. Crimini orrendi come i pogrom e la Shoà vanno letti anche in quest’ottica, come l’espressione di mondi che tentano di accettare gli ebrei senza riuscirci. Possiamo definirli quasi danni collaterali di un percorso creativo e molto duro per gli ebrei nel processo, faticoso, di farsi accettare, o addirittura amare. Mostrano, in ogni caso, la tendenza umana all’abuso e alla distruzione dell’altro, già narrata nell’episodio biblico di Caino e Abele. Per questo l’ebraismo nutre da sempre una certa diffidenza verso ciò che si vuole eccessivamente universale. Nella nostra liturgia si parla del Divino come Melech haOlam, spesso tradotto come Re dell’universo: l’universo è grande, ma finito. Il trascendente è universale, ma nel momento in cui lo si afferma è solo particolare. E poiché la Trascendenza divina è inafferrabile e indefinibile, non resta che appellarsi a quella umana, finita e limitata: rimane indefinita, ma è una soglia oltre la quale, per l’uomo, è impossibile andare.

I Diritti dell’Uomo
In genesi 18, Abramo, a cui viene annunciata l’imminente distruzione di Sodoma e Gomorra, si oppone alla Trascendenza per garantire giustizia e diritto, e segnala con la sua accusa l’ingiustizia e la vuotezza che questo comporterebbe nel sistema. Il Divino stesso si svuota di senso, perché è nell’impossibilità di fare giustizia cosmicamente. Dunque il sistema stesso si basa su qualcosa di fallace. Si basa sull’impossibile equità. Lo spiega bene un Midrash rabbinico che parla della luna, rimpicciolita rispetto al sole in modo ingiusto: la luna brilla solo grazie alla luce del sole che ridà alle cose un po’ della propria luminosità. Fa parte del Tikkun, del processo di riparazione dell’universo, il fatto di rendere dignità e luminosità laddove queste sono state oscurate. Lo stesso vale per il nostro argomento: i doveri esistono per permettere al resto delle cose di brillare. Il principio della Tsedakà, la giustizia sociale, è quello di un budget generale di risorse che per svariate ragioni è stato distribuito in modo ingiusto e va ridefinito equamente, come reazione a una creazione avvenuta nel segno dell’ineguaglianza. Ecco perché la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo è incentrata sull’individuo: è un modo di prevenire la sua tendenza all’abuso, all’ingiustizia, tanto più che è stata scritta alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Ma attenzione ad assumere qualsiasi posizione di superiorità: “Noi non avremmo mai permesso simili nefandezze” viene da dire, ma possiamo esserne davvero certi? Possiamo averne una certezza universale? Mi piace concludere con una storia su un rabbino che racconta: “Da piccolo volevo cambiare il mondo, poi crescendo volevo cambiare il mio Stato, quindi la mia città, poi la mia famiglia, infine me stesso”. Ecco, non esistono definizioni o principi che proteggano l’essere umano da se stesso, ma solo il confronto con gli altri consente ai singoli di guardare se stessi con il distacco necessario a “riparare” o raddrizzare la rotta. Imparare cioè a conoscersi, a conoscere se stessi e, magari, cambiare intimamente.

Testo raccolto da Micol De Pas

Haim Fabrizio Cipriani
Rabbino presso la Comunità Etz Haim

Haim Fabrizio Ciprianiè rabbino e musicista.

Svolge il ministero rabbinico in Italia presso la comunità da lui fondata Etz Haim, unica comunità ebraica italiana associata al movimento Massorti/Conservative, e in Francia presso la comunità Kehilat Kedem di Montpellier. È autore di diversi saggi a tema ebraico editi da Giuntina e Messaggero.

In campo musicale è attivo come violinista e direttore. Si produce da trent’anni nelle più grandi sale da concerto e ha effettuato centinaia di registrazioni discografiche.


3 Commenti:

  1. Grazie Rav . Faccio ( molto umilmente ) mie le parole del rabbino . Anch’io da piccola volevo cambiare il mondo , ora mi ” accontento solo ” di conoscere me stessa . Come sempre le sue parole sono fonte di preziosa riflessione


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