Un commento in occasione della pubblicazione dei risultati della ricerca condotta da Euromedia Research per conto dell’Osservatorio Solomon sulle discriminazioni
La ricerca condotta da Euromedia Research per conto dell’«Osservatorio Solomon sulle discriminazioni», quest’ultima agenzia indipendente di monitoraggio dei fenomeni legati al razzismo e all’antisemitismo, indica alcune linee di tendenza che, in parte, confermano un quadro che già era noto (basti pensare alle rilevazioni e agli studi condotti dal Centro di documentazione ebraica contemporanea di Milano, così come da altre agenzie di rilevazione, elaborazione e studio dei dati). Per sommi capi, tenuto conto che la lettura di percentuali statistiche si presta sempre ad ombre e sfumature di interpretazioni articolate, il quadro che emerge è il seguente:
esiste uno “zoccolo duro”, un segmento di connazionali che nutre pensieri, idee o addirittura una dichiarata avversione verso gli ebrei. Al quesito sull’opinione «non favorevole» o «poco favorevole» nei confronti degli ebrei risponde affermativamente in tale senso il 6,1% degli intervistati; significativo, tuttavia, il fatto che tale disposizione d’animo sia ben più calcata nei confronti dei musulmani, trattandosi del 36,7% del campione. Questo aspetto dovrà essere tenuto in considerazione per i tempi a venire. Infatti, ben lungi dall’identificare dinamiche separate, l’avversione nei confronti dei secondi può alimentare, sul lungo periodo, il ritorno di un più corposo rifiuto verso i primi. L’invito, in altre parole, è a non credere che esista un fenomeno di trasmigrazione del pregiudizio da un gruppo all’altro, in virtù del quale gli ebrei dovrebbero sentirsi meno vincolati o pressati dalla morsa della discriminazione. Semmai, si riconferma il circolo vizioso tra antisemitismo e razzismi: le nostre società hanno bisogno di identificare una «minaccia» contro la quale esprimersi, fatto che deve preoccupare in sé, a prescindere dalle appartenenze e dai gruppi che ne sono destinatari, poiché il nuovo pregiudizio contro gli uni rilegittima quelli che carsicamente sono già presenti nei riguardi degli altri.
Si tratta di una lettura fallace quella, presente in alcuni ambienti intellettuali, per cui le società odierne non odiano gli ebrei bensì i musulmani; va ribadito quanto appena espresso, ossia che forme di islamofobia – la cui definizione scientifica, al netto dell’uso pubblicistico del termine, è ancora tutta da indagare e da identificare – possono costituire una sorta di contenitore degli antisemitismi di ritorno. Le caratteristiche strutturali del pregiudizio, infatti, condividono diversi elementi in comune quand’anche si esercitino nei confronti di destinatari differenti. Per citare un precedente storico, basti pensare all’accostamento che nel passato è avvenuto tra ebrei e popoli camminanti (rom e sinti) o, nel caso statunitense, tra i primi, i neri d’America e una parte dei gruppi immigrati non protestanti. Il diverso posizionamento sociale dei vittimizzati (leggasi: il miglioramento del loro status economico e relazionale), quand’esso si manifesti, non è garanzia del superamento dell’atteggiamento razzistico in quanto tale, che permane a prescindere dal ruolo sociale e dalle condotte assunte da coloro che ne sono fatti destinatari.
