Un ragionamento sul ruolo della diaspora e dello stato di Israele nell’ebraismo contemporaneo
Questo tema appartiene fortemente all’ebraismo; riguarda la relazione fra “universale” , cioè i valori e principi che comprendono il lessico dello stare insieme, e “particolare”, cioè la differenza nelle sue molteplici espressioni. Ephraim Lessing, nel suo Nathan il saggio scritto in pieno illuminismo alla fine del Settecento, tratteggia la figura di un uomo assertore della tolleranza religiosa. Afferma che si è prima esseri umani e poi ebrei, cristiani, ecc. Io penso ad una variante: un Nathan che insegni che si è esseri umani per via dell’essere ebrei e analogamente per l’appartenere al cristianesimo o all’islam. Essere ebrei, cristiani o islamici è una variazione di un unico tema: l’appartenenza all’umanità.
Questa dialettica fra universale e particolare è una costante dell’ebraismo, nella lunga e accidentata storia degli ebrei: da un lato il monoteismo, l’essere gli umani ad immagine di Dio e l’idea messianica esprimono l’universale, dall’altro l’esistenza degli ebrei nella diaspora, in comunità spesso recluse ed oppresse, è stata dominata dal particolare.
Questa dualità è anche un tratto costitutivo e problematico delle società contemporanee: il come conciliare il vincolo dell’uguaglianza dei diritti e il diritto alla differenza. Coloro che immigrano nelle nostre società chiedono da un lato di essere trattati allo stesso modo ma, dall’altro, esigono il rispetto della loro diversità etnico-religiosa per quanto attiene al diritto di famiglia, al culto, all’orario di lavoro. È un dilemma concreto nelle nostre società multiculturali: fino a che punto le differenze fra individui e fra comunità possono essere riconosciute legittime nelle loro conseguenze sui modi di vita, sull’organizzazione sociale, nei rapporti di lavoro ma, nel contempo, alcune regole fondamentali del convivere siano da tutti condivise e rispettate. Così è stato per gli ebrei della diaspora, una vicenda di esilii e dolorose trasmigrazioni da un lato, ma di strette e feconde interazioni fra una minoranza e le società circostanti.
La dimensione universalistica del pensiero ebraico dalle origini si esprime nel codice di Noè, ovvero nei sette principi consegnati ai figli di Noè e quindi all’intero genere umano per fissare le norme basilari della convivenza umana. Solo due fra questi, i primi due, hanno un contenuto teologico: il divieto di idolatria e il divieto di blasfemia; gli altri riguardano norme di convivenza fra gli esseri umani. L’ebraismo è sì fatto per gli ebrei e per coloro che desiderino unirsi a loro ma ai non ebrei è concesso un futuro di salvezza purché osservino il monoteismo e pratichino una vita retta secondo i principi noachidi.
Nel concreto della storia sociale degli ebrei, la dialettica fra universale e particolare ha assunto forme diverse. Se guardiamo alla storia del Novecento il paradigma dell’ebreo-paria teorizzato da Hannah Arendt, cioè l’ebreo ribelle che insorge contro la propria marginalità e combatte con altri oppressi per sovvertire l’ordine sociale, ha dominato la cultura ebraica dell’Occidente.
Questo paradigma e l’esperienza esistenziale storicamente vissuta dall’ebreo paria si sono in larga parte spenti sul finire del secolo scorso per una serie di ragioni. Gli ebrei diasporici vivono oggi in Occidente, appartengono per lo più agli strati medio-alti delle società in cui vivono, istruiti, integrati e tendono quindi a conformarsi ai valori e comportamenti di questi strati. In più, dopo il genocidio, la nascita travagliata dello stato di Israele come luogo di rifugio dalle persecuzioni e l’intollerabile rinascita in Europa di un antisemitismo che persiste e ricorre come malattia dell’Occidente, un’enfasi sulla difesa del proprio particolare, dei propri interessi è giustificata. Ma entro certi limiti.
