Cultura
Bella ciao, la canzone per pensare a domani

Una promessa, anzi un patto civile necessario per costruire l’avvenire. Senza rimpianti per il passato e con una grande nostalgia per il futuro

Quest’anno Bella ciao si vestirà di un nuovo, ulteriore significato. Non dovrebbe forse, non so, ma è innegabile e inevitabile che quando ci ritroveremo a cantarla sabato, tutti insieme anche se lontani, nella nostra mente quel canto assumerà una nuova sfumatura.
Capisco la proposta di cantare Bella ciao trasformando quel gesto in un atto di presa collettiva della piazza, anche se concettuale più che fisica. Piazze vuote non vuol dire infatti “tutti a casa”. E non vuol dire che la piazza sia a disposizione di chiunque.
Quel gesto tuttavia non elimina la domanda che ci accompagna da settimane: che senso dare al dopo? Come ritrovarlo? Che cosa significa “Tutto non sarà come prima”? o “Tutto andrà bene”? Come affrontare il dopo come sfida?
Sono alcune delle domande che credo molti abbiamo a cuore.  La festa di aprile come impegno a un nuovo inizio. Perché quell’atto avrà valore solo se riuscirà a costruire comunità. Un insieme di gesti dal basso (cantare) senza pensare che quel gesto dimostri che siamo comunità. Per dimostrare che siamo comunità occorre che ci sia una scelta per il giorno dopo. Ovvero Bella ciao come lo strumento e la piattaforma emozionale per firmare un patto. E in fondo  Bella ciao è sempre stata questo.

Alle 15 del 25 aprile penso che molti intoneranno Bella ciao.
È importante. Occorre un rito, un gesto, un atto che compiuto insieme, nello stesso momento, esprima l’idea di comunità, dica “ci siamo” e dunque testimoni di una collettività che c’è. Ferita, ma presente. Viva. Forse anche rispetto al tema della morte, del lutto collettivo cui bisogna essere in grado prima ancora di rispondere, di sopportare.
Il fatto che le parole di una canzone sostituiscano l’azione di un corpo (ovvero, per esempio, esserci in una manifestazione, o andare per luoghi che sono stati i luoghi di eventi) deve essere valutato per il peso che appunto si dà a un testo che ha già molti significati e ora deve caricarsi di nuovi.
È probabile che tutto questo dia ancora ragione a Italo Calvino, che già nel 1949 aveva intuito come “alla canzone partigiana e alla storia partigiana raccontata,” sarebbero stato affidati nel tempo tanto la memoria come il significato di un tempo storico.
Questa volta è probabile che il significato abbia un peso molto più profondo. A lungo vissuto «per ricordare» è probabile che ora Bella Ciao debba preoccuparsi di stimolare una funzione «per fare». Quella funzione non discende dal testo, ma dalla conseguenza di trovarsi insieme in forma inedita, per certi aspetti «monca».
Come spesso capita quando situazioni estreme obbligano a decisioni non previste o a trovare una soluzione “improvvisando”, siamo a un bivio e la forza di quel gesto, cui affidiamo la memoria avrà efficacia se non sarà solo memoria, ma determinazione a fare.
La soluzione, invece, siamo noi. Dobbiamo saperlo. Quando scrivo “noi” intendo sia coloro che si uniranno in quell’atto, sia chi lo rifiuterà. Il tema è come si costruisce comunità, e come si crea consapevolezza del nuovo costume. Questo non riguarderà solo chi si unirà al canto, ma tutti. Per questo quel gesto avrà successo non solo se esprimerà comunità, ma progetto.

Ciò significa che Bella ciao farà un salto di qualità (o si candida a fare un salto di qualità) e aggiungerà un nuovo capitolo alla sua storia, già molto complicata e significativa. Di nuovo il tema sarà come noi ne usciremo.
Per spiegarmi comincio dalla fine.

