La recensione del volume di Sylvie Forestier edito da Jaca Book
Si intitola La scena umana il catalogo dell’opera di Marc Chagall messo a punto da Sylvie Forestier, massima studiosa del pittore russo. Un titolo di grande respiro che cerca di restituire l’ampiezza del lavoro di Chagall e delle sua poliedrica personalità. Nell’introduzione Forestier infatti parla del suo libro come avvicinamento all’opera di Chagall, di cui propone un’antologia di dipinti. E in effetti avviene proprio questo. Perché il lettore si trova a seguire una messa a fuoco di ogni singola opera attraverso un’analisi che procede dall’insieme al particolare, e ancora all’assieme, lungo un percorso fotografico. In questo modo l’autrice conduce il lettore all’approfondimento critico con l’ausilio di accurate didascalie.
La prima parte del libro, I volti di Chagall, riguarda l’identità e l’auto percezione del pittore della propria identità: il ritratto e l’autoritratto, una lunga serie che si conclude con l’ultimo realizzato il giorno della morte, a indicare una costante dell’autore. In particolare l’autoritratto come pittore, raffigurato con gli strumenti della pittura (tela, pennelli, colori), cioè la scoperta di sé come artista. Nelle opere che vengono analizzate nelle sezioni successive, la Forestier mette in evidenza la presenza dell’autoritratto in opere di genere diverso, a testimoniare come l’autorappresentazione di Chagall significhi più che una firma, un segno iconografico. Più in profondità, una identificazione di sè con il proprio lavoro. Il pittore appartiene completamente alla pittura, l’uno non sta senza l’altra. È un canto alla vita, forse il commento più appropriato all’opera di Chagall.
La ricerca continua di sè, del senso della propria esistenza, prende forma nell’artista come immagine, con valore iconico. Il suo viso che appare talvolta in piccole dimensioni, ai margini o al centro delle raffigurazioni (per esempio nel Cantico dei Cantici); oppure come corpo intero nella parte centrale del Trittico, stanno a dire, io sono lì, partecipe mentre dipingo. Sono parte della scena, soggetto e oggetto insieme. È l’immagine che mi porta e comunica me al mondo. Si potrebbe accostare questa qualità rappresentativa di sè dell’autoritratto di Chagall con il ritratto realizzato con la tecnica fotografica. Roland Barthes scriveva a questo proposito in Camera chiara usando il termine greco entelechia (Aristotele), nel senso di pienezza del grado di sviluppo della realtà, per indicare il carattere distintivo dell’occhio fotografico nel ritratto, quando riesce a intravedere sotto le apparenze il nucleo vitale di una persona.
Immagine dunque, verità, vita. L’insieme di questi valori rimanda all’antico significato dell’immagine, come i simboli rimandano a realtà molteplici. Se sono evidenti questi riferimenti della pittura di Chagall, va detto che tutto ciò matura nella intensa formazione ebraica nel suo paese di origine, Vitebsk, in Russia. La tradizione ebraica ha nella sua prescrizione anti raffigurativa di Dio la sua più precisa significazione nell’implicita dichiarazione del non poter identificare Dio con nessuna immagine. Ma parlare, cantare la grandezza di Dio questo è possibile e di ciò è intrisa tutta la storia biblica. Le festività, come le ricorrenze liturgiche sono tutte un richiamo a queste lodi e le preghiere in sinagoga, la lettura della Torah attraverso la guida del rabbino sono intessute di memoria. Le pitture di Chagall non sono un tradimento delle disposizioni anti figurative, ma sono una risposta al senso profondo di questa religione della vita. Da ciò le costanti delle sue iconografie: il rabbino, la menorah, la festa nuziale, la coppia di amanti (l’amore, il “Canttico dei Cantici”) e poi i racconti (“Abramo e Isacco”, la “Cacciata dal Paradiso terrestre”, la “Creazione”…). Sono sempre immagini per alludere, non per descrivere. A questo proposito Sylvie Forestier cita nella introduzione le parole del filosofo Gaston Bachelard quando rivela la illuminazione che la pittura di Chagall gli ha donato, facendogli capire il senso delle raffigurazioni bibliche, avvertendo la continuità tra la parola della Torah e la memoria di chi la interiorizza e l’attualizza, fissandola in immagine. Allora la pittura è l’elaborazione della memoria e l’artista è un testimone che compie un atto di autentica assunzione di responsabilità, quindi di impegno concreto nel presente, come è per esempio la donazione della sua collezione alla Francia nel 1969 che ha portato alla creazione del museo, “Messaggio biblico” di Nizza. Per tornare a Bachelard, se è vero che guardando le opere bibliche egli ha potuto cogliere il movimento, parola-ascolto-immagine, è anche vero che il lavoro della Forestier parte dalla lettura dell’immagine, opera per approfondimenti, ricompone l’intero, trova il significato. La scrittura critica diventa a sua volta fonte di comprensione e di nuova interpretazione.
