Cultura
Bereshit Rabbah, un testo fondamentale della civiltà ebraica

Il più antico midrash di tipo esegetico, un testo che a ogni pagina riserva voli pindarici, accostamenti imprevisti, affascinanti sorprese e meraviglie di ogni sorta

Della più importante raccolta di midrashim sul libro di Bereshit/Genesi, Bereshit Rabbah, esisteva una edizione italiana pubblicata nel 1978 dalla casa editrice Utet nella collana dei “Classici delle religioni”. Da molti anni ormai introvabile, torna oggi in libreria con Giuntina, che meritoriamente ripropone questo testo fondamentale della civiltà ebraica in quello che va considerato un evento importante per l’editoria ebraica in Italia. La traduzione, con pochi ritocchi, è quella già della versione Utet del rabbino Alfredo Ravenna, autore inoltre di una utile introduzione anch’essa riproposta, mentre il volume si arricchisce di una nuova breve introduzione di Riccardo Di Segni.

Insieme al contemporaneo e molto più breve Ekhà Rabbah (sul rotolo delle Lamentazioni), Bereshit Rabbah è il più antico midrash di tipo esegetico, cioè che si dipana attraverso l’esegesi dei versetti di Bereshit presi in considerazione (con qualche vuoto) uno dopo l’altro. Le proposte di datazione variano sensibilmente, ma è ragionevole collocare con Günther Stemberger la versione pressoché definitiva del testo all’inizio del V secolo e.v. Questo non significa che Bereshit Rabbah non raccolga e rielabori – in quale misura è spesso difficile dire – contenuti precedenti anche di alcuni secoli (indicativamente il III e IV). Sul luogo di elaborazione dei midrashim, l’area palestinese, non ci sono invece dubbi. Articolato in cento sezioni di lunghezza diseguale da redattori tardi, è attribuito dalla tradizione all’opera di rabbi Oshayà il grande perché suo è il primo nome che compare nel testo. Di fatto si tratta di un libro anonimo in cui, come nella Mishnà e nel Talmud, non è detto che ai nomi dei tanti rabbini citati corrispondano effettivamente precise personalità. Sulla composizione, redazione e trasmissione del testo è molto più quello che ignoriamo di quello che gli studi ci hanno finora reso noto.

Bereshit Rabbah è uno di quei testi che a ogni pagina riservano voli pindarici, accostamenti imprevisti, affascinanti sorprese e insomma meraviglie di ogni sorta. Un libro da leggere dal principio alla fine oppure da aprire a caso, scegliendo qui e là, o ancora da consultare in modo mirato per constatare come i rabbini di epoca classica leggono e amplificano una figura o un episodio di quelli narrati nel primo libro della Torà. Molte delle centinaia di midrashim che affastella sono lunghi poche righe e non costituiscono, come tante loro riscritture moderne e contemporanee – tanto per fare un solo esempio, quelle di Giacoma Limentani – racconti nel senso che abitualmente attribuiamo al termine, cioè non sono  testi che cominciano con “c’era una volta” e non hanno una struttura magari semplice ma chiara e organizzata come le fiabe dei fratelli Grimm. I midrashim di Bereshit Rabbah sono più simili a lampi nel buio, intuizioni esegetiche fulminee, proposte di amplificazione ulteriormente da amplificare – e questo spiega in parte le tante riscritture divulgative moderne. Commentando versetto per versetto il libro di Bereshit, inoltre, citano sistematicamente altri passi della Torà, che è intesa come un tutt’uno sincronico di origine divina e non come serie di scritti composti in tempi diversi da autori diversi. Nella Torà – qui l’insieme dei libri biblici canonici, cioè il Tanakh, e non solo il pentateuco – non c’è prima e dopo, quindi non deve stupire che per spiegare un versetto ne venga utilizzato un altro anche apparentemente lontano nello spazio e nel tempo. Se il testo biblico viene considerato un tutto organico e divino, tutte le sue parti sono necessarie, non esiste la ripetizione o il superfluo e quello che potrebbe sembrare tale è invece un concentrato di significati che è compito di chi legge sviscerare e portare alla luce. La conseguenza di questa visione che non viene discussa teoreticamente, ma che è tanto più granitica quanto più è data per assodata, è che la densità di ogni particolare, di ogni versetto, parola e perfino lettera è propriamente inesauribile. Il compito dell’interprete è scavare nei significati già tutti intrinseci al testo come possibilità che devono essere dispiegate, liberate, pienamente espresse. Il lavoro dei rabbini che leggono la Torà e la interpretano, cioè fanno midrash, parte da questa messa alle strette del testo di riferimento, che in quanto parola divina immodificabile non teme di essere affrontato con un grado di libertà scarsamente presente nell’esegesi recente, condizionata da questioni teologiche per i rabbini antichi perfettamente irrilevanti.