Dentro la storia di Bella ciao, c’è sicuramente un pezzo di Resistenza in tempo reale (come dimostra ampliamente Marcello Flores nel suo libro Bella Ciao, edito da Garzanti). Ovvero il fatto che sia una bufala la convinzione più volte ribadita da Giampaolo Pansa, ripetuta anche in questi giorni che quel canto sia un’invenzione, e che la Resistenza non abbia niente a che vedere con quella storia.
Tuttavia, quel testo contiene molta parte della storia italiana che precede e segue quella stagione.
C’è da una parte, come ricorda Flores sulla scorta di un giovane Umberto Eco molto carduccianesimo e dannunzianesimo, ma c’è soprattutto un modo di vedere come funziona la macchina della memoria pubblica.
“I canti della Resistenza – sottolinea Flores nella parte conclusiva del suo libro – sono stati molto più spesso quelli che gli studiosi hanno chiamato di tipo antropologico-strutturale («cioè canti che servono da testi ideologici su materiale musicale che appartiene a mondi ideologici diversi, anzi addirittura contrari») che non di tipo ideologico-strutturale («quelli in cui ad una nuova ideologia corrisponde una struttura antropologica musicale pertinente»).
Dunque, quando riflettiamo, proponiamo di cantare Bella Ciao, ragioniamo intorno a un uso del passato al tempo presente e in relazione ai bisogni del presente. Credo sia un’indicazione importante. Diversamente cantare Bella ciao rischia di ridursi ad atto folclorico per certi aspetti nostalgico». Dunque, indicazione non solo utile, ma anche essenziale per riflettere sul senso di questo 25 aprile. Ovvero in questo anno 2020 e in questa congiuntura.
Occasione che credo sia importante guardare e «vivere» non come celebrazione della liberazione e, dunque come tappa finale di un processo, ma come anticamera verso la libertà, e dunque come luogo/tempo o, se si preferisce, come luogo di memoria in cui la sfida è data da ciò che si farà domani, e non da ciò che si chiude oggi.

Prima questione
Quando Goran Bregovic, con la sua Wedding and Funeral Orchestra, parte dolente, poi un colpo di tamburo accelera il ritmo, trasforma Bella ciao in una danza ebbra di gioia, mentre stantuffa il suono degli ottoni gitani, lì si compie un passaggio fondamentale.
Non so con quale spirito il 25 aprile verrà cantata Bella Ciao, forse con nostalgia, forse con tremore. Ma terrei presente quel passaggio. Perché quel passaggio non è volto a celebrare, ma a stimolare, a «risvegliarsi», avremmo detto un tempo. Oggi preferisco dire a «riprendere consapevolmente la responsabilità di vivere», ovvero di «scegliere».
Dentro e sotto a quel testo, come ha raccontato Cesare Bermani c’è una storia lunga di sofferenza, di sogno, ma forse, come ha richiamato Marcello Flores, c’è un appello al (più che di) riscatto.
Riscatto (una parola importante su cui tornerò più avanti) che parla le molte storie dell’Europa dalla fine dell’800 fino al nostro ieri (in Italia, ma anche fuori d’Italia, fino alle assonanze con la cultura Yiddish).
Per questo capisco chi canterà Bella ciao il 25 aprile. Lo capisco, ma credo che una volta che quel canto cesserà, bisognerà essere pronti e disponibili a farsi carico di una scelta di futuro che riguarda il nostro tempo presente. Diversamente quel canto rimarrà una parentesi, un momento di distrazione pensando a un tempo storico che presagiva futuro a fronte di questo nostro tempo, ora, che non riesce a pensarlo.
Dobbiamo essere consapevoli che allora nessuno aveva intenzione di distrarsi o di sviare lo sguardo dai duri compiti del momento. Se c’è un senso di continuità che Bella ciao deve evocare, quella continuità sta esattamente in quel tratto. Non canteremo per ricordare, ma per dire che siamo pronti a fare.