Nella solitudine di un mondo ostile non pochi intellettuali e opinion leader negli Stati Uniti, in Europa e in Italia, hanno cercato alleati e protettori nella destra politica, nell’ideologia dei neo-conservatori, nei cristiani integralisti in nome della difesa di Israele e della comune avversione all’Islam.
Cercare appoggi nella destra col suo fondo antisemita è un errore; penso che sia più degno e anche più efficace sul piano politico combattere al fianco di altre minoranze il razzismo e la discriminazione verso altri soggetti deboli ed emarginati richiamandosi ai valori universalistici dell’ebraismo: la giustizia, la dignità dello straniero, la difesa dei più deboli.
E ciò non solo perché siamo noi ebrei primi testimoni e portatori della memoria della discriminazione, ma perché vi è un nostro interesse oggettivo nel lottare contro ogni forma di esclusione, anche quando queste non colpiscono direttamente gli ebrei, e nel vivere in società plurali e aperte in cui le differenti identità, soprattutto quelle di minoranza, siano riconosciute e rispettate. Molte volte, infatti, nella travagliata storia degli ebrei, razzismo o esclusione sociale o coercizione religiosa si sono poi riflessi in odio e violenza contro gli ebrei.
L’identità umana è un che di complesso in quanto insieme di sensi di appartenenza, di riferimenti collettivi molteplici. All’ossessione della differenza e della gerarchia fra identità propria di atteggiamenti xenofobi non dobbiamo però opporre il mito dell’uguaglianza astratta fra gli uomini perché le differenze esistono ed è la competizione fra di esse a generare progresso.
Come ricorda Claude Levi Strauss in Le regard eloigné, (Plon, 1984), occorre evitare «l’avvento di un mondo in cui le culture, animate da una passione reciproca, non aspirassero ad altro che a celebrarsi l’una l’altra, in una confusione in cui ciascuna perderebbe il fascino che avrebbe potuto esercitare sull’altra e la propria ragione di esistere».
È giusto affermare la propria identità e, allo stesso tempo, riconoscere nell’altro un analogo e valido diritto di affermare la propria. L’identità non va affermata in modo esclusivistico: individuo e collettività devono esser disposti a mettere in dubbio i propri riferimenti in rapporto e anche in conflitto con l’altro. Nella storia dell’Occidente spesso concezioni universalistiche e totalizzanti come il cristianesimo, l’illuminismo, il marxismo hanno negato e compresso le identità differenziali rifiutando come residuo o reazione al progresso ogni specificità culturale altrui. Gli universalismi hanno agito spesso come forza di omologazione ad un modello dominante; il caso della diaspora ebraica è affascinante in quanto minoranza che, sulla base di una identità sedimentatasi fondendo elementi complessi, religiosi, culturali, di appartenenze comuni, ha interagito strettamente con le società in cui si è storicamente inserita. Questo rapporto con le culture circostanti è stato voluto nelle forme di comunità in cui gli ebrei si aggregavano e, nelle comunità, si è cercato con esiti differenti di conciliare il pluralismo delle forme di identificazione con la trasmissione e l’osservanza della tradizione (la legge, le norme di vita associata, lo studio).
Per certi versi qualche insegnamento può trarsi dalla vicenda degli ebrei per l’integrazione in Occidente di altre comunità. Quando si emigra in un Paese, all’inizio agisce un forte impulso assimilatorio al fine di assorbire il linguaggio, le forme di pensiero e di vita locali. In una seconda fase, dal momento che emigrano non solo individui ma collettività, famiglie, si sviluppano forme di aggregazione in gruppi e comunità più vaste. Sotto questo aspetto può essere indicativa l’esperienza delle comunità ebraiche riconosciute come tali dallo Stato italiano solo dall’inizio dell’Italia unitaria e rette oggi dalle intese firmate del 1987. Il senso delle intese è: tu, ebreo, accetti le leggi dello Stato anche in contraddizione con taluni dettati della tua fede religiosa (vedasi il rito della sepoltura) mentre in altri ambiti lo Stato riconosce la tua differenza, per esempio consentendo che gli animali siano macellati secondo la tradizione ebraica, che le festività religiose siano osservate con le necessarie deroghe negli orari di lavoro, nel calendario scolastico, nei concorsi pubblici.
