Contro l’identità, i confini e gli stereotipi. Addirittura, oltre la specie. Intervista alla curatrice, storica dell’arte e scrittrice di casa a Berlino
L’arte è politica, si sa. E non può prescindere dal lavoro di curatela. Perché segna un territorio preciso, entro cui dirigere la riflessione. Filosofica, a sua volta, perché mette in scena una visione del mondo.
Ecco cosa fa Antonia Alampi, curatrice a Berlino dello spazio Savvy che porta avanti una ricerca dal titolo Geography of imagination. Già direttrice dello spazio Beirut a Il Cairo e di altre realtà internazionali, sarà stasera a Milano alla Fondazione Adolfo Pini per gli appuntamenti di Casa dei Saperi. Si parla di Nuove Utopie in quello spazio di cultura messo a punto da cinque giovani curatori insieme alla direttrice artistica Valeria Cantoni Mamiani. E le nuove utopie hanno declinazioni sottili, ma capaci di invertire l’ordine planetario. Questa volta si parla di arte, ma ancora prima di cosa significhi condurre un progetto artistico e quindi un’esposizione, in ordine alla sovversione di un principio antico: l’alterità. L’obiettivo è raccontare le differenze, le contraddizioni di un io, di un noi, ampio, fluido e sfaccettato al punto da non poter credere nella supremazia sull’altro. Dis-Othering è il concetto su cui Alampi lavora, in cui l’immagine dell’altro viene analizzata e restituita in una nuova entità: stereoptipi, credenze e pregiudizi che compongono il ritratto dell’altro da sé, diventano elementi per comporre una nuova figura relazionale, capace di guardare alla storia per superarla. Per stabilire un senso di appartenza al pianeta. Ne abbiamo parlato con lei.
Cos’è la geografia dell’immaginazione?
La geografia dell’immaginazione ha diverse declinazioni. Si può usare l’immaginazione per dimenticare il presente e immaginarsi in uno spazio altro. Mi piace citare la poesia On imagination di Phillis Wheatley, la prima poetessa afroamericana ad essere stata pubblicata ed ex schiava, perché rappresenta bene l’uso dell’immaginazione come strumento di fuga o di rifugio: permette di viaggiare quando non è possibile farlo. Oppure, le geografie dell’immaginazione riguardano la costruzione dell’altro da sé. In mano all’Occidente, la costruzione dell’altro si muove tra l’estremo infernale, come per esempio i cannibali, e l’utopico, come le donne polinesiane di Gauguin. L’estremo infernale è innocuo perché è privo di civiltà e assume i contorni del mito che ne legittima la schiavitù. Di più, l’uomo occidentale deve fare opera di civilizzazione coloniale. Ecco, entro questa cornice, cioè guardando la storia per capire il presente, indago su come queste costruzioni hanno ancora un ruolo nella manipolazione dell’idea dell’altro e quale ruolo hanno o possono avere le istituzioni culturali per decostruirlo.
Per esempio?
Se la curatrice è una donna e per il suo progetto coinvolge una serie di artiste donne, la sua mostra subito viene etichettata come femminista. Se il curatore viene da un paese in conflitto, sarà costretto a parlare del ruolo della religione, della dittatura… Sono categorie banali, che costringono a rispondere a un immaginario prestabilito. La categorizzazione rafforza questo processo.
Ha a che fare con lidea di identità?
Più precisamente con la costruzione di un’identità. Ne abbiamo tante di identità, io sono donna, bianca, madre, italiana, lavoro a Berlino… e si declinano a seconda del senso di appartenenza perché siamo tante cose allo stesso tempo e facciamo parte di tante comunità in modo relazionale. Ecco perché credo che parlare di identità sia una riduzione pericolosa.
Lei parla della costruzione di una cittadinanza europea, invece.
La intendo sempre in modo relazionale, in una ricerca di un nuovo senso di appartenenza che vada oltre ogni confine, anche di specie. Basta pensare alla questione del clima: occorre appartenere al pianeta e pensare in maniera olistica.
E in ambito artistico – curatoriale come si declina questa idea?
Personalmente sto portando avanti un progetto dal titolo Geography of imagination che si è tradotto anche in una mostra. Era un percorso per condurre il pubblico ad analizzare diversi momenti importanti nella costruzione dell’alterità. Si parla per esempio della storia di Margaret Sanger raccontata sempre come la femminista dietro la creazione della pillola anticoncezionale. Ma faceva parte del Ku Klux Klan e la pillola era stata inizialmente pensata per il controllo delle nascite ed eliminare così gli afroamericani. Oppure si parla di razza, concetto che in senso moderno nasce con la scienza, basato sull’idea che la razza determini una diversa biologia, che le caratteristiche fisiche determinino una diversa psicologia. Contemporaneamente è arrivato anche il concetto di nazione. Semplice: implica il fatto di essere naturalmente appartenenti a quel tipo di luogo. Ma tutto il percorso, così come la ricerca che è ancora in atto, è basato sul confronto: la storia che da vita a quelle immagini, il passato che ricade sul presente, vanno affrontati per parlare di futuro. E provare, poi, a immaginare nuove geografie possibili.
Talk con Antonia Alampi, Casa dei saperi, Fondazione Adolfo Pini, 8 ottobre ore 19