Midrash come interrogazione del testo dunque: una interrogazione franca, a viso aperto, senza dogmi – sconosciuti alla civiltà ebraica antica e tardoantica -, senza timori reverenziali e senza censure nei confronti degli esiti più diversi, anche spiazzanti o paradossali. Alcuni dei midrashim di Bereshit Rabbah sono famosi al punto da convincere oggi molte persone che facciano parte della Torà, anche se così non è. Il più celebre di tutti è probabilmente il racconto di Abramo e di suo padre Terach:

Rabbi Chiyà disse: Terach era un fabbricante di idoli. Una volta uscì lasciando Abramo a venderli al suo posto. Entrò un uomo che ne voleva comprare uno. «Quanti anni hai?», gli chiese Abramo. «Cinquanta», rispose l’uomo. «Guai a un uomo di cinquant’anni che vuole adorare un oggetto che ha un solo giorno!», disse Abramo. In un’altra occasione entrò una donna con un piatto di farina e gli disse: «Prendilo e offrilo loro». Allora Abramo prese un bastone e li spezzò e mise il bastone nelle mani del più grosso. Quando suo padre tornò, chiese: «Che cosa hai fatto?». «Non posso nascondertelo. È venuta una donna con un piatto colmo di buoni cibi e mi ha chiesto di offrirglielo. Uno ha gridato “devo mangiare per primo!”, e un altro “devo mangiare per primo!”. A quel punto il più grosso si è alzato, ha preso il bastone e li ha rotti». «Perché ti prendi gioco di me? Hanno qualche conoscenza?», disse Terach. «Le tue orecchie non dovrebbero forse ascoltare quello che la tua bocca ha detto?», disse Abramo.

Dalla creazione del mondo all’arca di Noè, dall’inganno di Labano nei confronti di Giacobbe, nel corso del quale – la festa di matrimonio con Rachele – il primo semina indizi di fronte ai quali il secondo è cieco e sordo, alla violenza tentata dalla moglie di Putifarre contro Giuseppe in Egitto, dove colpisce la serie di spiegazioni evocate per far risaltare l’autocontrollo e la fedeltà dell’eroe ebreo di contro alla brama ninfomane della padrona, Bereshit Rabbah è forse la più bella raccolta di storie della civiltà ebraica. Non storie fini al semplice divertimento però, non passatempo o invenzione autoreferenziale. Storie, al contrario, orientate al testo cioè alla dilatazione e alla cattura del senso, dei sensi. Per esempio, il versetto “E Dio disse: Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza” viene interpretato in molti modi tra i quali questo:

Rabbi Shemuel ben Nachman in nome di rabbi Yonatan disse: Quando Mosè scriveva la Torah, scriveva le opere della creazione ogni giorno. Quando egli arrivò al versetto: “E Dio disse: Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza”, gli disse: Signore del mondo, Tu dai un pretesto agli eretici?. Gli rispose: Scrivi, e chi vuole sbagliare, sbagli!

Rabbi Shemuel risponde all’obiezione di questi misteriosi eretici – minim in ebraico – che utilizzano un versetto biblico dove compare una forma verbale al plurale (“Facciamo l’uomo”) per minare il monoteismo. Non è escluso che il riferimento vada alla trinità, e che dunque gli eretici siano i cristiani o più verosimilmente i giudeocristiani. In ogni caso il midrash è sì libero, ma non si muove nel vuoto: è saldamente ancorato a un testo di riferimento da spiegare, ampliare e in alcuni casi come questo difendere da quelle che vengono considerate interpretazioni fuorvianti. In sintesi, il midrash è libero nei mezzi ma orientato nel fine.

Possibilità sempre nuova e ininterrottamente rinnovata con cui il senso a ogni lettura si moltiplica, il midrash non è una caccia al significato unico e definitivo del testo, ma il movimento incessante all’interno dei significati per meglio comprendere un testo considerato importante per noi, per la nostra vita qui e ora. Non stupirà quindi non trovare traccia in esso dell’aristotelico principio di non contraddizione, secondo il quale una certa entità non può coincidere con la negazione di sé stessa. All’interno dell’orizzonte midrashico le possibilità esegetiche per principio infinite consentono la pacifica coesistenza di interpretazioni completamente differenti – in termini aristotelici, contraddittorie – a distanza di poche righe. Ancora a proposito del versetto “E Dio disse: Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza”, il midrash immagina che Dio chieda consiglio a ciò che ha creato nei sei giorni prima dell’uomo, cioè le opere del cielo e della terra. Oppure che si rivolga al suo consigliere o architetto di fiducia. Oppure agli angeli del servizio divino – i quali vengono descritti in acceso dibattito tra favorevoli e contrari alla creazione dell’uomo: e “mentre gli angeli erano occupati a discutere fra loro, il Santo, Egli sia benedetto, lo creò, e disse loro: Che cosa discutete? L’uomo è già creato”. Oppure “si consigliò con le anime dei giusti”. E così via in una catena fondata non sull’esclusione reciproca bensì su accostamento e complementarità.

Giorgio Berruto
collaboratore
Cresciuto in mezzo agli olivi nell’entroterra ligure, dopo gli studi in filosofia e editoria a Pavia vive, lavora e insegna a Torino. Ama libri (ma solo quelli belli), musei, montagne

1 Commento:

  1. Buonasera, mi piacerebbe approfondire il tema della traduzione della Torah (per esempio la questione del plurale/singolare del versetto di Genesi sulla creazione dell’uomo). Sapreste consigliarmi alcuni libri che trattano il tema?

    grazie


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