Il pregiudizio antiebraico, in tutte le sue varianti, continua a legarsi ad una serie consolidata di convincimenti (controllo della finanza, lobbismo e separatismo di gruppo, influenza sui mezzi di comunicazione) ma sempre più spesso “slitta” verso ciò che residua del conflitto israelo-palestinese e, soprattutto, contro le immagini e le raffigurazioni che ci vengono restituite dello Stato d’Israele. Il fulcro del rapporto tra antisemitismo e antisionismo si colloca in questo problematico snodo, una sorta di terra di nessuno della ragione, dove si verificano transizione e traslazioni di preconcetti da una sfera precedente (gli “ebrei”) ad una conseguente (i “sionisti”). Non si tratta di desumere da ciò, in maniera meccanicistica, un’aderenza immediata tra antisemitismo e antisionismo (per nulla autorizzata da una prima lettura dei dati della ricerca) ma di cogliere, nei tempi che stiamo vivendo, quale siano le linee di tendenza che rendono plausibili riversamenti in tale senso. Questa indagine, oltre che con le culture sociali che accompagnano gli italiani, deve confrontarsi anche e soprattutto con il declino delle culture politiche. Oramai tradizionalmente, l’antisemitismo, esprimendo la sua vocazione metamorfica, ha surrogato – quanto meno nella modernità – l’assenza di idee, di speranze ma anche di identità, costruendo, o concorrendo a costruire, un nuovo legame sociale tra coloro che si sentono omologhi perché minacciati dagli “ebrei”. Il dispositivo razzista, in questo caso, opera spietatamente ma non meno efficacemente.
Il punto nodale del nesso tra antisemitismo e antisionismo non sta nella definizione della “natura” degli ebrei ma nella dichiarazione di disumanità che caratterizzerebbe i “sionisti”: il punto indice, al riguardo, è il diffuso convincimento e assenso tra gli intervistati (il 14% del campione) nel merito all’affermazione per cui «i palestinesi sono vittime di un genocidio da parte degli ebrei». La formulazione del «nazisionismo» (le vittime di ieri sono i carnefici di oggi; il loro operato è identico a quello dei loro persecutori del passato) è ciò che si può desumere come portato sistematizzante, ossia forma di organizzazione in una dottrina coerente, di questa visione delle relazioni sociali e dei conflitti aperti; in tutta probabilità è tuttavia un’idealizzazione negativa che appartiene a gruppi relativamente ristretti della popolazione. Un tale stato di cose è, a modo suo, confermato anche dal fatto che le medesime persone, si dichiarano favorevoli allo Stato d’Israele (78,6%) e alla Palestina (82,4%).
Questo riscontro in evoluzione va però ponderato con le risposte che sono state date rispetto al quesito riguardante «le principali cause dell’aumento di questo fenomeno [l’antisemitismo]», poiché ben il 37% lo attribuisce al «clima di odio generale che si sta diffondendo nel nostro Paese» così come, nel 29% dei casi, «al diffondersi di movimenti e partiti politici estremisti», mentre solo per il 5,6% è da attribuirsi «agli effetti del conflitto arabo-israeliano» (percentuale, in quest’ultimo caso, invece molto più elevata in coloro che si dichiarano «poco favorevoli» verso gli ebrei).
L’antisemitismo denunciato dai pochi che dichiarano di essersi trovati «di fronte a comportamenti antisemiti» (17,5% del totale del campione) è quasi sempre simbolico-espressivo e verbale, quindi non agito contro una persona bensì avverso la sua immagine; ossia, rimanda al vasto campionario di denigrazioni che dal web alla vita reale sono presenti nelle relazioni interpersonali e assai di meno all’elemento materiale e corporeo della sopraffazione fisica (solo il 6,2% di coloro che hanno dichiarato di avere avuto a che fare con gesti o condotte avversanti, pari all’1% dell’intero gruppo di intervistati).
Un ulteriore terreno scivoloso è l’immaginario comune che rimanda alle “dimensioni” della minoranza ebraica (quindi anche alla sua ipotetica capacità di influenzare i processi decisionali): più di due terzi degli intervistati (il 70,7%) ritiene che gli ebrei italiani compongano almeno l’1% della popolazione, in un range che varia da un minimo di 600mila soggetti ad oltre 12 milioni, di contro ad una presenza effettiva che fatica a raggiungere i 35mila elementi (nella ricerca sono quantificati secondo un dato di tre anni fa in 41mila);
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C’è poi un problema politico, ovvero di area e di schieramenti di riferimento, laddove a segnalarsi per una maggiore attenzione e sensibilità verso la minoranza ebraica (e di riflesso, una più corposa preoccupazione nei confronti dell’antisemitismo) sono una parte di coloro che si qualificano come elettori del centro-destra ed in particolare di Forza Italia (mentre molto minore è tale sentire nella Lega); non è facile interpretare con immediatezza questo riscontro ma, insieme al segnale legato all’aspetto anagrafico, ossia al fatto che nelle fasce d’età è quella compresa tra i 18 e i 24 anni a risultare maggiormente persuasa dell’incremento dei fenomeni antisemitici, (per poi però ribaltarsi subito nell’opposto se si considera la coorte successiva, che arriva ai 44 anni), andrà comunque operata una valutazione ad hoc in materia, evidentemente corredandola di ulteriori indagini ed analisi.
