Il il 18 marzo ricorrono 35 anni dalla morte dello scrittore americano. Un ricordo attraverso la lettura filosofica del suo “L’uomo di Kiev”
Bernard Malamud moriva il 18 marzo 1986, esattamente venti anni dopo l’uscita di uno dei suoi grandi romanzi, The Fixer – letteralmente “il tuttofare” – in italiano pubblicato con il titolo L’uomo di Kiev da Einaudi e recentemente riproposto da minimum fax con una prefazione di Alessandro Piperno. Nei primi due capitoli iperconcentrati Malamud descrive l’uscita dallo shtetl, “un’isola circondata dalla Russia”, del tuttofare Yakov Bok, il suo arrivo a Kiev, l’antisemitismo dilagante, il lavoro, l’arresto e l’accusa di omicidio rituale. Il ritmo a questo punto cambia e alla linearità della prima parte, a cui corrisponde la dislocazione nello spazio, subentra la ciclicità e l’immobilità entro le strette mura di una cella. La storia prende spunto da una vicenda realmente accaduta nel 1911 nella Russia dello zar, quando un ebreo era stato accusato di aver ucciso e dissanguato per scopi rituali un bambino cristiano; è quello che accade a Yakov, un ebreo qualunque con l’unico torto particolare di essersi trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato che viene precipitato in un abisso di dolore e infamia. A intrecciarsi con questa trama si possono individuare tanti percorsi, quello che proveremo a seguire è alla ricerca delle tracce di Spinoza.
Yakov è persona dalla formazione modesta ma affascinata dalla cultura. Una volta uscito dal microcosmo dello shtetl dove ogni cosa viene misurata con il metro della legge dei padri, frequenta le librerie di Kiev, compra una Vita di Spinoza, la legge e comincia a farsi domande. “Era possibile imparare qualcosa dalla vita di un altro?”
Al momento dell’arresto il giudice istruttore, che incidentalmente si interessa di filosofia, esamina la minuscola biblioteca di Yakov e lo interroga su Spinoza.
“Perché vi interessa? Ma, innanzitutto, che cosa vi ha portato a Spinoza? Il fatto che fosse ebreo?”
“No, eccellenza. Non sapevo niente, di lui, finché non mi sono imbattuto nel libro. Alla sinagoga non ne sono precisamente entusiasti, se avete letto la storia della sua vita… Ho trovato il libro da un rigattiere, in una città vicina, l’ho pagato un copeco e me ne sono andato maledicendomi perché avevo buttato via dei denari sudati. Più tardi ho letto qualche pagina, e ho continuato come se mi corressero dietro. Non l’ho capito parola per parola, ve l’ho detto, ma quando si ha a che fare con pensieri come quelli par di volare a cavallo di una scopa. Da allora non sono più lo stesso”.
Da qui si sviluppa un dialogo straordinario su Dio, la natura, il pensiero, la necessità e la libertà. “Io penso”, dice Yakov, “che Spinoza volesse fare di sé un uomo libero, per quanto si può, secondo la sua filosofia, non so se mi spiego, andando a fondo delle cose e collegandole”.
Mentre Yakov viene soffocato ogni giorno di più dalle spire di una giustizia ingiusta per la quale è colpevole in quanto ebreo, i richiami alla filosofia e alla vita esemplare di Spinoza si fanno più intensi. La libertà di pensiero e quella politica sono sorelle, spiega parafrasando Spinoza il giudice istruttore, unico a rifiutare il sistema di sopraffazione di cui Yakov è vittima designata e che per questo pagherà con la vita.
“Pensate di avere una filosofia personale? E in tal caso, quale sarebbe?”
“Se ce l’ho, è tutta a pezzi e bocconi. Ho appena cominciato a leggere un po’, eccellenza”, si scusa Yakov, “Se ho una filosofia, è che la vita potrebbe essere meglio di quello che è”.
“Eppure, come si potrebbe migliorarla, se non nella politica, o per suo mezzo?”
Yakov sente odore di trappola e tace. Essere ebreo, questione di nascita e non di scelta, è già un crimine sufficiente agli occhi dei suoi persecutori; sembra proprio che gli ebrei non possano permettersi di pensare politicamente.
Yakov ammette di pensare con la propria testa e viene quindi catalogato, al pari di Spinoza, come libero pensatore. “Non sono religioso. Lo ero da ragazzo, ma poi ho perso la fede”.
Però rimanete ebreo, così il giudice, “se vi vergognate del vostro popolo, perché non abiurate ufficialmente?”
“Io non me ne vergogno, eccellenza. Magari, non sempre mi piace quel che vedo… ci sono ebrei di tutti i generi, come si dice”.
A un certo punto il pubblico ministero, che a differenza del giudice istruttore è un arrivista senza alcun interesse nei confronti della verità, offre a Yakov il miglioramento delle sue condizioni se denuncerà la pratica ebraica dell’omicidio rituale.
“Come potrei fare una cosa simile, eccellenza? […] Perché dovrei accusare degli innocenti?”
“La storia ha dimostrato che non sono poi tanto innocenti. E io non capisco i vostri falsi scrupoli. Dopo tutto siete un libero pensatore […] Gli ebrei significano ben poco, per voi”.
“Se gli ebrei non significano niente per me, allora perché sono qui?”
