Cultura
Architettura e memoria

Intervista all’architetto Guido Morpurgo

L’architettura racconta se stessa, come il paesaggio. Raccontano, entrambi, la propria storia e possono essere importanti rappresentanti della memoria. Ci sono architetture concepite per richiamare la memoria, per ripensarla o per conservarla. Allora viene da domandarsi se l’architettura in questo caso diventa monumento, se un monumento, viceversa, è architettura e se il paesaggio in certo modo archeologico ha valore monumentale. Dunque, cosa si intende per architetture della memoria? Ne abbiamo parlato con Guido Morpurgo, architetto e professore dell’Università Iuav di Venezia, firma con la sua socia architetto Annalisa de Curtis del Memoriale della Shoah di Milano, ormai quasi ultimato dopo 12 anni di cantiere.

“Ci sono diverse tipologie da considerare”, spiega Morpurgo, “i monumenti, i memoriali e i musei. Non sono categorie rigide e in certi casi possono confluire le une nelle altre, ma hanno anche caratteristiche molto diverse tra loro. Prendiamo ad esempio il monumento di Nathan Rapaport agli eroi del ghetto di Varsavia. È stato costruito nel dopoguerra, sulle rovine del cosiddetto ghetto grande. Quando venne realizzato si trovava proprio davanti all’apocalisse: il paesaggio era un’area grande come il centro di Milano completamente distrutta: 20-25 milioni di metri cubi di macerie, a volte alte come due o tre piani di un edificio, impossibili da rimuovere. Il monumento a quel tempo era l’unica cosa intera in quel territorio. Di monumenti costruiti nei luoghi della Shoah ce ne sono diversi, soprattutto nell’Est Europa a ricordo dei cittadini sovietici uccisi dal nazismo. Dopo la caduta del muro di Berlino si comincia a pensare anche al bisogno di realizzare memoriali e musei. Ma l’Italia ha un primato su tutti”.

Cioè quale?

Uno dei primi Paesi a ragionare su questo tema è stata proprio l’Italia. Nel 1944 il comitato di Liberazione Nazionale pensa di dover progettare subito un memoriale-mausoleo per le fosse Ardeatine, poi realizzato attraverso un concorso tra il 1947 e il 1949. Le fosse Ardeatine sono sia un monumento sia un memoriale per dare evidenza ai fatti con un’architettura. Il pensiero guida era proprio quello di rappresentare la memoria con un simbolo e di darne evidenza con una costruzione architettonica. Un altro esempio è il cubo-telaio progettato dallo studio BBPR, realizzato al cimitero monumentale di Milano, un’opera molto densa di significati, ma un monumento al deportato. Cioè, senza la specificità ebraica. Anche il Mausoleo-Memoriale della Risiera di San Sabba è straordinario perché propone una rilettura critica che permette a questo luogo di parlare (1967-75). Nel corso degli anni ‘70 lo studio BBPR realizza diverse opere, tra cui il Museo-Monumento del Deportato politico-razziale a Carpi e il Memoriale italiano ad Auschwitz-Block 21. A sollecitare il progetto era stata l’ANED (‘Associazione Nazionale Ex Deportati nei Campi Nazisti ) nel 1970 e molto rapidamente si formò un comitato operativo per la realizzazione del memoriale composto da Gianfranco Maris, Dario Segre, Bruno Vasari, Lodovico Belgiojoso, Emilio Foa, Teo Ducci e Primo Levi. La Musica di Luigi Nono (“Ricorda cosa ti hanno fatto in Auschwitz”) accompagna il percorso espositivo, una spirale nata da un’idea: “Il criterio del memoriale italiano non sarà un duplicato delle tante mostre della deportazione, ma un luogo di raccoglimento e di ricordo, come dichiarato dal comitato. Venne inaugurato nel 1980. Poi il governo polacco ha sfrattato l’allestimento, quindi nel 2014 l’ANED lo ha smontato, fatto restaurare dall’Opificio delle pietre dure di Firenze e riallestito su progetto del prof. Bico Belgiojoso nella città toscana. Ma si trattava di un’opera d’arte (e proprio questa fu la ragione dello sfratto: ad Auschwitz, secondo il governo polacco, occorrevano esposizioni di carattere pedagogico- illustrativo). Ma si può rappresentare la Shoah?

Qual è la sua personale risposta?
Accolgo la lezione di Primo Levi secondo cui la Shoah non può essere razionalizzata come un fatto del tutto comprensibile perché ciò equivarrebbe a ‘giustificarla’. La Shoah non può quindi essere rappresentata, ma interpretata attraverso l’architettura. Allora si apre un’altra questione: può esserci un museo della Shoah? Il primo è quello di Washington che offre anche una serie di reperti dislocati rispetto ai loro luoghi di appartenenza, oppure quello di Londra, una sezione dedicata all’Olocausto dentro a un più grande e generico museo della guerra. Dunque, se la Shoah è museificabile, cioè se si può esporre in teche, allora va benissimo anche inserirla in una sezione di un museo più generico, insieme alle mummie e altri reperti della storia antica? La memoria è un boomerang che ci torna indietro a distanza di decenni. Perché l’empatia che abbiamo oggi con quei fatti è maggiore rispetto a 50 anni fa, quando nessuno voleva parlarne. Ecco perché era importante fermare la memoria subito, come è stato fatto alle fosse Ardeatine. Ciò che è stato costruito dopo, non può che seguire due strade, quella descrittiva e il suo contrario, come, per citare un altro esempio, nel caso del memoriale di Berlino. L’architetto Peter Eisenman e lo scultore Richard Serra hanno progettato un monumento che è al contempo un memoriale perché è attraversabile, in una maniera che richiama il poetico Cretto di Burri a Gibellina. Allora se è vero che occorre educare e che il museo rischia di divenire un mezzo per isolare il tema Shoah attraverso la classificazione e la descrizione, non bisogna dimenticarsi che le architetture della Memoria pur dovendo essere comprensibili a tutti, costituiscono un atto di responsabilità che deve superare la soglia della descrizione, della spiegazione e andare oltre: devono costruire esperienza e far conoscere la Shoah attraverso di essa, innescando una condizione sinestetica che sappia catturare l’attenzione dello spettatore e la sua capacità immaginativa senza descrivere, senza disvelare tutto, mantenendo una distanza di rispetto: ombra e silenzio.