La seconda parte del lavoro riguarda il Trittico (1937-48). Un insieme di tele che vanno lette da sinistra a destra, dall’alto in basso, come le tavole della tradizione pittorica medievale occidentale. Come per queste ultime, l’immagine sacra principale a grande dimensione veniva accompagnata da raffigurazioni più piccole permettendo una visione complessiva, così in Chagall le tre tavole (“Resistenza”, “Resurrezione”, “Liberazione”), compongono un racconto dove i particolari richiamano il tema centrale: l’osservatore è posto davanti ad una visione. Il riferimento più immediato è la monumentale pala di Duccio di Buoninsegna ( la “Maestà”, 1308) che rappresenta la Vergine, patrona della città, in trono circondata da Angeli e Santi. Così in Chagall nel Trittico la lettura complessiva delle tre tavole consente la percezione della visione: la grande “Croce di Cristo” come uomo sofferente è il perno intorno a cui ruotano le figure della prima tela (“Resistenza”) e della seconda (“Resurezione”). Ai piedi della prima, l’autoritratto del pittore rovesciato a terra; in alto un animale che porta la fiaccola che illumina la scena; un uccello guarda fisso lo spettatore come occhio, strumento del vedere. Nella seconda, il pittore è rappresentato a testa in giù lungo l’asse della Croce. Il pittore è protagonista della visione come nell’iconografia cristiana di San Paolo disarcionato da cavallo. Poi sono raffigurati i protagonisti della Storia. Cielo e terra ancora. Nella terza tela la luce, gli strumenti musicali che elevano lo spirito e l’amore.
Se nella pittura medievale bizantina il colore oro stava a indicare la realtà celeste, come anche il blu, accostati al rosso della realtà terrena; così in Chagall il rosso della prima scena e il buio della notte nella seconda; il giallo e la luce diurna della pienezza del giorno e della vita nella terza tela, compongono nel Trittico la rappresentazione visiva del trascorrere del tempo.
L’opera che è indicata con la data che corre lungo alcuni anni -1937-1948-1952- nasce da Rivoluzione, un dipinto compiuto in Unione Sovietica nel 1937 e che Chagall porta con sè nel 1940, quando da esule giunge negli Stati Uniti. Qui egli ne riprende i temi, li rielabora e li ricompone in una nuova opera. In questo dipinto c’è la testimonianza diretta di ciò che l’autore ha vissuto e viene resa, come scrive la studiosa, in modo fotografico nei suoi effetti tangibili di cambiamenti, di violenze. La pittura registra ciò che l’autore ha visto e la trasforma in memoria viva. Da quest’opera derivano, poi, in una sorta di filiazione, le tre tele del Trittico. Come un ripensamento, un’accresciuta memoria in una sintesi nuova.
Il taglio della tela originale genera la nuova composizione che realizza una visione figlia sì della prima, ma più corale e ancora più accorata. Tra Rivoluzione e Trittico, è passata la guerra e la sua ferita. Chagall è in America per un destino collettivo e personale. Il taglio della tela è un atto simbolico.
