Tondeggiante, soffice e aromatizzato all’anice: come prepara il dessert portato in Italia dagli ebrei sefarditi dopo l’espulsione dalla Penisola Iberica
Un pane dolce è da sempre sinonimo di festa. Infatti, accosta a un cibo basilare come il pane una qualità come la dolcezza, dieteticamente non necessaria ma dal forte valore simbolico. Non si tratta quindi di qualcosa da consumare tutti i giorni. Di sicuro non lo era nei tempi andati, soprattutto nelle culture più povere, dove zucchero, miele e dolcificanti in genere erano associati alle grandi occasioni. Anche per questo motivo, quando si guarda alla cucina delle feste, è facile individuare preparazioni molto simili tra loro. Tutte abbinano un procedimento quotidiano come l’impastare la farina con acqua e lievito all’impiego eccezionale di ingredienti più ricchi come uova, grassi e, appunto, zuccheri.
Se a questo si aggiunge una lavorazione più complessa rispetto a quella richiesta dalla classica panificazione, con una serie di lievitazioni che impegnano il cuoco per ore e ore, si capisce come una simile preparazione vada per forza riservata alle occasioni speciali. Questa premessa è necessaria per evitare di supporre derivazioni dove esistono solo affinità e di improvvisare alberi genealogici gastronomici dove di parentele non vi è traccia. Tanto per fare un esempio tra i più scontati in questo periodo, basterebbe percorrere la sola Italia per trovare cugini, zii e nipoti di un dolce come il panettone. Nonostante le similitudini, però, sarebbe una versa impresa individuare una reale ascendenza rispetto alle tante focacce dolci diffuse in tutta la Penisola.
Per andare relativamente sul sicuro, si può affinare il metodo di indagine e affidarsi anche alle parole. Allontanandosi dalle ricorrenze cristiane, si scopre così l’esistenza di un dolce molto simile e dal nome pressoché identico in luoghi relativamente distanti, almeno in epoche meno connesse di oggi, come il Veneto e la Toscana. In entrambe le regioni, tra la fine del Quattrocento e il Cinquecento si sarebbe affermato un prodotto da forno tradizionalmente associato alle comunità ebraiche. Parliamo del bollo, un dolce tondeggiante, soffice e aromatizzato all’anice. Con le immancabili differenze, rilevabili peraltro anche da famiglia a famiglia, si tratterebbe qui di una preparazione dall’origine comune, portata in Italia dagli ebrei sefarditi dopo l’espulsione dalla Penisola Iberica.
Preparato con farina, uova, zucchero, anice e uvetta, potrebbe in un primo tempo essere confuso con il buccellato di Lucca. Dalla tradizionale forma a ciambella, questo dolce viene in effetti spesso associato al bollo, ma le sue ascendenze sono diverse. Nonostante le innegabili somiglianze con il pane ebraico, il buccellato avrebbe infatti origine nell’antica Roma, dove il buccellatum era una ciambella formata da una corona di panini. E il nome ne testimonierebbe la composizione a bocconi, cioè a buccellae.
Tralasciando le congetture e tornando alle certezze, per quanto relative, il bollo ha invece dalla sua la quasi omonimia con il bolo o bola, termine che in ladino significa palla. Con questo nome la cucina sefardita indicava storicamente svariati dolci e pasticcini accomunati dalla forma rotonda. I rudimentali impasti fritti dell’epoca antica si sarebbero via via perfezionati nel corso del Medio Evo fino ad assumere la forma di palle, appunto, cotte nell’olio o in forno. Questo secondo tipo di preparazione si sarebbe quindi affermata fino ad assumere le sembianze dell’attuale bollo. Tra le sue caratteristiche, quella di essere di grandi dimensioni, morbido, lievitato e tempestato di uvetta ed eventualmente di canditi. Diverso dalla challah ashkenazita non solo per la forma e la presenza di frutta conservata, ma anche per il fatto di essere servito come dessert e non in apertura di pasto, il pane dolce sefardita avrebbe seguito gli ebrei spagnoli e portoghesi dopo le espulsioni di fine Quattrocento affermandosi poi con nomi diversi e acquisendo nuovi ingredienti e quindi diverse identità.
Il bolo propriamente detto resisterà nei secoli fino a entrare in maniera ufficiale in uno dei testi di riferimento per la cucina sefardita. Parliamo di The Jewish Manual, primo libro di cucina ebraica scritto in inglese firmato da Judith Montefiore, moglie di Moses, banchiere e filantropo di origini italiane. Pubblicato a Londra nel 1846, il ricettario include diverse varianti delle classiche bolas, tra cui anche torte lievitate, ma la versione base coinciderebbe con quella tradizionale iberica, a base di farina, lievito, latte, zucchero, uova, spezie, canditi e burro. Quest’ultimo ingrediente sarebbe il risultato del passaggio degli ebrei portoghesi dai Paesi Bassi, nel Cinquecento sotto il controllo spagnolo. Nonostante la forte tradizione casearia di questi luoghi, pare che almeno inizialmente l’olio iberico l’avesse fatta da padrone, venendo sostituito solo in un secondo tempo dal grasso animale. Le bolas olandesi sarebbero quindi passate con gli ebrei in Inghilterra, imponendosi come dolce tipico di Purim sia nella versione semplice sia in quella arrotolata, nota con il buffo nome di stuffed monkey.
