Il concetto che unisce gli antisionisti è l’affermazione che il movimento nazionale ebraico, e ciò che da esso è derivato, a partire dallo Stato d’Israele, costituiscano qualcosa a cui contrapporsi poiché storicamente illegittimi
Non è agevole argomentare sull’antisionismo cercando di evitare da subito un definitivo giudizio di valore su di esso senza averne prima indagato appieno le sue connotazioni. Il fatto stesso che porti il prefisso “anti” rivela esplicitamente la sua natura avversativa e, in immediato riflesso, la sua carica di secca opposizione, a qualcosa così come a qualcuno. Rispetto ad una definizione che non sia unicamente schiacciata sull’attualità politica, che rischia altrimenti di travolgerne tutti i significati possibili, l’antisionismo può tuttavia essere ricondotto, nella sua essenzialità, ad un ampio spettro di convinzioni e credenze che dall’opinione possono giungere al pregiudizio e, infine, alla giustificazione di un’azione di offesa nei confronti di cose e persone. Beninteso, si tratta di una definizione sufficientemente generica ancorché necessaria, poiché incorpora al suo interno la storicità sia di ciò di cui dice di essere l’inverso, il sionismo per l’appunto, sia dei modi e delle ragioni con cui tale atteggiamento di avversione si è concretamente manifestato tra le persone, ossia con modalità, in luoghi e in tempi tra di loro molto diversi.
Il fondamento comune, poiché tanto irrevocabile quanto insindacabile, è l’affermazione che il movimento nazionale ebraico, e ciò che da esso è nei fatti derivato, a partire dallo Stato d’Israele, costituiscano qualcosa a cui contrapporsi poiché storicamente illegittimi o comunque privi di un reale motivo d’essere, tanto più se ciò è da intendersi e declinarsi come un dato sia morale che civile. Non sussisteva una effettiva ragione affinché i problemi degli ebrei trovassero una soluzione nazionale. Anzi, nazionalista, essendo quest’ultimo un processo politico che ingenera più danni di quante siano le soluzioni che riesce effettivamente a garantire. Inoltre, il duplice “peccato originale” del movimento sionista risiederebbe nel praticare sia un nazionalismo etnico (basato sulla riduzione dell’ebraismo ad una sola identità, quella di un’inesistente etnia) che, nei concreti fatti, di una prassi isolazionista (gli ebrei come gruppo separato dal resto del mondo, tra di loro affratellati non da vincoli culturali e religiosi ma da una specifica ideologia politica). L’una cosa e l’altra, nei confronti delle restanti popolazioni, a partire da quelle arabe, rischierebbe di tradursi da subito in una visione razzista e – al medesimo tempo – in pratiche di apartheid.
Le ragioni di lungo periodo dell’opposizione antisionista, che in molti casi si fa da subito manifesta e ossessiva avversione, possono tuttavia mutare rispetto al costrutto originario, costituendo così la variabile dipendente dell’argomentazione di fondo, quella che cambia a seconda di chi la esprime: contro il sionismo perché sarebbe una falsa soluzione dei problemi che accompagnano gli ebrei; contro il sionismo perché nazionalismo se non, addirittura, pensiero suprematista, basato su un pregiudizio razzista rivolto sistematicamente contro i non ebrei; contro il sionismo perché sopraffazione nei confronti dei palestinesi; contro il sionismo perché infrazione al dettato religioso e alla volontà di un Essere superiore; contro il sionismo soprattutto perché “innaturale”, antistorico, fuori dalla stessa legittimazione della volontà umana. Mentre è variabile indipendente il giudizio per cui il sionismo sia di per sé qualcosa da rifiutare a prescindere, aggettivandone poi le ragioni come in una sorta di razionalizzazione a posteriori: quindi, prima il diniego, poi la sua motivazione di fondo.
