Morte e bellezza, dolore e angoscia nei versi delicati e potenti dedicati al ricordo del nipote
Il poeta Amir Gilboa (1917-1984), nacque col nome di Berl Feldman in una cittadina della Volinia, nell’attuale Ucraina. Dopo gli studi alla scuola ebraica locale, Gilboa/Feldman giunse nella Palestina Mandataria da solo, lasciando nel proprio Paese d’origine i genitori, i fratelli e le sorelle. L’intera famiglia fu assassinata dai nazisti. Come ad altri poeti di lingua ebraica – tra i più noti, Avidgdor Hameiri, Avot Yeshurun, Alexander Penn, Shin Shalom, Uri Zvi Grinberg, Natan Alterman e Avraham Shlonsky – a Gilboa toccò quindi la straziante esperienza di assistere impotente alla distruzione dell’Ebraismo europeo, nonché alla strage dei proprio cari. Fu una ferita insanabile, un trauma profondo, le cui tracce sono ben visibili nella sua poesia. L’ispirazione poetica dell’autore è, infatti, letteralmente accompagnata dalle anime dei suoi defunti, come documenta la semplice ma significativa dedica ai familiari uccisi che compare nella raccolta del 1953 Shirim ba-boqer ba-boqer: “Con me ci sono mio padre e mia madre, Hayim e Frida, i miei fratelli e sorelle Bella, Yehoshua, Bronia, Moshe, Sara ed Ester”. Benché negli ultimi anni della sua produzione il tema della Shoah possa apparire forse meno presente, la scrittura di Gilboa non è mai totalmente svincolata dalla tragedia dello sterminio. Ciò rende il ruolo del poeta tutt’altro che lieve. Più volte egli grida la propria angoscia descrivendo una presenza che si fa ossessione, soprattutto notturna. Gli incontri più significativi e drammatici nell’opera di Gilboa, sono, infatti, legati al sogno e all’incubo, dimensioni che consentono al poeta di confrontarsi con la propria perdita e il groviglio di sentimenti contrastanti a essa legati. Unitamente alla rabbia, il senso di colpa per non aver salvato i familiari e/o per non aver condiviso il destino degli Ebrei d’Europa percorre queste liriche. Il dolore e la lacerazione interiore si traducono nell’evidente antitesi tra il “qui” e il “laggiù”, la quale risulta ancora più significativa, poiché si sviluppa in un contesto storico in cui la società ebraica della Palestina Mandataria avvertiva invece una forte necessità di staccarsi dalla Diaspora per creare l’ebreo “nuovo” e forte in Terra d’Israele.
Nishmat Yossi, ben achoti Bronia, (“L’anima di Yossi, figlio di mia sorella Bronia”) è forse uno dei testi più delicati e potenti scritti da Gilboa sull’argomento. L’io poetico si abbandona con dolcezza al sogno e la visione del fanciullo è serena, in totale armonia con il paesaggio quasi fatato che lo circonda, sebbene alla terza strofa la sorte subita dal ragazzo irrompa con una veemenza a dir poco stridente. Come ha osservato il critico Eliezer Schweid, “La coscienza della tragedia non annulla la potenza della felicità derivata dal ricordo. È questo il segreto della forza di questa poesia. Dolore e felicità sono egualmente potenti e attuali, ma non si sopprimono l’un l’altro”. Pur nella sua fine tragica, Yossi rappresenta per Gilboa la fonte dell’ispirazione poetica, un ideale letterario-divino che lo spinge a trascendere la realtà concreta per elevarsi in una dimensione soprannaturale, fatta di morte e di bellezza, di amore e di angoscia, sorgente autentica di ogni canto.
Per tutta la notte caddero stelle sul mio petto
e stanco di contarle risi, da solo, incontro alla notte felice.
E così, addormentato, sognante, firmamenti colorarono i miei occhi e
aquile si lanciarono nelle valli.
Allora dischiusi gli occhi al sogno. E venne il piccolo Yossi a redimere il
canto. Aleggiando egli cantava.
La voce della tortora si ode sulla terra. E sui boccioli del mattino una
pioggia azzurra scende.
Alle pendici di un monte prima dell’alba m’inginocchio e ricordo,
ricordo, ricordo.
Il capo nelle acque che cadono dalle alture con le verdi melodie di un
sogno rorido e greve.
Posso udire tutti i tuoi canti, Yossi. Piccolo Yossi, che risplendi. Yossi,
l’ammazzato davvero.
Le tue gazzelle erranti su ogni sentiero inseguono l’eco del tuo riso.
Mio Dio, mio Dio, tutte le vallate allora si colmarono d’acqua.
E dopo la pioggia il verde ci inondò e inebriò i nostri passi.
E a piene mani impallidirono funghi, come un racconto di fiaba che
ammicca con le pupille di mille occhi.
E tutti gli alberi in nostro onore accesero soli negli alti rami.
Oh Yossi, oh Yossi! Al volgere della notte la mia preghiera rivolsi alla
superficie del lago
e le tue anatre biancastre si rovesciarono per innalzarla a corona delle
onde.
Ma col sorgere del sole anch’io mi elevo, del tutto… divorato dal
fuoco della brama
di baciare la polvere del prediletto degli amori.
Sara Ferrari insegna Lingua e Cultura Ebraica presso l’Università degli Studi di Milano ed ebraico biblico presso il Centro Culturale Protestante della stessa città. Si occupa di letteratura ebraica moderna e contemporanea, principalmente di poesia, con alcune incursioni in ambito cinematografico. Tra le sue pubblicazioni: Forte come la morte è l’amore. Tremila anni di poesia d’amore ebraica (Salomone Belforte Editore, 2007); La notte tace. La Shoah nella poesia ebraica (Salomone Belforte Editore, 2010), Poeti e poesie della Bibbia (Claudiana editrice, 2018). Ha tradotto e curato le edizioni italiane di Yehuda Amichai, Nel giardino pubblico (A Oriente!, 2008) e Uri Orlev, Poesie scritte a tredici anni a Bergen-Belsen (Editrice La Giuntina, 2013).