La recensione
Non comminare la pena ad Adolf Eichman. Cioè, lasciarlo in libertà, nella sua colpevolezza accertata e dichiarata dal processo a suo carico. Era una delle opzioni messe sul tavolo dalla giuria del processo dei processi, quello che si è svolto a Gerusalemme, seguito dalle televisioni e dalla stampa di tutto il mondo, dopo la cattura del criminale nazista in Argentina. Golda Meir fu la prima a opporsi senza esitazione a questa possibilità, portando avanti le ragioni di Stato (“Il mondo”, avrebbe detto, “non si è ancora abituato a considerare il popolo d’Israele un popolo come gli altri”) e l’esigenza (da parte di ebrei e non ebrei) di condannare Eichmann. Ma dal punto di vista filosofico, la posizione Avraham Burg è dirompente: Israele avrebbe dovuto sospendere la condanna a morte per “mostrare come la migliore risposta al nazismo fosse quella di affermare il valore sacro della vita”. Così scrive Gabriele Nissim nel suo ultimo libro, Auschwitz non finisce mai, da poco uscito per Rizzoli, riportando anche la tesi di Walter Kaufmann, che riteneva che sarebbe stato molto onorevole per Israele lasciare il criminale in libertà dopo averlo giudicato e condannato e quella successiva di Levi Eshkol che propose una riduzione della pena prima e l’ergastolo poi. Una visione spiazzante, che apre a interrogativi interessanti.
Perché? Perché il processo Eichman segna un momento dirompente nella storia dell’umanità e, più in particolare in quella dello stato d’Israele: fu un momento di autoeducazione nazionale, rappresentò la possibilità di confrontarsi con la memoria. E qui forse sta una delle questioni più importanti e profonde affrontate nel volume di Nissim, strenuo combattente di una memoria viva capace di fare da monito contro tutti i genocidi. Stanno qui probabilmente anche le ragioni del titolo di questo volume, se non tutte almeno in parte: perché Auschwitz non finisce mai?
Facciamo un passo indietro. Al momento della cattura di Eichmann si posero diverse questioni: chi doveva giudicarlo? Da chi doveva essere composto il tribunale? Si decise che “Israele, come rappresentante di tutte le vittime, si facesse carico del processo con la sua magistratura, i sui giudici, i suoi testimoni”, spiega Nissim, che poi sottolinea le critiche mosse da Avraham Burg a questa decisione. Secondo il filosofo infatti Israele avrebbe dovuto creare un tribunale internazionale con diversi rappresentanti di etnie e religioni diverse. Allora il processo Eichmann avrebbe parlato della distruzione degli ebrei come una questione che riguardava l’intera umanità, divenendo monito contro tutti i genocidi.
“Con il passare degli anni il discorso sull’unicità creò una barriera alla comprensione dei genocidi degli altri. La Shoah non venne letta come un genocidio estremo e un non precedente nella lunga catena che aveva attraversato la condizione umana, ma come una catastrofe che aveva colpito soltanto gli ebrei”, scrive Nissim, “Nuovamente si riproponeva la millenaria divisione tra gli ebrei e il resto dell’umanità“. Cosa succede dunque davanti al dolore degli altri? La questione è indagata a lungo da autori di diversa estrazione, ma tornando al pensiero di Burg, quel mai più di cui si è fatto certamente portatore il processo Eichmann è un “mai più a noi?”. E gli altri mai più? Quale indifferenza mostriamo e invece quale responsabilità abbiamo nei confronti degli altri genocidi a cui occorre opporre un mai più? Burg quindi ricorda la tragedia degli armeni e il mancato riconoscimento di quei fatti da parte di Israele. Shimon Peres, riporta sempre Nissim nel suo saggio, dichiarò che Israele respingeva ogni tentativo di creare un parallelismo tra la Shoah e il dramma del popolo armeno: “Gli armeni hanno vissuto una tragedia, ma non un genocidio”.
Burg allarga il campo visivo e in un discorso tenuto alla knesset nel 2004 chiede di ampliare la battaglia contro l’antisemitismo a quella contro i nuovi odi che si manifestano nel mondo. Non solo. Immaginava che Israele potesse diventare il Paese simbolo della lotta contro tutti i genocidi, ospitando un tribunale internazionale permanente per i crimini contro l’umanità e che Yad Vashem potesse diventare luogo della memoria di ogni crimine contro l’umanità intera. Un sogno universale, molto concreto per l’intellettuale e politico israeliano che vedeva nell’idea di unicità della Shoah e nella conseguente chiusura della società israeliana nella differenza dal resto del mondo come una forma di vittoria di Hitler.
Il viaggio proposto da Nissim si snoda lungo varie tappe, dedicando grande spazio al lavoro di Raphael Lemkin per la prevenzione di ogni genocidio. Per Lemkin, non commettere i genocidi avrebbe dovuto essere il patto comune a tutte le nazioni, un comandamento che avrebbe unito l’umanità dopo la Seconda Guerra mondiale. Tanti i pensatori scandagliati in questo volume, tutti legati da un fil rouge che in qualche modo fa capo a una domanda: cosa significa essere persone responsabili dopo la Shoah? Tante le risposte, da Hannah Arendt fino a Agnes Heller, per riflettere su quell’evento indicato per sineddoche come Auschwitz e il suo non finire mai. Ma non finisce mai, come si legge nella citazione di David Grossman che chiude il volume, nemmeno la possibilità del contrario, quel farsi giusti davanti all’ingiustizia di chi crede che “vita e libertà siano una cosa sola e che non ci sia nulla di più sublime dell’umano nell’uomo”.
Gabriele Nissim, Auschwitz non finisce mai, Rizzoli, pp. 266, 19 euro
È nata a Milano nel 1973. Giornalista, autrice, spesso ghostwriter, lavora per il web e diverse testate cartacee.