Seconda questione.
Bella ciao è una canzone a molte entrate.
Bella ciao è una canzone d’amore e di tristezza (il senso della storia che narra non è forse fondato sul lutto?).
Ma è anche una canzone di sfida, come se fosse un nuovo Robin Hood, come sottolinea giustamente Marcello Flores, ricordando il suo uso in La casa de papel, storia di una grande rapina – andata in onda dal 2017 e vincitrice nel 2018 di un International Emmy Award, che ha avuto grande risonanza non solo in Spagna ma anche in Italia (col titolo La Casa di carta), Argentina, Brasile. Quando la sentiamo è questa la nota dominante che sentiamo: la ricerca di un atto liberatorio. Tant’è che a lungo è stata interdetta dai palchi ufficiali e anche molti uomini politici democratici la ascoltano con fastidio (l’ultima volta lo si è visto ai funerali di Pietro Ingrao, il 29 settembre 2015).
Non è l’unica contraddizione apparente di quel testo la cui storia è peraltro molto controversa.
Molti dicono di averla sentita nei giorni della Resistenza ma nessuno sa trovare un luogo in cui nasce (In Emilia dicono alcuni, altri vicino a Imperia, altri ancora in Molise). E anche le parole tradiscono una storia lunga le cui tracce portano a Fior di tomba, testo presente alla raccolta dei Canti popolari del Piemonte (Einaudi 2009) realizzata da Costantino Nigra nel 1888.
Non solo. Tracce di Bella ciao, si trovano nelle trincee della Prima guerra mondiale, nei canti delle mondine, nel Veneto. Quei versi hanno molti luoghi e nessun luogo.
Alla fine nella memoria pubblica rimane la funzione di esprimere l’omaggio nel momento del congedo. La comunicazione che si è feriti, ma non vinti; che la partita non è chiusa e che nessuno dimentica.

Dunque, per certi aspetti Bella Ciao è una canzone del dopo, meglio di come dopo si torna a riflettere sul prima, del passaggio che allora si compie.
In che forma oggi questa emozione, o questo sentimento ci riguarda? Meglio: questo testo che cosa descrive di noi oggi, aprile 2020?
Un punto certamente ci descrive. Ovvero il fatto che, come per esempio ne parla nel 1947 Giacomo Noventa, nel suo Discorso sulla Resistenza e sulla morale politica, la resistenza è la sfida di pensare un nuovo futuro senza avere certezze dal passato. Non è stato sapere già. È stato iniziare a pensare, a conversare, a progettare. Qui sta la differenza tra antifascismo e Resistenza. Dice Noventa:

L’antifascismo procede da un sapere, da una certezza. La Resistenza da un non sapere, da un dubbio. L’antifascismo conosce tutte le cause, mortali e veniali, del disastro. L’uomo della Resistenza si domanda invece come mai un simile disastro sia stato possibile. Come mai i fascisti ne siano stati capaci, e gli antifascisti e gli italiani in generale capaci di prevederlo, non di impedirlo. E appunto perché l’antifascismo sa tutto, è tutto rivolto al passato, ma la Resistenza all’avvenire.

Il tema dunque non è avere una soluzione e non è pensare che dal passato ci possa arrivare una ricetta per domani.
La scena non è l’alba del 25 aprile – quella che si potrebbe chiamare la scena dell’avvio della liberazione – ma ciò che portiamo a casa la sera del 25 aprile, e dunque quando raggiunta la Liberazione, si tratta di iniziare a battere la strada per dare forma e volto alla libertà.
Il 25 aprile a lungo ha centrato la sua attenzione sul momento della Liberazione. Oggi dobbiamo essere consapevoli (forse più di allora) che non possiamo mancare all’appuntamento di pensare la libertà.
Per farlo non ci basterà cantare Bella ciao (anche se forse può aiutarci). Dobbiamo assumere un diverso costume.
Il problema è proprio in ciò che faremo, nello spirito e nella volontà che avremo dopo. E nella volontà che sapremo imprimere anche in coloro che decideranno di non esserci perché pensano che il senso di quella storia (ora rinchiusa in quel canto) non li riguardi, o che quella sia una storia minore, un dettaglio di cui si può anche fare a meno. Dobbiamo sapere che quella spinta sarà anche per loro. Perché possono anche decidere di non esserci, ma poi si tratta di fare i conti con la voglia di fare e lì quella parte di energie non possono andare perse.