Sull’intensità del rifiuto, per l’appunto, gli umori e gli atteggiamenti possono quindi differenziarsi. Non invece sulla sua necessità, per chi lo fa proprio. Dopo di che, cosa implica il richiamo all’antisionismo? Se lo consideriamo come un atteggiamento che si sviluppa nel corso del tempo, quindi contestualizzandolo rispetto a circostanze diverse e a scenari storici differenziati, possiamo isolare alcuni temi di fondo. A volte risultano essere separati, altre volte si ibridano tra di loro. Il primo rimanda al convincimento che gli ebrei non siano un popolo, ancorché disperso o diasporico, e che in quanto tali non abbiano mai goduto del diritto ad avanzare rivendicazioni di ricomposizione nazionale. Si situa in questa vulgata parte di quello stesso giudaismo assimilazionista che, soprattutto nell’Ottocento, aveva fatto proprie le istanze del liberalismo, tanto più laddove quest’ultimo predicava la centralità dell’individuo e la necessità di superare le appartenenze di gruppo, ossia quelle “particolariste”, semmai a favore di una cittadinanza basata esclusivamente su un legame fondato su valori repubblicani e costituzionali.
Il secondo tema rinvia all’idea, originariamente diffusa anche in una parte delle comunità ebraiche, che i problemi degli ebrei (ma anche i progetti e le identità che li accompagnavano) non fossero affrontabili e risolvibili con il ricorso alla via nazionale autoctona. Il terzo argomento, più strettamente religioso, può essere formulato come l’avversione nei confronti dell’auto-redenzione. Il tempo attuale è – e rimane – quello della dispersione. Il sionismo sarebbe solo la nuova forma di un vecchio problema, il falso messianismo, che da Gesù ad oggi, passando per Shabbatai Zevi, produce illusioni e lesioni nel corpo stesso dell’ebraismo.
Rientra in questo novero la manifestazione odierna più appariscente dell’antisionismo in campo ebraico, quella espressa dal movimento Neturei Karta, i cosiddetti «guardiani della città», presenti a Gerusalemme, negli Stati Uniti, in Belgio, in Gran Bretagna e in Austria. Si tratta di una costola scissionista dell’Agudat Israel, nato nel 1938 all’interno del «vecchio Yishuv» (l’insediamento ebraico palestinese antecedente agli innesti sionistici), tra discendenti dell’ebraismo ungherese e lituano, le cui famiglie erano salite in Eretz Israel più di un secolo prima. Al di là dei rigidi convincimenti che inducono i suoi membri a giudicare il sionismo come un’assoluta perversione e un tradimento del giudaismo, il fulcro delle loro posizioni si legittima sulla base sia del rifiuto della separazione tra religione e politica sia con l’avversione contro gli istituti e gli organismi secolarizzati dell’ebraismo così come dello stesso Stato d’Israele. La mediazione istituzionale, che ogni moderna organizzazione politica non può non mettere in atto per raccogliere e rappresentare la varietà umana, insieme alle differenze sociali, culturali e spirituali, sono da essi rifiutate laddove ritengano che possano pregiudicare il rimando ad una «purezza» originaria e a dei confini identitari molto accentuati. La forte mediatizzazione di cui questo gruppo ha goduto, per l’apparente singolarità e l’eccentricità delle sue posizioni, ne ha amplificato l’impatto sul piano dell’immaginario collettivo. Tuttavia, che ad essi vada conferita la palma di coloro che hanno raccolto l’opposizione religiosa al sionismo è un errore non solo concettuale ma anche storico. Le vicende dell’antisionismo su base religiosa sono infatti assai più complesse, variegate e articolate, situandosi in particolare tra il 1860 e il 1948, prima della nascita dello Stato degli ebrei.
