Un viaggio alla ricerca delle ragioni di un rapporto sereno e placido con l’erba
Quando l’amico che sapevo essere profondamente ortodosso tirò fuori una canna e se l’accese dicendo “Ho bisogno di rilassarmi prima di rientrare in quella casa”, il mio trauma culturale fu di un certo rilievo. Avevo trascorso i miei anni del liceo in una classe piena di cattolici ferventi e quelli la canna non se la sarebbero fatta manco morti. Qualcosa non mi tornava, nel mio immaginario di “persona molto religiosa”.
Il mio stupore, invece, era del tutto fuori luogo. Dopo essere venuta a conoscenza dell’esistenza di un tomo di oltre 600 pagine che porta il titolo di Cannabis Chassidis; the Ancient and Emerging Torah of Drugs e che si apre con il capitolo Dove è la Torah dell’erba? – l’autore è un giovanotto riccioluto che si presenta con lo pseudonimo di Yoseph Leib ibn Mardachya – mi sono tuffata nelle ricerche in Rete che mi hanno fatto capire che il libro non è l’opera di un isolato fricchettone alla ricerca di giustificazioni filosofiche, ma ha radici estese e ormai profonde.
Nel 1971 Richard Nixon parlando al telefono con Bob Haldeman, capo di gabinetto alla Casa Bianca durante la sua presidenza, e non sapendo di essere intercettato, disse: “Sai, è strano, tutti quei bastardi che vanno in giro a chiedere di legalizzare la marijuana sono ebrei. Ma che Cristo hanno gli ebrei, Bob? Quale è il loro problema? Immagino che sia perché sono quasi tutti psichiatri.” Chissà cosa direbbe oggi, vedendo in vendita una menorah-bong, sapendo che in California un famoso cuoco, Jeff Danzer, organizza degli squisiti Pot Shabbat con tutte le portate infuse di marijuana, dalla challa al dolce, o sapendo che esiste in Florida la International Jewish Cannabis Association, che esiste una Jewish Stoners Union, e che Israele è da decenni ormai all’avanguardia nella ricerca e lo sviluppo per la produzione di marijuana a uso medico – un settore in cui è molto forte la presenza degli ortodossi.
A questo punto la domanda è ineludibile: perché? Quali sono le ragioni storiche, religiose (ammesso che ce ne siano), filosofiche di questo rapporto sereno e placido con l’erba?
Nel 1936 un’antropologa polacca, poi emigrata negli Stati Uniti – Sula Benet, così si fece chiamare negli Usa – identificò con la cannabis il “kaneh bosm”, l’erba aromatica che per cinque volte viene citata nella Torah, a partire dall’Esodo, quando a Mosè viene chiesto di preparare con vari ingredienti un olio che verrà bruciato nella tenda dell’incontro, producendo un fumo che secondo le ipotesi più azzardate non è estraneo alle visioni di Mosè (“Hey bro! Guarda che strano quel roveto che arde e non brucia!”).
Le conclusioni di Sula Benet non sono universalmente accettate, ma non sono nemmeno relegate a una minoranza. Altri sostenitori di un legame storico tra l’ebraismo e la cannabis dicono che nello Shulchan Aruch si menziona la pianta come indicata per gli stoppini delle candele di Shabbat, che Maimonide la suggerisce per uso medico, che nel Talmud è citata più volte. In alcuni testi cabbalistici è indicata come metodo per tenere alla larga dybbuk particolarmente molesti. Tuttavia questo spiegherebbe ben poco delle fortune odierne.
Ci vengono in soccorso però le interviste ai personaggi – medici, coltivatori, rabbini, scienziati, attivisti impegnati nella legalizzazione dell’uso ricreativo e non solo di quello medico della marijuana – che operano nel settore. E qui si ottengono risposte tutte molto coerenti. Alleviare la sofferenza è una mitzvah, e le sofferenze possono essere non solo fisiche ma psicologiche. Essere più rilassati, riuscire a dormire, sono cose positive. La religione ebraica, con l’eccezione delle eventuali mattane di Purim, non è certo favorevole a nessun tipo di sballo – che tra l’altro impedirebbe di osservare le prescrizioni, prova tu ad alzarti per dire le preghiere del mattino se fino a tarda notte ti sei ammazzato di canne – ma come dimostrano il vino del kiddush e i quattro rituali bicchierozzi di vino durante il Seder, vede di buon occhio un uso moderato e responsabile di sostanze piacevoli.
Non posso concludere – non resisto – senza citare il fantastico gioco di parole trovato sull’argomento: Am Israel High!
Perdonatemi.
È nata a Milano nel 1958 e da allora ha deluso quasi tutte le aspettative, specie quelle relative a peso e altezza. Manca di senso del tragico, in compenso riesce a far ridere – purtroppo anche quando non è nelle sue intenzioni. Ex giornalista (“l’Unità”, “Diario”), ora traduttrice, ha scritto sette libri per ragazzi e alcuni manuali scolastici. E quattro libri per adulti, di cui l’ultimo è “È solo un cane (dicono)”, pubblicato da Astoria, e in cui racconta come la sua famiglia si salvò dal nazifascismo.
I nostri “fratelli maggiori” hanno molto da insegnarci!
Per un po’abbiamo creduto che la mia nonna paterna fosse di origine ebraica. Alla fine abbiamo scoperto che non era vero nulla. Probabilmente una sua nonna aveva fatto la domestica presso una famiglia sefardita, apprendendo usi e costumi ebraici. Tuttora, però, io mi sento “mezza ebrea”. Che dire? Un pasticcio notevole. Ciao e grazie per quello che scrivi. È molto bello.