Ma la domanda da porsi casomai non è tanto dov’è finita Anne, mai è chi è, chi è diventata oggi Anne Frank? Perché ne esistono molte versioni, cloni, possibilità. La vera Anne Frank, la ragazza che si nascose dai tredici ai quindici anni con la sua famiglia a Amsterdam, autrice di un diario da cui il padre Otto tolse prima della pubblicazione ogni riferimento a sessualità, scontri con la madre, normali ribellioni di un’adolescente in crescita oppure quella dell’immaginario collettivo, il santino, la ragazzina sorridente che posa nella foto in bianco e nero bianco e nero, che sembra Maria Goretti e che finisce stampata sulle magliette di una squadra di calcio perdendo ogni riferimento umano per diventare un meme, un simbolo distorto, per soccombere a una volgare tifoseria da stadio?
Sembra che tutti vogliano trasformare Anne Frank in qualcos’altro. Folman la fa rivivere attraverso le parole di Kitty, confrontando in chiave politica la sua condizione di fuggitiva con quella dei moderni profughi e rifugiati in un paese straniero e ostile. Un allestimento israeliano del Teatro Cameri diretto da Alan Ofir dal titolo “Anne” (2016) la vede sopravvissuta dopo la guerra, a Parigi, dove si incontra con lo storico amico del nascondiglio Peter, adesso editore. Insieme parlano del diario e rievocano il passato; lo spettatore dovrebbe essere al corrente che questa parte moderna è una proiezione fantastica, si riferisce a come Anne avrebbe voluto diventare se non fosse stata uccisa. Insomma più di un autore, drammaturgo, regista ha elucubrato, ha voluto staccare la ragazzina dal suo diario e ridarle nuova vita, identità o una seconda possibilità narrativa. Fino a arrivare al travestimento letterario più celebre, quello che descrive Philip Roth che la fa protagonista di ben due sue libri, “The Ghost writer” e il Fantasma esce di scena. Nel primo si chiama Amy Bellette, vive nella casa di un anziano scrittore, Lonoff, che potrebbe ricordare Bernard Malamud e ne diventa l’amante. Gli si rivolge con linguaggio esplicitamente sessuale, quasi a rimarcare una vitalità e una trasgressione che stridono con l’immaginario collettivo della santità. E’ cresciuta, è una donna matura e consapevole, e chiede al suo amante se non gli dispiacerebbe baciarle le tette. E poi, e questa è una sfumatura che si perde con la traduzione del titolo in italiano, è (anche) lei “the ghost writer”, il fantasma che scrive.
Anne difatti è, non solo nel libro di Roth, una scrittrice. Una giovane scrittrice piena di talento. Ma a differenza di Etty Hillesum, Anne non voleva scrivere un diario perché fosse consegnato ai posteri dopo la sua morte. Anne alla morte non pensava perché aveva quindici anni. Non scriveva per diventare un’icona di memoria. Scriveva come fanno gli scrittori: perché non poteva fare altro. Testo autobiografico, memoir come si chiamerebbe ora, che importa. Quello che emerge dal diario è un inno alla vita e alla libertà. Ed è insopportabile. E’ insopportabile che una ragazzina di quindici anni muoia per il tifo, abbandonata da tutti a Bergen Belesen, certo. Ma lo è altrettanto che questa giovane autrice trabocchi vitalità e coraggio, quasi ignorando la paura. Come, non piange, non si lamenta, non soccombe all’orrore? Niente affatto. Dai carta e penna a un prigioniero e le mura della sua prigionia svaniranno. Anne è libera e ci libera con la forza dell’immaginazione, con l’intensità della sua analisi. Questo è il suo tratto trasgressivo: non essere una santa, un’icona, un’eroina ma una scrittrice, una giovane donna libera. E’ vero è diventata l’emblema del senso di colpa mondiale. Ma tutti sappiamo che dietro il senso di colpa si nasconde un’enorme rabbia repressa. Anne fa arrabbiare perché non è mai vittima, neanche per un momento. Non ci sta a farsi rinchiudere in uno stereotipo lezioso e misogino di brava ragazza, nonostante la censura paterna. La cosa più giusta da fare per Anne Frank non è renderla un’eroina ideologica, una salva migranti, un’ombra nelle conversazioni come fa Nathan Englander nel suo racconto ma di restituirle lo status di scrittrice, il corpo di una giovane donna piena di talento, autonomia di pensiero e che amava la vita. Questi sono valori che non potranno mai essere banalizzati da meme e magliette razziste. Perché sono l’opposto della morte e continuano a brillare nel buio.