Nel mini film che verrà presentato al Jewish Film Festival di Toronto , una ragazza ebrea e una coetanea afroamericana si sfidano per interpretare il ruolo di Anne Frank
Quanto è universale il messaggio lasciato da Anne Frank? E chi è più adatto a interpretarne il personaggio? Parte da domande non così scontate il film Anne, cortometraggio diretto da Desiree Abeyta e scritto da Adi Eshman che sarà presentato al Toronto Jewish Film Festival dal 16 al 26 giugno.
Al centro del racconto, il casting per una nuova trasposizione teatrale del celebre diario. Fuori dalla stanza per le audizioni si incontrano due ragazze, Lauren, ebrea americana, e Mia, afroamericana. La prima non riesce a nascondere il proprio disagio nel dover competere con un’attrice nera. Perché mai, chiede all’altra, dovresti essere più adatta di me? «Mia nonna – le dice – era una sopravvissuta e ora, in quanto ebrea americana, sento che sia una mia responsabilità portare in scena la storia di Anne». Nella sua risposta, l’altra aspirante al ruolo reclama il diritto a rappresentare una storia che parla a tutti, ebrei e non ebrei. «Quando l’ho letto per la prima volta, il diario ha parlato alla mia anima: le sue idee hanno avuto un enorme impatto su di me», ribatte Mia. «Chiunque può rappresentare un’idea». L’attrice fa notare alla collega che nessuna delle due sappia come fosse essere un ebreo negli anni Quaranta. In compenso, in quanto donna nera, lei ritiene di sapere come sia vivere l’oppressione oggi. Secondo Lauren la questione è diversa, e se da una parte si permette una battuta su quel che accadrebbe se lei aspirasse a interpretare ad esempio Rosa Parks, dall’altra sostiene che Anne non abbia bisogno di essere resa più potente e universale. Anzi, tentare di farlo significherebbe secondo lei sottovalutare la sofferenza del popolo ebraico.
Forward, che dedica un articolo al cortometraggio, ricorda come il suo argomento chiave si inserisca nell’ambito di un dibattito in corso da tempo sulla scelta del casting. La cosiddetta questione Jewface tocca diverse problematiche legate alla rappresentazione degli ebrei, in teatro come al cinema. All’origine vi era la messa in scena di personaggi ebrei identificati attraverso caratteristiche fisiche stereotipate, spesso ricreate con protesi facciali applicate ad attori non ebrei, o dell’uso inopportuno e caricato dell’accento yiddish. Le prime opere con queste caratteristiche si affermarono a fine Ottocento in vaudeville messe in scena da attori non ebrei camuffati con lunghe barbe e grandi nasi. Molto popolare tra gli ebrei dell’Europa orientale immigrati negli Stati Uniti alla fine del XIX secolo, in breve tempo questo genere teatrale sarebbe diventato di dominio quasi esclusivamente ebraico, sia per il cast sia per il pubblico. Suscitando così la critica di parte della comunità, che vedeva in questi spettacoli l’origine di molti dei pregiudizi antisemiti.
Più recentemente, il problema ha riguardato in particolare la scelta di attori non ebrei per l’interpretazione di personalità il cui ebraismo è parte integrante della storia narrata. È il caso di Helen Mirren, criticata tra gli altri dalla collega Maureen Lipmann per avere interpretato Golda Meir nel film biografico Golda senza essere ebrea. Nella sua risposta, fornita in una intervista al Daily Mail, la star britannica ha detto di comprendere perfettamente le ragioni dei suoi critici e di essere stata fin da subito pronta a un eventuale rifiuto da parte del regista Guy Nattiv, che è sia ebreo sia israeliano.
Allargando il campo, la Mirren ha ribaltato i termini e ha rimarcato quanto sarebbe ingiusto che un ebreo non potesse interpretare un non ebreo. E che dire poi di quando una donna come lei non poteva vestire i panni di Amleto mentre pochi anni fa Glenda Jackson si è calata in quelli di King Lear? E ancora lei, di nobili origini e già interprete di Elisabetta II nel film The Queen di Stephen Frears, quanto aveva il diritto di interpretare una donna del popolo nel recente The Duke? Provocazioni a parte, Jewface sembra riportarci ai suoi albori ottocenteschi quando tocca l’impiego di protesi come accaduto nel Maestro, il film prodotto da Netflix e dedicato alla vita di Leonard Bernstein. Bradley Cooper, che interpreta il protagonista oltre a curare la regia, è stato reso quasi irriconoscibile dal trucco, che comprende tra l’altro un imponente naso posticcio che, come si può leggere in un articolo uscito su Alma, ha suscitato le ire di molti.
Tornando ad Anne, il cortometraggio supera i confini tracciati coinvolgendo anche i diritti delle persone nere. Quanto è giusto precludere a chi non è bianco l’interpretazione di ruoli altrimenti visti come “universali”? Intervistato da Forward, l’autore del testo ha ricordato una produzione del Diario in cui tutto il cast era composto da latinoamericani. Andato in scena in un periodo di forti tensioni con l’agenzia statunitense per l’immigrazione, l’ICE, lo spettacolo aveva suscitato accesi dibattiti perché sembrava creare un parallelismo tra gli agenti federali e i nazisti. Passando alla creazione di Anne, Eshman ricorda di aver rivisto la sceneggiatura nell’estate dell’omicidio di George Floyd. Per quanto oggi anche quegli eventi sembrino lontani, resta il fatto che il film tocchi questioni sempre di attualità, astenendosi però dal fornire risposte univoche al problema. «Il direttore del casting è il pubblico – conclude l’autore – e spetta al pubblico decidere chi sia il migliore per il ruolo».
Camilla Marini è nata a Gemona del Friuli (UD) nel 1973, vive a Milano dove lavora da vent’anni come giornalista freelance, scrivendo prevalentemente di cucina, alimentazione e viaggi. Nel 2016 ha pubblicato la guida Parigi (Oltre Edizioni), dove racconta la città attraverso la vita di otto donne che ne hanno segnato la storia.