Una conversazione con Vittorio Robiati Bendaud a proposito del suo libro scritto con Ugo Volli, “Discutere in nome del cielo” edito da Guerini e Associati
Il dialogo è il tema della giornata europea della cultura ebraica. Lo sono i dialoghi, per la precisione, ma in ogni caso si tratta di quel discorso fra parti diverse, di quel dire in mezzo, stando all’etimologia greca, che poco ha a che fare con la versione pacifica o melliflua a cui spesso diamo credito oggi. Il dialogo è una lotta e vince chi riesce a non far confutare il proprio pensiero. E può rivelarsi anche un’arma letale. Delle radici del dialogo in seno alla cultura ebraica, come pure del dialogo interreligioso, parla il libro di Ugo Volli e Vittorio Robiati Bendaud, Discutere in nome del cielo, appena pubblicato da Guerini e Associati, da oggi in libreria e presentato pochi giorni fa al Senato della Repubblica. “Il dialogo non è fusione di discorsi o coincidenza di opinioni”, precisa subito Robiati Bendaud,“bensì è discorso che sta in mezzo, è una regolata forma di lotta per la conoscenza, con una struttura letteraria ben precisa, e talvolta potenzialmente mortale”.
Chiarissimo nel fare piazza pulita di buonismi e di romantiche visioni di una possibile armonia universale da realizzarsi attraverso il dialogo, aggiunge: “Oggi abusiamo di questa parola per trattarla in modo apotropaico, quasi esorcistico o taumaturgico. Ogni dialogo autentico, anche quando vi sono tensioni, è certamente però un’assunzione di responsabilità: vi è riconoscimento, dunque si legittima l’altro, e vi è reciprocità. Riconoscimento, legittimazione e reciprocità sono la chiave perché il dialogo esista davvero e sia credibile”. Il libro propone un’analisi semiotica da parte di Ugo Volli del dialogo come mezzo di comunicazione. Si passa da quello greco a quello ebraico che non è una teoresi ma una prassi, non verte sulla conoscenza o la verità, ma sull’eticità. “Nella Bibbia incontriamo un dialogo non riportato tra Caino e Abele, che termina con l’omicidio. Non sappiamo che cosa si dicano i due fratelli, sappiamo solo che si parlano e a quale conclusione arrivano. Infine, sempre nella Torah, troviamo la domanda che Dio pone ad Adamo: dove sei? Ovvero, dove ti poni? Che è una richiesta di responsabilità, un dialogo etico sull’individuazione del sé. Queste le basi che poi diventeranno il dialogo specifico della tradizione di Israele, che si concretizza, sviluppa e regola nella discussione talmudica”, continua Robiati Bendaud. Volli procede attraverso Buber, Levinas e Benveniste alla scoperta dell’ io-tu, della “seconda persona”, passando poi all’ io-esso, in un’analisi dell’oggettivazione dell’altro, ossia di un allontanamento da sé.
Vittorio Robiati Bendaud si concentra nel suo saggio su come l’ebraismo ha tematizzato l’altro da sé ‘religioso’, ossia i cristiani e i musulmani . Chi sono? e come ci si confronta con loro? Risponde Robiati Bendaud: “Nel Tanakh e nel Talmud vi è un’alterità negativa, gli idolatri. La Torah prevede però anche un’alterità grandemente positiva, quella di non-ebrei degni, buoni e giusti. L’esempio primo è Noè. Ma vi sono anche Melchisedek e, certamente, Giobbe. Il noachide è ciò che gli ebrei un tempo furono, ossia prima di Avraham, come pure l’alterità positiva contemporanea dell’ebraismo oggi”. Nella prospettiva tradizionale dell’ebraismo, delle cui evoluzioni Robiati Bendaud rende conto in questo studio, Islam e cristianesimo aiutano a sradicare l’idolatria, secondo varie opinioni, e dunque sono da considerarsi provvidenziali e positivi. Da questo concetto, poi, c’è anche chi ha sostenuto che le due fedi monoteistiche contribuiscono ad innalzare il livello spirituale del mondo. La disamina procede fino al Medioevo, dove vengono fissati i termini principali della normativa rabbinica tutt’oggi vigente. Nel far ciò vengono considerati alcuni “dialoghi” interreligiosi inscenati nelle opere teologiche di Giustino e di Abelardo, di Yehudah ha-Levì e Raimondo Lullo, fino ad arrivare a Dante e a Manoello Romano.
L’ebraismo, dunque, come si pone rispetto alle altre due fedi monoteiste? “Se, da un lato, a cristiani e musulmani si riconosce il compito di combattere l’idolatria, affiancando l’ebraismo, dall’altro si fa un distinguo. Perché il cristianesimo pone una serie di problematiche delicate, a cominciare dalla doppia Natura -umana e divina- di Gesù e della Trinità. Secondo le fonti tradizionali ebraiche, per i non-ebrei, il cristianesimo è una forma valida di monoteismo, che li fa uscire dall’idolatria e li mette in rapporto con Dio, mentre per un ebreo è un monoteismo “imperfetto”, come lo definì nel X secolo Sa‘adyah Gaòn, risultando problematico. L’Islàm invece è considerato dalla maggior parte delle fonti teologico-normative a tutti gli effetti un monoteismo, che proclama l’Unità e l’Unicità divine, come l’ebraismo. Questo ha reso possibile una prolungata serie di prestiti vicendevoli tra ebraismo e Islam, perdurati secoli, sia in ambito teologico, che normativo-rituale, che mistico”.
È nata a Milano nel 1973. Giornalista, autrice, spesso ghostwriter, lavora per il web e diverse testate cartacee.