C’è un nesso costante, nella totalità dei dati, ed è quello per cui tra coloro che si riconoscono nella categoria dei «poco favorevoli agli ebrei» siano di molto minori tutti gli indici che rivelano una maggiore preoccupazione per i fenomeni antisemitici (reciprocità inversa, in buona sostanza); anche qui ricavarne da subito delle deduzioni non è corretto ma parrebbe riconfermarsi la costanza dell’elemento per cui chi diffida degli ebrei ritiene Anche che la sua avversione sia un dato oggettivo e non il prodotto di un proprio giudizio di valore. Come tale, lo stesso antisemitismo – inteso come pregiudizio strutturato e continuativo, quindi come insieme di convincimenti tanto infondati quanto dannosi nei confronti di coloro che sono definiti e identiticati come “ebrei” – sarebbe da intendersi in quanto prodotto della vocazione al medesimo tempo vittimistica e manipolatoria degli ebrei medesimi.
Il negazionismo parrebbe interessare ed occupare una parte minima dei soggetti, pari all’1,3% («l’Olocausto è una leggenda e non è mai accaduto») a fronte di un 80,7% che riconosce apertamente che «l’ Olocausto è realmente esistito nella dimensione dichiarata dalla storia»: plausibile il ricavare da ciò una prima conclusione, ossai che la vera sacca del neonegazionismo non sia il rifiuto aprioristico del fatto storico ma il convincimento che l’uso che della sua memoria viene fatto costituisca uno strumento di ricatto nei confronti dei non ebrei. In altre parole, la negazione non si alimenta più necessariamente del diniego dell’oggettività bensì, piuttosto, del rigetto della sua rilevanza civile e morale collettiva, ossia della sua ricaduta nella coscienza dell’Europa contemporanea. Al riguardo, c’è di che interrogarsi – e di molto – sulla natura delle politiche della memoria e dei risultati che esse hanno prodotto in questi anni. Un interrogativo di ordine critico e analitico, non polemico, beninteso.
è illusorio, in quanto minoranza completamente inserita nelle logiche e nelle dinamiche inclusive della cittadinanza italiana, ritenersi al riparo da rischi a venire. Il pregiudizio in sé ha una valenza (ed impatti) del tutto mutevoli, in base non solo alla sua interna costruzione – ossia, ai suoi contenuti specifici – ma anche e soprattutto sulla scorta di una trasformazione delle condizioni oggettive in cui si manifesta. In altre parole: l’antisemitismo è tanto più pericoloso laddove le società si fanno incerte, vivono crisi di mutamento, sentono o percepiscono il futuro non come un campo di opportunità bensì come un tempo dell’emarginazione e dell’espropriazione di possibilità e speranze. Non per questo le letture allarmistiche ne escono confortate. C’è un problema di fondo, che andrebbe affrontato, in campo ebraico ma non solo: il ricorso all’accusa di antisemitismo va sempre fondato su un costrutto analitico preciso, su verifiche ripetute, in altre parole su una deideologizzazione del termine medesimo. L’inflazione di etichettature in materia, deprezzando il valore reale del rischio, è esattamente ciò che i veri antisemiti vanno cercando, concependo ciò che è altrimenti per gli altri un’accusa, al pari di un titolo di merito.
Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.