Come si fa?
Dipende, innanzitutto, da dove ci si trova, su un luogo della Shoah o no. Nel primo caso, il luogo paralizza, mette in crisi per il suo valore storico, testimoniale, drammatico. Cito un altro esempio ancora: Treblinka. A differenza di Auschwitz, questo campo è stato raso al suolo dai nazisti. Negli anni 60 è stato deciso di realizzare un memoriale su quel campo ed è stato fatto un progetto di grande valore perché unisce la qualità dell’interpretazione con la dimensione dell’esperienza. È uno dei casi più alti di interpretazione poetica della Shoah in un luogo originale, un modo per rendere visibile ciò che non lo è più e che non dovrebbe più esserlo. Qui è l’architettura del paesaggio a parlare. Il percorso per raggiungere il campo, una radura nel bosco, è punteggiato da menir in granito su cui sono incisi i nomi dei luoghi da cui provenivano i deportati e un dolmen monumentale si erge dove c’era la camera a gas. Il messaggio è impressionante: siamo tornati all’inizio di tutto, la civiltà è scomparsa. Si può rappresentare l’indicibile con il linguaggio della preistoria, perché tutti lo capiscono: sprigiona dolore, empatia, senso poetico. Ma occorre esserci, fare esperienza del vero.

L’architettura ha una grande responsabilità.
Questo in ogni caso. Sui luoghi che non sono quelli della Shoah, come per esempio il memoriale che è stato realizzato di recente a Toronto è più semplice, si possono utilizzare simboli diretti, chiari e didascalici perché tutti capiscano che funzione ha un’architettura-monumento. Sui luoghi della storia è invece molto difficile intervenire, a volte impossibile e occorre studiare attentamente ogni dettaglio per consentire al pubblico di leggere le tracce ancora percepibili di quei luoghi, per cogliere il significato che racchiudono, magari con una ricerca di senso poetica, ma senza forzature e licenze interpretative.

Come avete condotto il lavoro per il Memoriale di Milano?
È stato decisamente molto complesso perché il luogo è stato fortemente modificato nel corso del dopoguerra a parte l’area dei binari che si è conservata abbastanza integra. Abbiamo quindi lavorato in maniera archeologica, scavando, togliendo tutto ciò che era stato aggiunto per rivelare l’essenza profonda del luogo e la sua spazialità senza ricorsi di ordine filologico. Il passaggio successivo è stato dotare il sito di dispositivi di testimonianza e documentazione fatti degli stessi materiali della stazione e in dialogo con essa, in modo da rendere questo luogo leggibile come documento attraversabile di cui poter fare esperienza. Il progetto introduce in tal senso uno scarto interpretativo basato sulla narrazione che scaturisce dal dialogo tra i nuovi interventi e il contenitore-reperto per rivelare il meccanismo della deportazione. Si è reso visibile ciò che c’era ma era incomprensibile ed è stato possibile farlo attraverso la sua interpretazione e riattribuzione di significato: un’operazione delicata in un luogo che è, al contrario, la quintessenza della perdita di senso. Il percorso costruito al suo interno per distanziamento dalle strutture della stazione, consente di confrontarsi in ogni momento con la dimensione del vuoto, con la frattura determinata dall’assenza e dall’immanenza della violenza che le strutture della stazione continuano a trasmettere insieme al frastuono dei treni che oggi come allora scorrono al di sopra delle lunghe gallerie che lo caratterizzano.
Il Memoriale della Shoah di Milano è stato progettato per non diventare un museo di vetrine, ma un laboratorio della Memoria che mette al centro l’eredità dei Sopravvissuti attraverso i loro racconti, per rielaborarla e proiettarla sul presente attraverso le Stanze delle Testimonianze, l’Osservatorio sospeso sull’area delle deportazioni, il Luogo di Riflessione e la grande biblioteca specialistica su tre livelli, integrata da un’area mostre, spazi per lo studio e un auditorium.

Il 25 gennaio alle ore 15, nell’ambito delle manifestazioni coordinate dal Comune di Venezia per la Giornata della Memoria, Guido Morpurgo terrà una conferenza dal titolo “Architetture per la Memoria. Icone retoriche o forme significanti?” Aula Magna Tolentini, Università Iuav di Venezia, in diretta streaming.

Micol De Pas

È nata a Milano nel 1973. Giornalista, autrice, spesso ghostwriter, lavora per il web e diverse testate cartacee.


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