Come quando e perché le mele hanno raggiunto la tavola diRosh hashanà nell’augurio di un anno buono e dolce. Con una ricetta
Difficile trovare una festa ebraica priva di uno o più cibi simbolici. Rosh Hashanah, però, potrebbe batterle tutte. Del resto, come non lasciarsi ispirare dalla speranza e l’auspicio di tempi migliori? E quale luogo più adatto della tavola per celebrarli? Detto ciò, si presenta il compito non facile di classificare gli alimenti e i piatti più adatti ad augurare (e augurarsi) un anno ricco di belle e buone cose.
Un aiuto non da poco potrebbe arrivare dal Talmud, che indica cinque cibi da mangiare a Capodanno: kraa (zucche), rubiya (fieno greco), karti (porri), silka (bietole) e tamar (datteri). Come spiegano gli storici, la scelta di questi alimenti sarebbe però dovuta non tanto al loro sapore, quanto alla somiglianza fonetica dei loro nomi con parole attinenti all’ingresso nel nuovo anno e a tutto quanto questo comporta. Si va dalla somiglianza di kraa con yikara (ossia l’essere chiamati, come noi e le nostre azioni davanti al giudizio divino) a quella tra karti con yikart (cioè essere tagliati (via), come dovrebbero essere i nemici). Tralasciando qui il campo sterminato delle possibili interpretazioni, ci limiteremo a segnalare che per ciascuno degli alimenti citati è spuntata una serie di altri prodotti, simili per aspetto, gusto, nome o colore, che nel corso dei secoli hanno arricchito il primo nucleo originario. Tra tutti, ce n’è uno che è universalmente riconosciuto come simbolo della ricorrenza e che si è affiancato a frutti ad alto tasso simbolico come l’uva, la melagrana e i già citati datteri.
Parliamo della mela, onnipresente nella tradizione ebraica e protagonista di quel rito tanto diffuso a Capodanno di intingerne una fetta nel miele chiedendo un anno buono e dolce. Sono state formulate svariate teorie su come questo frutto così comune abbia raggiunto tanta importanza. La più semplice si basa proprio sul suo essere così diffuso. Ampiamente utilizzate fin dall’antichità, oggi le mele sono il frutto più coltivato nella parte temperata del mondo, disponibili anche in aree climaticamente poco fortunate come l’Europa del Nord e dell’Est. La popolarità però si paga. Così, quando si è trattato di dare un significato univoco al termine con cui la Bibbia indicava i frutti coltivati, la scelta è caduta sulla povera mela. Povera, sì, perché quella che l’ebraico moderno indica come tapuach si è ritrovata protagonista della celebre vicenda nel giardino dell’Eden.
Le Scritture in realtà parlavano di un albero e poi, in caso, di un frutto, senza mai specificare di quale si trattasse. A pensarci, è improbabile che quella che oggi apprezziamo come il risultato di una selezione da specie selvatiche potesse comparire rossa, lucida e bella già nel paradiso terrestre. Dal canto loro, le fonti rabbiniche non avrebbero mai tirato in ballo la mela, prediligendo nell’esegesi i fichi, l’uva, il cedro e perfino il grano… Nonostante questo, la nostra ha finito col diventare, nel bene e nel male (appunto), il frutto per antonomasia.
Seguendo questa interpretazione, la ritroviamo anche in occasioni meno compromettenti e più lusinghiere. Nel Cantico dei Cantici, in particolare, si legge (o sarebbe meglio dire si traduce): “Confortatemi con le mele, perché io sono malata d’amore”, “Come profumo di mele è il tuo respiro”, o ancora, “Come un melo tra gli alberi del bosco”. In tutti i casi, ci si chiede a quale frutto facesse riferimento re Salomone, ma resta il fatto che agli ebrei questa accezione positiva delle mele fosse piaciuta non poco. Tanto da indicarle nel Midrash come simbolo dello stesso popolo eletto e delle sue vicissitudini o comunque, senza spingersi a tanto, come uno dei frutti più beneauguranti, adatti a celebrare le occasioni più festose. Dal canto suo, la mela ha fatto il possibile per meritarsi tanta stima. Capace di raggiungere alte vette di dolcezza (per quanto non paragonabili a quelle di fichi e datteri), è un cibo umile ma orgoglioso, disposto a venire a patti con i compagni di tavola più diversi ma senza perdere una sua ben precisa personalità.
Limitandoci al suo impiego nei dolci, la mela ha accompagnato gli ebrei della diaspora in lungo e in largo per l’Europa e da qui negli Stati Uniti, regalando una nota zuccherina anche alle preparazioni più elementari. Ci riferiamo, in particolare, alla curiosa storia del fluden, dolce preferito dei primi ashkenaziti nato in Francia come elaborazione di un piatto dell’antica Roma. Andando con ordine, pare che ai tempi dell’Impero fosse diffuso il consumo di una sorta di torta preparata con strati di pasta farciti con formaggio dolcificato con miele. Si trattava della tracta, citata con qualche variazione negli stessi Talmud di Gerusalemme e di Babilonia, anche se non si sa di preciso che cosa contenesse all’interno. Di sicuro, la pratica di preparare torte con due strati di sfoglia e una farcia al centro piaceva molto, tanto da essere adottata per i pranzi di Sabbath sia dagli ebrei italiani sia dai sefarditi e, successivamente, dai franco-tedeschi.