Il quarto movente, proseguendo in questa veloce carrellata, è quello che indica in Israele una realizzazione politica che crea più problemi di quanti ne possa (e ne intenda) risolvere. Un atteggiamento, questo, che si ricollega ad una visione per così dire falsamente “pragmatica”, dove la questione – altrimenti basilare nella storia dell’Ottocento e del Novecento – delle identità politiche e sociali di gruppo, viene ricondotta ad una sorta di prontuario di risposte usa e getta. Dal riscontro della conflittualità con le comunità arabe si è passati, infatti, ad affermare che la via nazionale e statuale sia di per sé a tal punto illusoria e foriera di implicazioni negative da fare sì che l’ebraismo non avrebbe dovuto comunque farsene carico in proprio. Questo atteggiamento, radicatosi già all’inizio del Ventesimo secolo, trovava ancora un buon seguito in una parte dell’intellettualità ebraica della Diaspora tra gli anni Quaranta e Sessanta. Riflettendosi infine, sia pure in forme molto traslate e quindi attenuate, anche in alcune espressioni di quella letteratura israeliana che tanto successo ha raccolto negli ultimi quarant’anni nel mondo. In quest’ultimo caso, per intendersi, è raro trovare manifestazioni rubricabili come antisioniste. La lealtà di fondo verso il proprio paese è incontrovertibile. Tuttavia, le irrisolte nostalgie sia verso un mondo che non c’è più – quello dei rapporti tra arabi ed ebrei in età ottomana, a volte fortemente idealizzati – sia nei riguardi di un sionismo socialista che, nella trama letteraria di alcuni, sarebbe poi stato superato dalla tumultuosa evoluzione verificatasi in questi ultimi decenni, costituiscono la cornice dentro la quale sviluppare una melanconica propensione a parlare della nostalgia per una sorta di sogno “tradito”.
Un quinto elemento, assecondando un crescendo che una volta innescatosi fatica oggi a fermarsi, è quello per cui il sionismo costituirebbe invece una forma particolarmente virulenta di razzismo. Quindi insidiosa. Siamo qui in un ambito diverso da quelli precedenti poiché il fuoco dell’argomentazione non è legato all’opportunità politica, all’efficacia concreta o alla stessa liceità storica di un progetto nazionale bensì alla natura medesima di una intenzione che, a detta dei detrattori, è la proiezione non solo di una calcolata malafede ma anche la prosecuzione di una perfidia di antica radice. In questo caso, quasi sempre subentra l’equazione, tanto bislacca e offensiva quanto di facile diffusione, tra sionismo e nazismo, come se fossero l’uno immediato sinonimo dell’altro.
L’accusa, mossa a partire da tale premessa, è che il sionismo sia l’ideologia del suprematismo ebraico, ovvero la concezione della superiorità assoluta, sul piano razziale, degli ebrei, da essi stessi sapientemente coltivata ai danni del mondo intero. In questo genere di accezione si fa perno sull’interpretazione di Israele come Stato etnico, che rappresenterebbe una corruzione del principio dell’identità nazionale in quanto espressione del moderno diritto pubblico, dove invece le differenze di appartenenza al gruppo d’origine (qualunque esso sia) si sciolgono nella comune cittadinanza.
È quindi interessante notare come, tanto più in questo caso, a rivolgere i propri strali polemici siano coloro che, a vario titolo, dichiarano sia la loro appartenenza alla sinistra “anti-imperialista”, sia quanti, dalla destra radicale, rivelano spesso di nutrire simpatie nei confronti dello stesso nazismo. All’apparente contraddittorietà di tale atteggiamento si può ricollegare il fatto che i neonazisti coltivino un’idea assolutoria delle propria ideologia, depurandola di tutti gli aspetti più deteriori o, al limite, giustificandone la loro necessità storica. Ad essere “cattivi”, in buona sostanza, non erano i carnefici bensì le vittime. Segnatamente, è questo l’imprinting dell’hitlerismo, che conferisce agli offesi la responsabilità dell’offesa stessa.
Nel caso della sinistra, invece, come ha rilevato efficacemente il sociologo francese Pierre-André Taguieff, l’antisionismo si presenta nella sua forma esacerbata di falso antirazzismo. Si condanna il sionismo non solo in quanto nazionalismo ma poiché espressione di un peculiare razzismo, quello degli ebrei contro i palestinesi. A destra come a sinistra opera tuttavia il medesimo cliché, quello che ribalta sugli accusati, in un vero e proprio gioco di proiezioni mentali, le proprie fantasie.