Il ritorno in Francia corrisponde a un “furore”creativo. La luce della Provenza dona energia e rinnova quella propensione al colore che è tipica dell’artista. Chagall riprende i temi che gli sono cari, come i soggetti biblici, che vengono dispiegati in grandi teleri; così come le pitture per il teatro, un genere mai abbandonato, dalle prime esperienze rivoluzionarie del Teatro ebraico di Mosca, a quelle di Parigi ed infine a quelle sperimentate in America. Il teatro della “scena umana”, per riprendere il bel titolo del volume, è per eccellenza luogo della rappresentazione della parola letteraria e poetica; della musica, come arte spirituale; della danza, nel balletto, come espressione dei corpi in movimento. Nel teatro e nel balletto infaticabilmente Chagall sperimenta questo genere di rappresentazione con lo scopo sempre più marcato di intrecciare tra loro tutti questi elementi fino a farli coincidere. L’ascolto della musica, la sua forza di evocazione insieme ai testi della letteratura russa o francese, generano una visione, uno spettacolo dove la pittura sembra quasi dettata da queste assonanze.
Il percorso di Chagall prende avvio dalle sperimentazioni delle avanguardie russe dove aveva avuto un ruolo da protagonista. E’ interessante notare come in alcune opere per il teatro ricorrono soggetti creati in altre circostanze che qui si ripresentano, rielaborati, con variazioni significative, come in Aleko (1941) in cui il tema dell’amore viene ripreso nel Cantico dei Cantici (1957). In altre opere, il lavoro per il teatro è spunto per un’immersione nei colori che sembra rieccheggiare le coeve pitture astratte di Paul Klee. Il Teatro ebraico di Mosca negli anni Venti è l’occasione per la fioritura della vocazione pittorica di Chagall.
E’ prima di tutto uno spazio interamente dedicato alla cultura ebraica in dialogo con quella russa ed occidentale; e poi è spazio architettonico con una precisa collocazione urbana; e ancora, il contributo dell’autore per la decorazione pittorica degli spazi interni (con tele) dimostra una forza propositiva non lontana dalle realizzazioni delle Secessioni coeve europee. Questa modalità compositiva sarà perseguita da Chagall per tutta la vita: ancora la fedeltà alla propria identità.
Alcune figure per le scene teatrali hanno una forza tipologica di carattere universale e insieme sono strettamente legate alla personalità di Chagall. Così è per la Musica (1920), il cui valore emblematico è affidato alla rappresentazione statuaria del suonatore di violino. Così per la figura della Letteratura (1920), cioè della parola trasmessa, della meditazione, della forza dell’invenzione poetica. O per la Danza (1920), evocatrice di movimento, di estasi che ricorda le scultore greche delle Menadi danzanti.
Per concludere, tornando agli anni Quaranta, la creatività del pittore si manifesta soprattutto con le scene e i costumi di Aleko -il balletto con musiche di Chajkowskii su testo di Puskin- dove il pittore dispiega una forza del colore che nella scena del terzo atto ricorda le tinte astratte di Rothko. O per l’Uccello di fuoco, su un tema tratto dalle leggende russe con musica di Stravinski, dove le illustrazioni della Foresta incantata riecheggiano la pittura di Klee. Oppure ancora, nel Flauto magico, un’opera tarda, del 1976, in cui Chagall si cimenta con la musica di Mozart, tanto vitale come pure è la pienezza della vita, il carattere distintivo della sua pittura.
S. Forestier, La scena umana Milano 2020, catalogo Jaca Book
Sandra Sicoli, storica dell’arte, ha lavorato presso la pinacoteca di Brera e la soprintendenza alle Belle arti di Milano.
Pierpaolo Nicolini, architetto, docente di Storia dell’arte
Vitebsk è in Bielorussia. Per il resto, bravi.