A questo punto della storia il ripieno poteva essere sia salato sia dolce. Nel primo caso tendeva a essere di carne, come nella pashtida ashkenazita, nel secondo manteneva l’uso romano di usare del formaggio dolcificato con il miele e prendeva il nome di fluden, dal tardo latino fladon (torta piatta), derivato a sua volta dall’alto tedesco flado. Nato presso gli ebrei francesi, il fluden viene citato intorno all’anno Mille in una discussione tra rabbini di Magonza e Lione sull’opportunità di mangiare la carne con il pane nel caso in cui questo fosse stato cotto insieme a una preparazione al formaggio come il fluden. Fino al XVI gli ashkenaziti non aspettavano che passasse del tempo tra il consumo di carne e latte, limitandosi a ripulire la tavola e a sciacquarsi la bocca tra una portata e l’altra. A queste condizioni, il fluden di formaggio poteva quindi essere servito anche a chiusura di pasti a base di carne. Per andare sul sicuro, o anche solo per questioni di gusti e di disponibilità del mercato, c’era comunque già ai tempi chi sostituiva il ripieno di latticini con uno pareve alla frutta.
È qui che entra in scena non solo la mela, ma anche lo schalet, precursore da una parte della charlotte e dall’altra dell’apple pie. Indicato nell’enciclopedia francese Larousse Gastronomique come Schalet à la Juive, questo dolce veniva preparato dagli alsaziani sulla falsariga di un fluden alle mele. Da non confondersi con lo cholent (lo stufato chiamato in yiddish nello stesso modo), lo schalet ultimo modello era una torta di mele alta, realizzata con strati di pasta sovrapposti e farciti. Prima, era stato un raviolone cotto nello cholent (da qui il nome), poi tirato fuori dalla zuppa per raggiungere il forno e cambiare il ripieno da salato a dolce. O trasformarsi in kugel. Senza imboccare questa strada eccessivamente accidentata, ci limiteremo qui a dire che in Baviera, Germania meridionale e Polonia la versione dolce del piatto tipico degli ebrei dell’Est Europa aveva preso il nome di schalet. E non era l’unico. A essere chiamati nello stesso modo dal XVII secolo sarebbero stati anche i fludel alle mele tenuti in caldo nel focolare per il sabato (come appunto lo cholent).
Tornando alla preparazione ricordata dalla Larousse, si trattava di un dolce preparato in uno stampo rotondo rivestito con pasta frolla o lievitata, farcito con una crema di mele e quindi chiuso da un altro strato di pasta prima di essere cotto nel forno caldo per un’ora o poco più. Lo schalet ebraico sarebbe arrivato in Inghilterra alla fine del XVIII secolo assumendo qui per ragioni di pronuncia il nome di charlotte. Passando negli Stati Uniti, il primo ricettario ebraico americano del 1871 riportava la ricetta della Matzas Charlotte, dove azzime ammollate venivano alternate e poi cotte con strati di crema, ma anche di budini di frutta al forno preparati come degli schalet di mele. Queste stesse ricette sarebbero tornate nel Settlemen Cook Book del 1901 dove, accanto a budini di azzime e kugel dolci sempre a base della stessa frutta, compariva anche una Apple Charlotte che aveva tutta l’aria di una classica apple pie.
Torta di mele in crosta
Ingredienti:
Per la pasta
500 g di farina
250 g di burro
120 g di zucchero
1 uovo grande
½ cucchiaino di estratto di vaniglia
sale
Per il ripieno
1,3 kg di mele
1 limone
100 g di zucchero
cannella in polvere
100 g di uvetta
100 g di mandorle a scaglie
Lavorare il burro ammorbidito in una ciotola con lo zucchero fino a ottenere un composto omogeneo. Aggiungere il tuorlo, la vaniglia e un pizzico di sale e mescolare ancora. Incorporare gradualmente la farina, fino a quando l’impasto è morbido e non si attacca più alle pareti della ciotola.
Premere metà dell’impasto sul fondo e sui lati di una pirofila tonda in vetro da 2 litri resistente al calore. Stendere il resto della pasta formando un disco piuttosto sottile poco più grande del bordo della pirofila. Tenerlo da parte in fresco conservando anche i ritagli di pasta che serviranno per il ripieno.
Sbucciare le mele e tagliarle a fette privandole del torsolo, poi disporne 1/3 nella pirofila, spruzzarle con il succo del limone e spolverizzarle con 2 cucchiai di zucchero, cannella a piacere, uvetta ammollata e strizzata, mandorle tostate in forno e pezzetti dei ritagli di pasta. Ripetere il procedimento per altre 2 volte.
Coprire la torta con il disco di pasta tenuto da parte e sigillare bene i bordi, poi inciderlo con un coltello in modo da creare delle fessure. Spennellarlo con l’albume rimasto, poi cuocerlo in forno già caldo a 180° per poco più di 1 ora, fino a quando la pasta appare dorata e le mele all’interno morbide (inserire uno stecchino attraverso una fessura). Sfornare, fare intiepidire e servire.
Camilla Marini è nata a Gemona del Friuli (UD) nel 1973, vive a Milano dove lavora da vent’anni come giornalista freelance, scrivendo prevalentemente di cucina, alimentazione e viaggi. Nel 2016 ha pubblicato la guida Parigi (Oltre Edizioni), dove racconta la città attraverso la vita di otto donne che ne hanno segnato la storia.