Impazienza, consapevolezza e responsabilità: le fasi necessarie a diventare padroni del divenire
Una mizwà molto particolre quella dell’omer, sia per la durata sia per la sua natura. Ne abbiamo già parlato in precedenti articoli, ma si potrebbero scrivere ancora centinaia di pagine al riguardo, proprio per il valore simbolico e spirituale di queste sette settimane che traghettano il popolo ebraico dalla liberazione alla libertà. Questa volta ne abbiamo parlato con rav Haim Fabrizio Cipriani.
Qual è il significato profondo dell’omer?
Alla base, l’idea di questa festività è di prolungare Pesach fino a Shavuot per evitare che con Pesach si creda che la libertà sia acquisita. La libertà è nelle mani di colui che modella il proprio tempo. Contare indica la necessità di un approccio graduale alle cose, già indicato nel Pesach con il seder, che è appunto ordine. Occorre seguire un cammino per costruire la libertà.
Perché contare ogni giorno?
Nel contare i giorni dell’omer non si anticipa mai il successivo: si conta fino al gradino compiuto, si dice: ieri eravamo ancora (o già) al giorno x”, per timore di essere impreparati al nuovo. E questo genera una certa impazienza: impossibile non esserlo verso qualcosa che deve finire. Esattamente come in questa situazione di pandemia: l’omer ricorda che ogni fase è più importante della totalità. Ciò ha a che fare con l’agricoltura: inquesto periodo dell’anno il raccolto è quasi pronto, ma può essere facilmente danneggiato dalle intemperie. Dunque contare l’omer è un po’ come dire: oggi il raccolto è salvo, tutto è andato bene. E non “andrà tutto bene”. Ma in fondo, anche rispetto al covid-19 ci comportiamo così: rispetto all’esposizione al virus, ogni giorno in salute ci diciamo che fino ad oggi tutto è andato bene. Ecco, possiamo dire che contare l’omer sia la presa di coscienza della nostra vulnerabilità.
Contare è anche narrare, le due parole in ebraico hanno la stessa radice.
Contare, narrare, ma anche tagliare (e anche la parola parrucchiere). Ogni racconto è un modo di tagliare, è un ritaglio personale della realtà a cui ognuno da la propria forma. Così in tempo di pandemia possiamo leggere il racconto istituzionale, quello della controinformazione, quello di chi cura i malati, quello dei malati stessi una volta guariti… ci vorrà del tempo per elaborare un racconto comune.
In fondo contare fa parte di una progettualità
Una progettualità che ha a che fare con la costruzione del tempo. E comincia con una mizwà definita prima di uscire dall’Egitto: contare i propri mesi. Nella Torah è scritto “Questo mese (Nissan) sarà per voi il primo dei mesi”: per voi indica la necessità di costruire un tempo diverso rispetto a quello degli egizi, cioè di proiettarsi verso un avvenire altro, in un tempo a venire. Lo stesso significato è racchiuso nella matzà, il pane che rappresenta la discontinuità temporale, il pane nuovo. E l’educazione dei figli completa il progetto della discontinuità: non ci sarà una storia del popolo ebraico se non esce dal tempo dell’Egitto. Ecco, la progettualità si muove sulla linea del tempo: il passato è richiamato nel presente per proiettarsi nel futuro. Secondo Rashì infatti la Torah dovrebbe iniziare da qui perché inizia l’azione umana con la contemplazione del proprio tempo. Individualmente: quel per voi significa che il segmento del nuovo tempo va esplicitato nella propria coscienza. Per uscire dall’omer bisogna contare, non basta ascoltare qualcuno che conta altrimenti non si esce dall’obbligo.
Infatti l’omer si conta di notte
Solo ed esclusivamente di notte. Questo perché la giornata inizia col buio, certo, ma anche perché la notte è metafora dell’esilio, è alienazione da sé. Dunque si prende coscienza del passaggio in una situazione di insicurezza per affermare la propria capacità di portare il tempo, cioè di rendere il tempo portatore di senso appropriandosene, e non essendone schiavo. Così a Shavuot sarò evoluto interiormente. C’è un fattore implicito in tutto questo che è l’invito alla responsabilità. Il tempo lo determina, per l’uomo. Nell’eternità divina non esiste un tempo strutturato, mentre l’uomo ne ha bisogno, e qui torna l’idea del per voi. L’uomo per sua natura è irregolare, infatti durante l’omer sono stabiliti dei programmi di studio in cui si leggono i Pirke’ Avot, trattati di etica. Attraverso quelle letture si viene formati a gradi sempre maggiori di responsabilità, ovvero, prima di tutto, alla capacità di rispondere.
È nata a Milano nel 1973. Giornalista, autrice, spesso ghostwriter, lavora per il web e diverse testate cartacee.
Ecco, uno prima di leggere dice “ho capito, un’idea mi sembra di averla”, poi legge – o ascolta – Rav Haim Fabrizio Cipriani, e dopo, capisce che ora ha capito di più. Grazie. Roberta FF