Presentato al festival romano, il film è in arrivo a Gerusalemme. Una narrazione per immagini, a cominciare dalle opere della geniale artista berlinese
Una bella sfida. Quasi impossibile da vincere. Ma valeva la pena di provarci. Si potrebbe valutare così Charlotte, il film di animazione diretto da Tahir Rana ed Éric Warin che nei prossimi giorni sarà presentato al Jerusalem Jewish Film Festival dopo il passaggio romano dello scorso ottobre alla Festa del Cinema e le premiazioni ricevute ai festival di Toronto, Vancouver, Guadalajara e Calgary.
Ispirato alla vita di Charlotte Salomon, l’artista ebrea di origini berlinesi morta ad Auschwitz, il lungometraggio si misura con diverse difficoltà. Una di queste potrebbe sembrare un vantaggio, ma rappresenta forse lo scoglio più grande. Si tratta cioè di misurarsi su un campo per certi versi simile a quello in cui giocava la sua stessa protagonista. Charlotte è stata infatti da più parti definita la prima graphic novelist della storia, avendo raccontato la sua breve vita in una lunghissima serie di immagini, quasi due migliaia, riassumibili in un unico storyboard, corredato da testi assimilabili a didascalie, fumetti e perfino musiche. Da qui la prima sfida, ossia quello di aggiungere dettagli a una storia già narrata magistralmente, probabilmente senza bisogno di molte altre spiegazioni. E che oggi può essere ammirata sfogliando il monumentale volume Vita? O Teatro? edito da Castelvecchi o connettendosi al sito del museo ebraico di Amsterdam, che custodisce l’intero corpus delle opere giunte a noi dell’artista. Composta da quasi ottocento gouache corredate da testi, l’autobiografia di Charlotte era stata definita da Primo Levi “un’opera d’arte, un’affermazione di vita, un documento, un romanzo di sentimenti di fronte al destino”. Dal canto suo, Jonathan Safran Foer lo cosidera “forse il più grande libro del Ventesimo secolo. Come opera d’arte visiva, è un trionfo. Come romanzo, è un trionfo».
Basterebbe questo per scoraggiare qualunque disegnatore o sceneggiatore. E se la biografia Charlotte di David Foenkinos del 2014 si affidava con successo alla sola parola scritta, dipingere la storia di una pittrice usandone solo in parte le opere andava incontro a qualche problema in più. La semplicità di tratti con cui sono rappresentati i personaggi, così come gli stessi pur più raffinati sfondi non possono competere con la forza delle tempere di Charlotte, che attingono dall’audacia della scuola espressionista arricchendola della solarità di un Matisse abbinata alla vena sognante e magica di uno Chagall. Il tutto a partire dai soli tre colori primari mescolati con maestria.
Dall’altra, c’era la scelta di usare un genere di film, quello di animazione, che solo relativamente di recente si rivolge anche a un pubblico adulto. Charlotte non è propriamente un film per famiglie. E non perché tratta di un tema devastante come quello dell’Olocausto. La vita della giovane pittrice è in sé talmente complessa e drammatica da essere più adatta a un film per persone adulte, forse più capaci di comprendere e distinguere tra i fatti accaduti e quello che, secondo la sua stessa definizione, “magari non è successo, ma che non per questo è meno vero”.
Figlia unica di un chirurgo tedesco, il dottor Albert Salomon, considerato uno dei padri della mammografia, e di Franziska, da lui conosciuta come infermiera durante la prima guerra mondiale, Charlotte nasce nel 1917 a Berlino in una grande casa nell’elegante quartiere residenziale di Charlottenburg. L’infanzia è segnata dal suicidio della madre, per quanto alla figlia di appena nove anni venga detto che la donna è stata stroncata da una malattia. Appassionata fin da giovanissima di disegno, crescerà in un ambiente ricco di stimoli intellettuali e artistici, con alcuni dei massimi rappresentanti del mondo intellettuale e creativo dell’epoca che passano da casa sua, da Albert Einstein all’architetto Erich Mendelsohn, dal filosofo e medico Albert Schweitzer allo studioso Leo Baeck.
La musica occupa un posto di rilievo, dato che il padre si è risposato con la famosa contralto Paula Lindberg. Nonostante il nazismo, la giovane riesce a entrare all’Accademia di Belle Arti di Berlino, dove sarà l’ultima studentessa ebrea. Pare che sia talmente schiva (letteralmente “modesta e riservata”, come scritto dal comitato di ammissione), da non rappresentare una minaccia per “gli studenti maschi ariani”… In realtà, nonostante la modestia dei modi, l’arte della giovane è già bella potente, al punto che la ragazza vincerà un premio, che sarà però ritirato da una sua compagna non ebrea.