Giunti infine a questo punto della scala d’intensità, sopravviene definitivamente il pregiudizio antisemita. Israele, infatti, in quanto prodotto mefitico del sionismo, è visto come una sorta di “ebreo collettivo”, sul quale scaricare le colpe attribuite agli ebrei in quanto popolo o, eventualmente, come individui. Gli effetti caricaturali, facilmente rilevabili da parte di qualsiasi osservatore ragionevole, sono invece dei rafforzativi nella diffusione, a tratti virale, dei paradigmi antisionisti. Non è un caso che soprattutto sul web, vera miniera di opportunità per chi voglia esercitarsi nella diffusione del pregiudizio, abbondino i simbolismi che evocano l’intero armamentario antisemita, a partire dall’accusa del sangue, ovvero di “nutrirsi”, figurativamente o addirittura letteralmente, del sangue dei non ebrei. Così è infatti rappresentata la politica israeliana nei confronti dei palestinesi, soprattutto nelle diffusissime vignette che usano gli stessi stilemi in voga ai tempi del nazismo. Da questo punto di vista, al di là degli aggiustamenti grafici di circostanza, poco o nulla è cambiato rispetto al passato.
Non è infatti un caso che, in una parte del campo militante arabo-musulmano, l’intera congerie di convincimenti che hanno alimentato storicamente l’antigiudaismo prima e l’antisemitismo poi sia stata ripresa in toto, dando corpo ad un vero e proprio pregiudizio strutturale contro gli ebrei. In età contemporanea, al di là della stessa interpretazione in chiave antiebraica del Corano (come nel caso della Sura due, detta «La vacca», ai versetti 75-105), peraltro rinverdita e amplificata negli ultimi decenni dai movimenti di mobilitazione islamista, l’archivio antisemita, ossia l’immaginario pregiudizioso che in Europa aveva avuto ampia diffusione, è stato pertanto acquisito e adattato a molte realtà. Con effetti di ritorno non sempre omogenei e, quindi, come tali prevedibili aprioristicamente.
La funzionalità e l’efficacia di una polemica non più religiosa ma esistenziale ed ontologica tout court, è quella che le deriva dal costituire una delle colonne portanti dei simbolismi che attraversano il conflitto israelo-palestinese. L’antisionismo, in tale circostanza, del pari all’antisemitismo, assume i caratteri e la natura di posizione identitaria, non contrattabile in nessuno dei suoi aspetti. Chi ne fa propri i panni, e li riveste, ritiene di non potere derogare in alcun modo da essa, pena la minaccia verso la sua integrità. Le ragioni individuali e le dinamiche di gruppo all’opera in questo caso sono, per più aspetti, per l’appunto omologhe a quelle dell’antisemitismo, dei cui temi di fondo costituiscono di fatto una sorta di attualizzazione. E proprio la fantasia paranoide del sionismo come di un complesso unitario di interessi e di soggetti, tra di loro uniti dall’obiettivo della congiura contro i non ebrei, alimenta un senso di oppressione che potrà essere superato solo con la distruzione di ciò che viene tematizzato come una minaccia intollerabile. Rimane quindi il riscontro per cui se non tutti gli antisionisti sono antisemiti, quasi sempre questi ultimi, invece, si caricano anche del rifiuto integrale del sionismo come soggetto storico dotato di una sua dignità e, con essa, di una sua ragione politica e morale a sé stante. Al centro di una tale visione rimane sempre il medesimo fuoco, ossia l’immagine ossessiva e maniacale di un “ebreo” immaginario la cui unica ragione sarebbe quella di testimoniare dell’indegnità morale della sua stessa esistenza, essere patologico, parassitario e disumano per la cui distruzione le “forze del bene” dovrebbero adoperarsi, in una battaglia senza quartiere.
Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.