La casa di accoglienza israeliana si racconta nella testimonianza di un’operatrice
Per le vittime di violenza che provengono da comunità fortemente osservanti è importante trovare rifugio in luoghi attenti anche ai bisogni spirituali. Bat Melech, che in Israele gestisce due case-rifugio, nasce per venire incontro a questa esigenza. Pubblichiamo la testimonianza di una coordinatrice dell’associazione, riferita all’anno 2015. Bat Melech è tutt’ora in funzione e chi desiderasse conoscere le sue attività più recenti, può consultare il sito oppure la pagina Facebook.
Quando dico che lavoro in una casa-rifugio per donne vittime di violenza che provengono dalla comunità religiosa, le reazioni si dividono in due categorie. Per alcuni è uno choc scoprire che cose del genere possono accadere in una comunità così “timorata di Dio”; per altri, invece, è l’ennesima prova dell’ineguaglianza di genere nel mondo religioso. La verità è che queste percezioni sono errate e giuste a un tempo.
In Israele, ci sono solo 14 case-rifugio per vittime di violenza domestica riconosciute dal governo. Due servono la popolazione arabofona, due la comunità religiosa ebraica, e le rimanenti servono la popolazione generale. La violenza sulle donne esiste in ogni comunità, gruppo culturale e Paese. La religione non esenta da queste statistiche. Tuttavia, nelle comunità ortodosse e ultraortodosse si possono osservare delle dinamiche uniche. Le donne che intraprendono un percorso di riabilitazione devono riscoprirsi non solo come madri, ma anche come esempio spirituale per i propri figli. Da noi, hanno l’opportunità di sperimentare attività alle quali non si erano mai avvicinate, come yoga, zumba, teatro e arte: uno sbocco creativo fino ad allora ignorato. Alcune trovano il modo di reinventarsi una carriera grazie ai nostri corsi professionali. Riscoprono le proprie passioni.
Nel 2014, le donne vittime di violenza ospitate in queste realtà sul territorio israeliano sono state 755. Di queste, il 24% si è definita religiosa, il 25% ultra-ortodossa e il 39% araba. Il termine “religioso” in Israele ha una molteplicità di applicazioni. Queste statistiche, prese da sole, sembrano dimostrare che il tasso di violenza in Israele è più alto presso le minoranze. Ma la violenza domestica e il bisogno di chiedere aiuto sono questioni ben più complesse.
Le donne vittime di violenza in genere approdano a questi luoghi come ultima possibilità per salvarsi la vita. Ce ne sono diverse che possono invece far conto sulla famiglia o su qualcuno che può ospitarle. Tuttavia, per le donne provienienti da una comunità religiosa in cui l’atto di lasciare il marito si accompagna a grande riprovazione, quella di una casa-rifugio è una buona opzione. Una soluzione per quelle che avrebbero dei famigliari disposti a ospitarle, se non fosse che manca lo spazio per tutti i bambini; per chi è una convertita o una olà chadashà [immigrata] senza famiglia o connessioni nel Paese; e per chi ha un livello di osservanza religiosa diverso da quello della propria famiglia d’origine e che quindi sarebbe a disagio a farsi ospitare da essa.
C’è una forma di violenza unica nel suo genere che può svilupparsi nelle comunità religiose. La si definisce “violenza religiosa”. Non hai fatto quello che ti avevo detto, dunque non hai il permesso di accendere le candele di Shabbat. Non hai il permesso di pregare perché non vai d’accordo con me, dunque Dio non ti vuole ascoltare. Questi esempi di controllo totale sulla vita spirituale delle donne supportano ulteriormente il bisogno di una casa-rifugio religiosa. Bat Melech, dove io lavoro, gestisce le due sole case-rifugio in Israele che osservano lo Shabbat e la kasherut. Le terapie offerte sono attente a questa forma di “abuso religioso” e guidano le donne attraverso una riablitazione che è anche spirituale.
Molti vedono le donne religiose come oppresse, ignoranti, emarginate. Certamente questi aggettivi possono descrivere certe situazioni, ma per una persona osservante che è vittima di violenza, la religione può essere una via di fuga o di salvezza. Uno sguardo esterno potrebbe pensare che dalla religione deriva la violenza, ma per queste donne dalla religione deriva la salvezza. Nella nostra casa-rifugio le donne sono accolte a braccia aperte ed esse sentono che la religione può diventare un luogo di guarigione, e non più una fonte di dolore. Molte qui prendono shiurim, lezioni, oppure studiano in chevruta, cioè in coppia, e diventano libere di praticare la religione come desiderano.
La violenza è violenza, ed è importante non avere preconcetti sulle vittime di queste comunità. Arrivano da noi donne che non hanno il diploma di scuola superiore o che hanno il dottorato, da sole o accompagnate da otto figli. Hassidiche, harediot (ultra-ortodosse), sioniste religiose, sefardite, ashkenazite, etiopi, russe, americane, francesi, e ognuna di loro ha una storia diversa e allo stesso tempo condivisa di violenza. Mentre fuori, nella società israeliana, queste differenze tenderebbero a dividerle, nella casa-rifugio Bat Melech vivono in sintonia.
Traduzione di Silvia Gambino
Cara Frazin lavora come Program Manager presso Bat Melech, punto di riferimento in Israele per le donne religiose vittime di violenza. Ha conseguito la laurea triennale in Cinema e Studi Ebraici presso la University of Illinois a Chicago, sua città natale. Dopo la aliyah nel 2012, ha ottenuto la laurea magistrale in Glocal Community Development Studies presso l’Università Ebraica di Gerusalemme.