Provo a farlo servendomi di una parola, del significato che quella parola assume prima e dopo quella scena. Allora e, soprattutto, ora.
La parola su cui voglio proporre un esercizio di riflessione è riscatto.
Riscatto si associa a molte emozioni e a molte convinzioni.
Presume che si debba fuoriuscire da una condizione di inferiorità; che si sia convinti che domani andrà meglio, che tutto è possibile se decidiamo di esserci, che occorre sapere che non tutto sarà possibile fare da soli. Anzi che qualsiasi cosa sarà possibile solo condividendo.
Per essere più chiaro propongo questo fermo immagine.
Nel momento in cui cessano gli spari, improvvisamente tutte le strade che fino a quel momento erano sembrate dei luoghi infidi, tornano ad essere dei luoghi dove è possibile reincontrarsi, parlare. Il riscatto non fa ancora parte di quella scena. In quella scena c’è la felicità. E l’allentamento della tensione.
Il riscatto è invece l’emozione e la convinzione che vive in due tempi diversi, apparentemente senza legami.
All’inizio riguarda un atto.
È la decisione (cui di solito segue un’azione) che ha mosso le persone alle soglie: alcune molto prima addirittura propongono Marcello Flores e Mimmo Franzinelli, già tra 1941 e fine 1942 quando l’azione individuale, o di piccoli gruppi prova a smuovere un quadro che già mostra le prime fratture, pur essendo ancora compatto; altre un po’ dopo, altre, infine, alla soglia del cambio e della fine, nei giorni immediatamente precedenti il 25 aprile.
Poi riscatto è la condizione per fare. Riguarda il giorno dopo la fine, appunto dopo che le strade sono tornate di nuovo a riempirsi, nel momento in cui si tratta di ritrovare la via di casa, quando le luci sulla scena si abbassano.
Lungo quella strada, tuttavia, non si può solo pensre a ciò che ci siamo lasciati alle spalle. Sulla via del ritorno a casa, facendo i conti della lunga giornata che si è aperta con l’impegno, il punto non è cosa si è fatto o che cosa è finito, bensì come s’intraprende la strada del “fare”.
Il giorno dopo la consapevolezza è che niente può essere come prima e che qualsiasi futuro ci sia, quello sarà anche conseguenza di ciò che ognuno farà: non si tratta di attenderlo, si tratta di farlo.
Convinzione duplice: da una parte è l’emozione del giorno dopo, quando si tratta di fare i bilanci, quando con tremore, insieme alla felicità si cerca di trovare le persone che non si vedono da tempo senza sapere se ci saranno. Come tutte le scene del “giorno dopo” è una condizione che è carica di sorpresa, di domande, e dal timore delle risposte possibili che possono arrivare.
Dall’altra, proprio perché la liberazione non è avvenuta da soli, anche il futuro diventa progetto solo se definito da un patto, da una voglia di non venir meno, insieme.
Il riscatto è dunque un’emozione che non fotografa un’istantanea, descrive un tempo, talvolta anche lungo. Non è solo fare qualcosa, ma è misurare nel tempo, talvolta anche in un tempo lungo, se quella cosa è stata, se non siamo venuti meno, se ce l’abbiamo fatta. Per capire, se non tutto ha funzionato, dove si può migliorare, tornando a mettere attenzione sulle cose.

Forse non avremmo dato oggi un peso a questa parola se il presente non ci ponesse l’urgenza di trovare un senso al nostro esserci qui.
A differenza di 75 anni fa noi abbiamo ancora il nostro avversario vivo, forte, davanti a noi e non “in fuga” dietro di noi.
Eppure, anche così, quel confronto anziché farci percepire quel tempo come estraneo, o come lontano, forse evoca una ulteriore significato della parola riscatto che ha segnato quel tempo che sarà determinate anche nel nostro.
Quel riscatto viveva pochissimo della memoria di prima, vive invece moltissimo della volontà collettiva di non venir meno a un patto di ricostruzione che è determinazione a fare e che preliminarmente partiva dalla convinzione che si trattava di mettere nel conto molte cose a cui prima si dava valore scarso.
Un fare che anche è conseguenza di una presa in carico di ciò che non è da ripetere, di strade da abbandonare; di nuove forme dell’agire individuale e collettivo. Di una idea rinnovata di patto civile, da sottoscrivere, per dare un nuovo corso al nostro tempo di vivere.
Ecco quella idea di riscatto che sa di avere il proprio corpo immerso nelle strette del proprio tempo, ma che non può non pensare al tempo dopo. Senza rimpianti per prima; con una enorme nostalgia di futuro.

David Bidussa
Redazione JOI Mag

Classe 1955, nato e cresciuto a Livorno, studia a Pisa dove inizia la facoltà di Filosofia, ma si innamora di quella di Storia. Ha insegnato al liceo e all’università, da anni lavora alla Fondazione Feltrinelli in quanto Direttore dei contenuti editoriali. Si definisce uno storico sociale delle idee (ci ha assicurato essere una vera specialità, benché nessuno finora abbia capito cosa sia). Scrittore e giornalista, dicono che il suo branzino al sale sia leggendario.


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