Cultura
Casablanca ebraica

Le decine di migliaia di turisti provenienti da Israele trovano una città fornita non solo di luoghi di preghiera ma anche di servizi. Tra questi, ristoranti kasher, macellerie, panetterie e offerte di catering

Non ci sono molti musei, a Casablanca. Anzi, a seguire le guide turistiche pare non ce ne siano quasi, a parte qualche piccola collezione di arte, più vicina a una galleria che a una sede espositiva strutturata. L’unica eccezione è il Museo dell’ebraismo marocchino. Rimasto per anni il solo museo ufficiale della capitale economica e commerciale del Marocco, questa istituzione privata è anche il primo e finora unico museo ebraico in tutto il mondo arabo. Una bella eccezione che vale la pena osservare più da vicino. Scoprendo così altre particolarità interessanti.

Tanto per cominciare, la sua curatrice. Dopo averli guidati nelle sale espositive del suo amatissimo centro etnografico, ora mostrando un’antica Torah, ora indicando una lampada monumentale o un abito tradizionale, Zhor Rehihil pare sia solita chiedere ai suoi ospiti di riconoscere il suo background. Considerata la conoscenza di tutto quello che riguarda il mondo ebraico, dalla lingua ai costumi e le tradizioni popolari, la risposta più frequente è anche quella più ovvia. La brillante signora non può che essere ebrea. In realtà, la cofondatrice di questo importante ente viene dalla comunità islamica, anzi, per dirlo con le sue parole, è “prima di tutto marocchina, poi donna, infine musulmana”. Sorpresa a sua volta, dice, dallo stupore dei visitatori, la responsabile del museo ritiene comunque di aver raggiunto il suo obiettivo. Se dopo aver fatto il giro delle tre sale espositive, osservando antichi costumi, immagini d’epoca e oggetti d’uso quotidiano, i suoi connazionali e correligionari non trovano grandi differenze tra il proprio mondo e quello ebraico, la curatrice si dice soddisfatta. Siamo tutti marocchini, dice.

Gli ebrei sono in effetti parte costitutiva di quella identità nazionale che Zhor Rehihil studia da almeno trent’anni, da quando cioè nel 1993 decise di studiare il patrimonio e i siti ebraici come studentessa presso l’Istituto nazionale per il patrimonio e l’archeologia di Rabat. La sua strada non è sempre stata in discesa. Specie all’inizio, il fatto che una donna araba volesse conoscere il mondo ebraico era guardato con una certa diffidenza dagli stessi ebrei. La svolta sarebbe arrivata grazie a Simon Lévy, nome storico dell’ebraismo marocchino nonché cofondatore del Partito del progresso e del socialismo, erede del Partito comunista nazionale. Figura di spicco nel movimento indipendentista del Marocco e guardato con molto rispetto dai marocchini, il professor Lévy aveva preso sotto la sua ala l’intraprendente studentessa. Dopo averla sostenuta e accompagnata nei suoi studi in Antropologia, sfociati in due tesi intitolate l’una “La Hilloulah di Ben-Ahmed”, l’altra “Il culto dei santi ebrei di Casablanca”, Simon Lévy, allora professore alla School of Arts and Humanities di Rabat, aveva fatto alla giovane Zhor una proposta difficile da rifiutare. Quella cioè di entrare nel team del museo che stava per aprire nel 1997. Sotto la direzione dello stesso Lévy, mancato nel 2011, Rehihil sarebbe stata prima project manager e poi curatrice del neonato ente.

Passando alla sua struttura, il museo occupa uno spazio che è a sua volta importante conoscere. Parliamo di un edificio posto nel sobborgo di Oasis, a circa 5 chilometri dal centro della città. Fino agli anni Cinquanta questa struttura era un orfanotrofio ebraico, indicato con il nome di Murdock Bengio Children’s Home e fatto costruire nel 1948 dalla signora Célia Bengio in memoria del defunto marito Murdock Bengio. L’edificio ha una superficie complessiva di circa 600 metri quadri e tra il 1995 e il 1996 era stato ristrutturato dall’architetto Aimé Kakon. Un secondo restauro sarebbe avvenuto in tempi più recenti, con la riapertura ufficiale nell’aprile del 2013. Oggi il museo comprende un ampio spazio polifunzionale riservato alle mostre temporanee affiancato da tre sale che ospitano l’esposizione permanente. Questa collezione si sviluppa intorno a un primo nucleo composto da oggetti abbandonati nelle sinagoghe di tutto il Paese, frutto delle ricerche di Simon Lévy e di Zhor Rehihil. La cosiddetta Moroccan Judaica comprende sedie per la circoncisione, lampade tradizionali, rotoli e copertine della Torah e libri di preghiere accanto a lapidi provenienti da cimiteri ormai abbandonati. A questi si sono associati negli anni numerosi e preziosi pezzi donati da privati e acquisiti dal fondo del museo.