Durante gli interminabili giorni del carcere, vuoti di tutto tranne di violenza, Yakov ripensa ai pochi libri letti e soprattutto a Spinoza. Pensa alla comunità ebraica di Amsterdam che lo aveva maledetto di giorno e di notte, in casa e per via, al sicario che aveva tentato di ucciderlo per le sue idee, agli anni trascorsi in una stanza a studiare e scrivere e molare lenti e intossicarsi con la polvere di vetro, per morire infine a quarantaquattro anni. Spinoza, in un certo senso come Yakov, aveva vissuto in solitudine entro quattro strette mura, “povero e perseguitato, eppure era stato uno degli uomini più liberi del mondo”: libero nel pensiero, libero dalle passioni e dalla necessità, libero per la filosofia. Quando i suoi torturatori gliene lasciano la possibilità, Yakov riflette sul Dio della legge che nello shtetl trova il suo impero più perfetto e su quello di Spinoza e senza averne forse piena consapevolezza sferra un attacco contro l’antropomorfismo religioso e il finalismo che il filosofo del Seicento avrebbe approvato. Il dio dello shtetl “spunta dalle nubi, dai cicloni, dai cespugli in fiamme, e parla”, quello di Spinoza tace, non sa parlare forse oppure non ne ha bisogno, perché è un’idea eterna e infinita che non si rivela su un monte nel deserto ma si svela nella natura e nel pensiero.
Quando il suocero Shmuel corrompe una guardia e riesce a parlare con Yakov, nel dialogo tra i due si confrontano queste opposte concezioni della divinità e del mondo. Per Shmuel le disgrazie di Yakov sono conseguenza dell’abbandono della fede e dello shtetl, della barba rasa e della noncuranza del tuttofare verso Dio.
“Non voglio saperne di Dio. Più ne hai bisogno, più lui è lontano. Io ne ho abbastanza”, scatta Yakov.
“Non prendertela con Dio, per l’infelicità. Lui ci dà il cibo, ma siamo noi a cuocerlo”, risponde Shmuel.
“Io me la prendo con lui perché non esiste […] Io non sento la sua voce e non l’ho mai sentita. Non so che farmene di lui, se non si fa mai vedere”. Poi prosegue in modo arditamente spinoziano: “O Dio è una nostra invenzione, e non può farci niente, o è una forza della natura ma non della storia”. E una forza, come Yakov sa, non è un padre.
Ancora prigione, sempre più dura, e angherie subite dagli aguzzini e solitudine. Come è iniziato tutto questo?, si chiede Yakov, era forse la volontà di un dio, la necessità inesorabile che rende la libertà dell’uomo mera illusione consolatoria? “Se fosse rimasto nello shtetl non sarebbe mai successo. Non questo, per lo meno. Sarebbe successo qualcos’altro, meglio non domandarsi che cosa”. Ma quando esci all’aperto ecco il vasto mondo pieno di pericoli, così diverso dallo shtetl chiuso e protetto con la sua legge eterna e le sue abitudini e i suoi personaggi e ogni giorno che si ripete uguale. Quando te ne vai sei fuori dove piove e nevica. All’aperto “nevica storia” e tutti sono al freddo e si bagnano, però alcuni più di altri, per esempio gli ebrei più della maggioranza e Yakov, che è pur sempre ebreo, si è bagnato fino all’osso. La storia è una tempesta furibonda, quindi è difficile attraversarla senza danni, sgusciare e passar via sostando nei pochi ripari che sorgono qua e là e aspettando che le raffiche più sferzanti si plachino. “Eppure, quantunque sua madre e suo padre, due ragazzi, fossero rimasti nello shtetl tutta la loro povera vita, il male storico era arrivato al galoppo, per assassinarli dove si trovavano” durante un pogrom. Così l’aperto è ovunque. “Sfibrato dalla storia, Yakov tornò a Spinoza, rileggendo i capitoli di critica biblica sulla superstizione e i miracoli, che sapeva quasi a memoria. Se Dio esisteva, dopo aver letto Spinoza aveva chiuso bottega ed era diventato un’idea”.
Anche quando si avvicina la fine Yakov non maledice il destino, bensì i propri limiti e la malvagità degli uomini e, come ammoniva Spinoza, non pensa mai alla morte. Il tuttofare ha imparato qualcosa sulla libertà e la necessità e sa che i persecutori degli innocenti non sono mai liberi, così dominati da passioni incontrollate che ne decretano la schiavitù. Allora la sofferenza si trasforma in collera, la collera dell’impotenza, quella del granello di sabbia schiacciato da una macchina mostruosa eppure granello consapevole di sé e dunque molto più umano di quella. Occorre attendere l’ultima pagina per una possibile risposta. “Una cosa ho imparato, pensò Yakov. Non esiste, un uomo non politico, specialmente un ebreo. Non puoi esser l’uno senza esser l’altro, è chiaro. Non puoi assistere con le mani in mano alla tua distruzione”.
Forse c’è modo di capovolgere perfino la storia.
“Più avanti, pensò: dove non c’è lotta per la libertà, non c’è libertà. Che cosa dice Spinoza? Se lo stato agisce in maniera incompatibile con la natura umana, il male minore è distruggerlo. Morte agli antisemiti! Viva la rivoluzione! Viva la libertà!”.
Grazie