Il punto generale che voglio enfatizzare è che non ci sono ricette facili per lo sviluppo di società plurali, aperte e multiculturali; pensare che il conflitto fra culture possa essere soppresso è illusorio. Bisogna però trovare gli antidoti opportuni perché le relazioni interculturali siano sì dialettiche ma non di dominio. E ciò è possibile solo se si abbandona la prassi per cui la cultura minoritaria sia chiamata ad assimilarsi a quella egemone.
Un tema a latere: come è mutata la condizione ebraica con la nascita dello stato di Israele? Essa è cambiata profondamente perché gli ebrei hanno acquistato una dimensione politico-statuale dopo due millenni di esilio. Il sionismo come movimento di emancipazione politica degli ebrei nacque esattamente con l’intento di rimuovere l’eccezionalità della condizione ebraica, quella di un popolo disperso e perseguitato, assicurando agli ebrei un luogo di rifugio dalle persecuzioni, dove essi fossero maggioranza, padroni del proprio destino, e potessero sviluppare la propria identità in modo “normale”. Gli ebrei nel mondo oggi possono fare una scelta di vita: o rimanere nelle società in cui vivono nella diaspora o emigrare e integrarsi nella Terra d’Israele. Il sionismo è stato dunque una rivoluzione radicale nell’esistenza ebraica, anche se uno Stato ebraico indipendente non significa di per sé sicurezza fisica per i suoi abitanti, né la rimozione della condizione di precarietà: il diritto di Israele ad una esistenza legittima è ancora oggi messo in forse in paesi del Medio Oriente e in parti dell’opinione pubblica in Occidente.
C’è quindi una biforcazione complessa dell’ebraismo nel mondo, una separazione fra due famiglie di uno stesso popolo. Separazione che, probabilmente, si accentuerà nel tempo, se e quando Israele diventerà davvero uno Stato “normale” con uguali diritti per i suoi cittadini (ebrei e non) e sufficientemente integrato in un Medio Oriente libero da guerre. Gli ebrei di Israele e quelli della diaspora vivono infatti in due regimi diversi: i primi vivono in uno stato-nazione sotto un governo “ebraico” che dispone degli strumenti classici dello stato sovrano: la polizia, la giustizia, l’esercito; i secondi sono invece cittadini di altri stati alle cui leggi si conformano e alla cui vita civile e politica partecipano.
Questa biforcazione è complicata dal fatto che la “normalità” di Israele è ancora in forse; quindi il legame affettivo e identitario fra gli ebrei della diaspora e Israele resta molto stretto. I governi di Israele presumono spesso di rappresentare l’ebraismo nella sua totalità, ma ritengono irrilevanti, quasi vane le opinioni degli ebrei della diaspora. Tuttavia gli atti di Israele si ripercuotono oggettivamente sugli ebrei del mondo. Ad esempio, dopo gli attentati antisemiti in Francia del 2015-2016, l’invito di Netanyahu agli ebrei francesi a rifugiarsi in Israele provocò sconcerto. In definitiva i rapporti di Israele con gli ebrei della diaspora sono indefiniti, imperfetti, a volte contraddittori. La diaspora d’altra parte non è monolitica: è unita nel difendere il diritto di Israele ad esistere in pace come popolo e come stato, ma divisa, drammaticamente divisa, sulle scelte politiche dei suoi governi.
È giusto che sia così. È giusto che gli ebrei della diaspora abbiano il diritto e, a volte, il dovere (con la dovuta compostezza e l’equilibrio necessario) di esprimere la loro posizione critica quando ritengono che le azioni dei governi di Israele siano sbagliate o autodistruttive per il futuro del paese.
Economista, è stato fra i fondatori di Jcall, associazione di ebrei europei in sostegno a una soluzione “a due stati” del conflitto israelo-palestinese. E’ presidente di Alliance for Middle East Peace Europe, che sostiene e finanzia progetti cooperativi di ONG israeliane e palestinesi. E’ stato fra i fondatori nel 2014 di Beth Hillel, la comunità ebraica progressive di Roma.