Recupero, conservazione e promozione del patrimonio ebraico marocchino fanno parte di un programma sostenuto dal re Mohammed VI da oltre un decennio. La Corona ha finanziato, qui come nel resto del Paese, il restauro di centinaia di siti tra sinagoghe, scuole ebraiche, centri comunitari e cimiteri aggiungendo nel 2011 persino una nota nella Costituzione che rimarca l’importanza dell’influenza ebraica nella formazione del Paese.

A Casablanca la creazione di una comunità è storicamente più recente che in altre città, abitate dagli ebrei in epoche precedenti all’avvento dell’Islam, ma in compenso ha numeri nettamente superiori che altrove. Fatta eccezione per le sporadiche apparizioni in epoca medievale, il primo gruppo importante di ebrei si era installato negli anni Trenta dell’Ottocento, in concomitanza con l’esplosione dei commerci marittimi tra l’Europa e il Marocco. Certo, già nel 1750 era stata completata la sinagoga Rabbi Elijah, ma ci sarebbero voluti i mercanti ebrei giunti da Mogador, Rabat e Tetouan perché iniziasse una vera ascesa, proseguita poi lungo tutto il secolo. All’inizio del Novecento Casablanca contava 20mila abitanti, seimila dei quali erano ebrei. Oggi rappresenta la città più grande del Marocco con un’area metropolitana di oltre quattro milioni di persone, ma gli ebrei non superano secondo le stime i due milioni (anche se c’è chi parla di quattro milioni). Si tratta di cifre basse, se paragonate alle percentuali del passato, altissime rispetto al resto del Paese, dove le migrazioni verso l’Europa e Israele degli anni Cinquanta e Sessanta hanno ridotto al lumicino gran parte delle comunità.

Il passato però continua a farsi sentire. Rafforzando il presente. Molti dei visitatori del museo raccontano che, se non personalmente, di certo i loro genitori avevano per amici, colleghi e vicini di casa degli ebrei. Allo stesso modo, la città mostra con orgoglio le vestigia di un passato tutto sommato non così lontano né superato. Addentrandosi nel Mellah, sviluppatosi perlopiù nel XIX secolo, non si incontreranno forse più abitanti ebrei, ma si troveranno in compenso alcune delle oltre trenta sinagoghe che punteggiano la città. La principale di queste è la Beth-El, costruita nel 1949 e completamente restaurata nel 1997. Sede anche del centro comunitario, con i suoi 500 posti a sedere rappresenta il tempio più grande del Marocco e spicca per l’eleganza degli interni, adornati da sontuosi lampadari in cristallo e illuminati da grandi finestre con vetrate colorate. Si trova vicino a Place Verdun, nel cuore della città, dove un tempo vivevano molti membri della comunità.

Più piccola e semplice ma non meno affascinante è la sinagoga Ettedgui. Situata ai margini del Mellah, poco distante dal porto, era stata costruita nell’Ottocento da una ricca famiglia proveniente da Tetouan. Distrutta nel 1942 da un bombardamento anglo-americano, a partire dal 2011 è stata oggetto di un lungo restauro, culminato nella riapertura avvenuta nel 2016 alla presenza del re, fautore anche qui dei lavori di ripristino. Restando nel Mellah, un’altra tappa fondamentale per conoscere la storia ebraica locale è il cimitero di Ben Msik. Arioso e silenzioso, è dotato di un’atmosfera sospesa e incantata, accentuata dal biancore accecante delle lapidi in pietra perfettamente conservate con incisioni in francese, ebraico e spagnolo. Una volta all’anno, gli ebrei marocchini vi celebrano un Hilloula presso la tomba del rabbino Eliyahu HaCohen, noto anche come Qandil El Blad, precedentemente sepolto nel cuore dell’antica medina.

A proposito di pellegrinaggi e viaggi, pare che la comunità ebraica di Casablanca abbia trovato un suo equilibrio, sia interno, sia nei confronti della popolazione locale e degli ebrei provenienti dal resto del mondo. I tanti turisti che giungono ogni anno in Marocco (si parla di 40mila solo da Israele) trovano a Casablanca una città fornita non solo di luoghi di preghiera ma anche di servizi. Tra questi, diversi ristoranti kasher, una decina di macellerie, alcune panetterie e svariati servizi di catering. Per rinforzare la kashrut, una yeshiva recentemente istituita dovrebbe sfornare in tempi brevi una sessantina di diplomati provenienti, tra gli altri, da Israele, Stati Uniti e Etiopia, supportati da una scuola per Shomrim (supervisori kashrut) e Shochatim (macellatori rituali).

Camilla Marini
collaboratrice

Camilla Marini è nata a Gemona del Friuli (UD) nel 1973, vive a Milano dove lavora da vent’anni come giornalista freelance, scrivendo prevalentemente di cucina, alimentazione e viaggi. Nel 2016 ha pubblicato la guida Parigi (Oltre Edizioni), dove racconta la città attraverso la vita di otto donne che ne hanno segnato la storia.


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