La fuga dalla città natale avviene nel 1939, nonostante l’amore di Charlotte per il proprio insegnante di canto, Alfred Wolfsohn, da lei chiamato Amadeus Daberlohn (“Mozart squattrinato”). Più anziano di 21 anni e reduce dalla prima guerra mondiale, che lo aveva ucciso moralmente e artisticamente, Daberlohn viene rappresentato dalla giovane in decine di guazzi. Charlotte sarà costretta a lasciare l’uomo e la città natale per rifugiarsi con i nonni materni sulla Costa Azzurra, prima a Villefranche, poi a Nizza. I drammi della Storia si intrecciano con quelli privati della ragazza. Dopo la morte della nonna, gettatasi a 72 anni da una finestra dopo aver già tentato di impiccarsi dieci anni prima, Charlotte scopre che tutto il ramo femminile della sua famiglia si è tolto la vita, dalla zia alla sua stessa mamma.
La grande opera della Salomon può dunque essere letta come un tentativo di raccontare e insieme superare quello che lei considera come una maledizione, diventando a sua volta protagonista di una ulteriore tragedia intorno ai quali gli storici non sono ancora concordi. A voler credere alla lunga confessione dipinta a caratteri maiuscoli e lunga 35 pagine recentemente ritrovata, sembrerebbe infatti che la ragazza abbia somministrato al nonno il veleno riservato alle situazioni disperate. Non lo avrebbe fatto però per salvare l’uomo dai nazisti, ma se stessa da lui. Anche a questo il film di animazione fa riferimento, mantenendo in sospeso il giudizio così come la distinzione tra realtà e fantasia.
Tornando ai fatti storicamente accertati, quello che si sa è che nei due anni precedenti il suo arresto Charlotte lavorerà agli oltre 1700 gouache che costituiscono la sua opera monumentale, quella Vita? O teatro? che poi consegnerà al suo medico, il dottor George Morodis, e che saranno quindi fatti arrivare al padre e alla matrigna rifugiatisi ad Amsterdam. Nei mesi di autoreclusione a Villefranche prima e nella vicina Jean-Cap-Ferrat poi, presso una stanza dell’hotel Belle Aurore, la ragazza lavorerà al ritmo impressionante di circa tre dipinti al giorno, seguendo i consigli di Morodis, che aveva consultato sull’orlo dell’esaurimento.
“Vivrò per tutte loro”, aveva scritto la Salomon delle donne morte nella sua famiglia. “Sono diventata mia madre, mia nonna, ho imparato a percorrere tutte le loro strade e sono diventata tutte loro… Sapevo di avere una missione e nessun potere sulla terra poteva fermarmi”.
Nonostante la forza della sua motivazione, Charlotte non sfuggirà alla furia dell’Olocausto. Dopo essersi autodenunciata come ebrea alla polizia locale, pare per puro e folle senso del dovere e nonostante le stesse guardie francesi avessero tentato di dissuaderla, tornerà a Villefranche a L’Ermitage, la tenuta della sua prima benefattrice, Ottilie Moore, ormai fuggita dalla Francia. Qui incontrerà Alexander Nagler, un rifugiato ebreo rumeno che diventerà il suo sposo o, come lo definirà lei: “Il vaso vuoto in cui ho bisogno di riversare le mie idee folli”. Il matrimonio, celebrato il 17 giugno del 1943, sarà l’ennesimo autosabotaggio. Ormai identificati ufficialmente, il 23 settembre saranno prelevati entrambi dagli agenti della Gestapo e portati prima nel campo di deportazione di Drancy e quindi ad Auschwitz. Charlotte vi morirà il giorno stesso dell’arrivo, il 10 ottobre, a 26 anni e incinta di cinque mesi.
Charlotte è un film di Tahir Rana e Éric Warin
Attori: Keira Knightley, Marion Cotillard, Brenda Blethyn, Jim Broadbent, Sam Claflin, Henry Czerny, Eddie Marsan, Helen McCrory, Sophie Okonedo, Mark Strong, Romain Duris
Paesi: Canada, Francia, Belgio
Durata: 92 minuti
Sceneggiatura: Eric Rutherford, David Bezmozgis
Montaggio: Roderick Deogrades, Sam Patterson
Musiche: Michelino Bisceglia
Produzione: January Films, Balthazar Productions, Walking The Dog
Camilla Marini è nata a Gemona del Friuli (UD) nel 1973, vive a Milano dove lavora da vent’anni come giornalista freelance, scrivendo prevalentemente di cucina, alimentazione e viaggi. Nel 2016 ha pubblicato la guida Parigi (Oltre Edizioni), dove racconta la città attraverso la vita di otto donne che ne hanno segnato la storia.