Intervista a Noa Koler, attrice, autrice e produttrice della serie con Erez Drigues e Assaf Amir
Fauda, Shtisel, Teheran. Sono solo alcune delle serie televisive israeliane che, grazie a piattaforme come Netflix, negli ultimi anni hanno catturato sempre più attenzione da parte di un pubblico internazionale, affascinato da una realtà complessa come Israele. Che non è un Paese solo di soldati, spie e ultraortodossi, ma anche di persone che, come nel resto del mondo, si amano, si lasciano, e a volte si riincontrano.
Come succede in Chazarot, vincitrice nel 2020 di otto premi assegnati dall’Israeli Academy of Film and TV. Nell’anno della pandemia, è stata in assoluto la più seguita dal pubblico israeliano che, chiuso nelle proprie case, sognava, attraverso i dieci episodi di questa serie tanto divertente quanto dolceamara, di poter tornare a teatro.
“Chazarot”, infatti, in ebraico significa “prove” e racconta la storia, vera, di due attori, Noa Koler e Erez Drigues, ex coppia nella vita reale, che, proprio nel momento in cui decidono di lasciarsi ottengono l’approvazione, da parte di uno dei teatri più prestigiosi di Tel Aviv, di portare in scena la pièce a cui hanno dedicato anni di duro lavoro.
Classe 1981, vincitrice dei premi più illustri, tra cui il Premio Ofir come migliore attrice israeliana, Noa Koler ci racconta come è cominciato questo progetto e come si è trasformato nel corso degli anni, adattandosi anche al mercato di produzione cinematografica israeliana, oggi sempre più al centro del mirino, anche delle grandi produzioni internazionali.
Come nasce l’idea di Chazarot?
Erez ed io ci siamo conosciuti nel 2005 mentre studiavamo teatro alla Yoram Levinstein (una delle più rinomate scuole di recitazione del Paese, ndr). Ci siamo piaciuti immediatamente, abbiamo cominciato a frequentarci come coppia e fin da subito abbiamo iniziato anche a scrivere testi teatrali. Quando mi ha lasciato io, stupidamente, ho pensato che se avessimo continuato a lavorare assieme lui sarebbe tornato da me. Avevo solo 25 anni e non sapevo ancora che presto avrei conosciuto chi poi è diventato mio marito e il padre dei miei figli. Nonstante le nostre strade si siano separate con Erez non abbiamo mai smesso di collaborare perchè sapevamo entrambi che quello che stavamo scrivendo era molto di più di un’amore finito: era una storia d’amore nei confronti del teatro e dell’arte in generale. In un Paese in cui il teatro è uno dei settori meno supportati a livello governativo, per chi è del mestiere l’unico modo per occuparsene è sfondare il muro delle case di produzione attraverso la dedizione nei confronti della propria passione.
Voi siete l’esempio che sfondare è possibile?
Sicuramente. Ma ci vuole una determinazione enorme. Inizialmente siamo riusciti a portare 1+1 (che è anche il nome della pièce che si vede portare sul palco nella serie stessa, ndr) al Teatro Gesher, dove siamo andati in scena dal 2010 al 2013. In quegli anni abbiamo intuito l’enorme potenziale del materiale per una trasposizione televisiva e abbiamo iniziato ad invitare a teatro gente del settore e produttori. Ma nessuno si è davvero innamorato del progetto. Fino a quando nel 2017 Kan 11, che allora era ancora un piccolo canale televisivo in cerca di giovani talenti, ha accettato la sfida: raccontare una storia che non era solo la nostra, ma quella dell’intera industria teatrale e cinematografica israeliana, e di tutti i suoi limiti. E cosí, dopo vent’anni passati sul palco e davanti alla cinepresa, per la prima volta mi sono trovata dall’altra parte, in quella della produzione.
Potrebbe essere un cambio di carriera?
Sicuramente nel corso di questo progetto, così lungo e stimolante, ho capito che la mia passione per il palcoscenico va ben oltre la mia carriera di attrice e che scrivere e dirigere sono esperienze molto stimolanti, perché mi hanno permesso di entrare in empatia con il mondo degli attori e delle loro sofferenze, che conosco bene perché le ho vissute direttamente sulla mia pelle, soprattutto come donna.
Anche in questo settore le donne fanno più fatica rispetto agli uomini?
Purtroppo si. Specialmente quando non si tratta solo di recitare ma di occuparsi dell’aspetto decisionale, come accade nella produzione. Come in ogni altro settore, il riconoscimento del lavoro di una donna, più si sale di carriera ed aumentano le responsabilità, presuppone il doppio della fatica rispetto a quella dei colleghi uomini. Per me è stato di enorme ispirazione lavorare a fianco di registe come Keren Margalit e Rama Burshtein (vincitrice di numerosi premi tra cui, nel 2012, il Festival di Venezia con “La sposa promessa”, ndr). Devo a loro la maggior parte di ció che ho imparato. Anche per questo vorrei continuare a lavorare in questa direzione, vorrei dare il mio contributo personale per una maggior parità di genere nel mondo della produzione cinematografica, specie in un contesto così interessante, su scala globale, come Israele.
Come si spiega questo successo tutto israeliano nel mondo delle serie TV?
Da un lato siamo un Paese piccolo, con pochissimi fondi statali dedicati al mondo della cultura in generale. Dall’altro, questo limite fa sì che gli artisti israeliani, da sempre, abbiamo imparato a cavarsela col poco che hanno e, per questo, da tutto il mondo ci osservano con attenzione per capire come produrre opere cinematografiche di enorme valore, pur avendo a disposizione budget irrisori rispetto alle grandi produzioni hollywoodiane. Non sorprende che ci abbiamo già contattato sia dagli USA che dall’Europa, proponendoci di comprare i diritti di Chazarot per farne dei remake. Per ora stiamo valutando le diverse opzioni, ma è ancora troppo presto per decidere, soprattutto se ci sarà o meno una seconda stagione. Stiamo ancora digerendo il successo della prima e, a parte questo mondo che conosciamo a fondo e che abbiamo descritto nei dettagli, le storie da raccontare, in Israele, sono infinite.
Curatrice presso il Museo Eretz Israel, nasce a Milano nel 1981 e dal 2009 si trasferisce a Tel Aviv per un Dottorato in Antropologia a cui segue un Postdottorato e nel 2016 la nascita di Enrico: 50% italiano, 50% israeliano, come il suo compagno Udi. Collaboratrice dal 2019 per l’Avvenire, ha pubblicato nel 2015 il suo primo romanzo “Life on Mars” (Tiqqun) e nel 2017 “The Israeli Defence Forces’ Representation in Israeli Cinema” (Cambridge Scholars Publishing). Il suo ultimo libro è Tel Aviv – Mondo in tasca, una guida per i cinque sensi alla scoperta della città bianca, Laurana editore.