Seguendo invece la strada italica, le bolas sono approdate sia in Veneto, a Venezia, sia in Toscana, in particolare a Pitigliano, sede di una importante comunità ebraica e per questo nota come Piccola Gerusalemme. Nel caso della citta lagunare, il bolo (o bola) sefardita, indicato ormai anche con il nome spagnolo di bollo, si sarebbe distinto come dolce di Sukkoth e delle feste d’autunno. Secondo lo storico britannico Steve Siporin, questo ricco pane fa parte delle tradizioni locali importate dai sefarditi e si sarebbe probabilmente imposto in epoca precedente all’istituzione del ghetto, nel 1516. Pur non facendo parte di uno specifico rituale religioso, per aspetto e composizione il bollo avrebbe fatto le veci del pane come cibo da consumare nella sukkah all’inizio della festa delle capanne. Secondo lo studioso, il dolce sarebbe sopravvissuto fino ai giorni nostri proprio grazie al suo legame con le feste. Sukkoth e Yom Kippur lo avrebbero da una parte tramandato all’interno della comunità, dall’altro ne avrebbero favorito la diffusione al suo esterno. Venduto a tutti nelle panetterie dell’ex ghetto, il bollo viene da sempre acquistato e apprezzato anche dai non ebrei che hanno inconsapevolmente contribuito alla sua sopravvivenza e diffusione attraverso i secoli.
Un discorso non troppo diverso vale per l’altro luogo in cui il bollo è stato introdotto dai sefarditi per poi diventare patrimonio della gastronomia locale. Meno conosciuto del biscottone ripieno di frutta secca noto come Sfratto dei Goym, ma non per questo meno apprezzato, il pane dolce al gusto di anice è uno dei prodotti tradizionali raccolti nell’Arca del Gusto della Fondazione Slow Food per la Biodiversità. Secondo quanto si legge nella scheda di presentazione curata dall’onlus, il bollo sarebbe arrivato nella Maremma grossetana al seguito dei sefarditi cacciati dalla Spagna nel XVI secolo e si sarebbe diffuso sia tra gli ebrei europei sia tra quelli nordafricani. Prodotto ancora oggi a Pitigliano e a Sorana, viene descritto come compatto e dalla crosta color marrone. Così come avviene a Venezia, anche in Toscana “gli osservanti lo offrono in occasione del Sukkoth (…) e lo consumano anche per rompere il digiuno di Kippur, intingendolo in acqua zuccherata e limone”. Sempre secondo la descrizione fornita, dopo secoli di contaminazioni con la cucina dei goym (ossia dei non ebrei), il bollo viene oggi preparato con pasta lievitata arricchita con uova (sei per ogni chilo di farina), zucchero, anice e scorza di limone. L’impasto viene poi modellato tradizionalmente a forma di ciambella, spennellato in superficie con tuorlo d’uovo e quindi cotto in forno per circa un’ora.
Bollo – Ingredienti per 6/8
Per il lievitino: 250 g di farina 2 g lievito di birra fresco.
Per l’impasto finale: 750 g di farina 12 g lievito di birra fresco 6 uova 80 ml di olio extravergine d’oliva 180 g di zucchero 80 g di uvetta 20 g di semi di anice 1 limone non trattato 20 g di sale
Sciogliere il lievito di birra per il lievitino in 250 ml di acqua tiepida, aggiungere la farina setacciata, mescolare e lasciare riposare per 1 ora a temperatura ambiente. Trasferire in frigo e lasciarvelo per 8 ore. Sciogliere il lievito per l’impasto finale in una ciotolina con 50 ml di acqua tiepida. Sbattere le uova a parte in una larga ciotola con lo zucchero, l’olio, i semi di anice pestati e la scorza grattugiata del limone, quindi aggiungervi il lievito sciolto nell’acqua e il lievitino.
Incorporare la farina setacciata e impastare brevemente, poi coprire la ciotola con un foglio di pellicola da cucina e lasciare riposare l’impasto per almeno 30 minuti. Aggiungere quindi il sale e lavorare il composto fino a quando la pasta sarà diventata liscia ed elastica. Lasciarla riposare per 5 minuti coperta, poi stenderla in un rettangolo, cospargerla con le uvette e ripiegarla in 3 parti. Appiattirla di nuovo e ripiegarla ancora in 3.
Trasferire l’impasto ottenuto in una ciotola unta di olio e lasciarlo lievitare coperto con pellicola fino a quando il volume sarà raddoppiato. Riprendere la pasta, appiattirla con i palmi delle mani fino a ottenere un rettangolo, ripiegarlo in 3, poi dargli la forma di un pane rotondo o di una ciambella e lasciarlo lievitare ancora fino a quando avrà raddoppiato il volume. Disporre infine il bollo su una leccarda foderata con carta da forno, spennellarlo con il tuorlo emulsionato con 1 cucchiaino di acqua e cuocerlo in forno già caldo a 180° per circa 1 ora.
Camilla Marini è nata a Gemona del Friuli (UD) nel 1973, vive a Milano dove lavora da vent’anni come giornalista freelance, scrivendo prevalentemente di cucina, alimentazione e viaggi. Nel 2016 ha pubblicato la guida Parigi (Oltre Edizioni), dove racconta la città attraverso la vita di otto donne che ne hanno segnato la storia.