Ritratto di Amy Vivian Coney Barrett, nominata giudice della Corte Suprema da Donald Trump
La conferma è arrivata poche ore fa: Amy Vivian Coney Barrett è la 115esima giudice della Corte, nominata da Donald Trump dopo la morte della giudice progressista Ruth Bader Ginsburg lo scorso 18 settembre. Ripubblichiamo un approfondito ritratto che aveva firmato per noi Claudio Vercelli con il titolo Chi succederà a Ruth Bader Ginsburg.
Piacente, di aspetto giovanile nonché materno, “femminile” e normotipo. Cristiana fervente, soprattutto. Nonché strenua combattente nell’agone della legge. Donald Trump ha dunque scelto, ben sapendo da subito chi sarebbe stata colei che doveva succedere a Ruth Bader Ginsburg nella strategica posizione di giudice della Corte suprema degli Stati Uniti d’America. Si tratta di Amy Vivian Coney Barrett, che ha tutte le caratteristiche, ma proprio tutte, per rappresentare il reciproco inverso della compianta Ginsburg: è donna come lei (la considerazione dell’attuale titolare della Casa Bianca nei confronti delle donne non è delle migliori, ma sa benissimo che certi equilibri di genere – tre donne e sei uomini, compreso l’attuale presidente, Chief Justice of the United States John G. Roberts, un maschio – non andavano alterati in alcun modo); è giovane (essendo nata nel 1972, laddove nelle Alte Magistrature – alle quali si accede solo in virtù di una miscela tra competenze effettive ed aderenze politiche – l’avere compiuto quarantotto anni non è certo un indice di maturata professionalità come neanche di competenza), mentre Ginsburg era già anziana, avendo raggiunto gli ottantotto anni; è una figura della giustizia molto legata a Trump (che già nel maggio del 2017 l’aveva nominata alla settima Corte d’Appello, venendo poi confermata in tale ruolo dal Senato federale nell’autunno dello stesso anno); ha un buon curriculum accademico (insegnando procedura civile, diritto costituzionale ed ermeneutica delle normative fondamentali presso la Notre Dame School of Law). Per inciso, dopo Ginsburg occorreva la nomina di un’altra donna di legge, capace di ragionare sulle implicazioni delle scelte che la Corte Suprema è chiamata ad esercitare; non di una “insopportabile” indipendente, che ricorra al diritto per mettere in discussione il carisma personalistico dell’attuale inquilino della Casa Bianca. Non a caso, quindi, dall’estate del 2018 era stata inserita nella White List dei papabili alla Suprema magistratura (eh sì, non si diventa giudice della Suprema Corte solo per meriti: bisogna seguire una precisa trafila, per la quale prima si entra nel novero dei “cardinali papabili”). Infine, è una conservatrice sulle materie di ordine sociale: antiabortista, poco o nulla disponibile sull’apertura ai diritti civili, molto scettica sui rapporti con le “minoranze” secondo una logica di bilanciamento e così via.
Esattamente quello che Trump vuole per potere intervenire negli equilibri della Corte, non potendone colonizzare pro domo sua i processi decisionali in quanto tali; ciò che si propone è, piuttosto, un nuovo orientamento culturale di fondo, maggiormente propenso ad assecondare indirizzi di ordine culturale volti al conservatorismo più spinto, all’individualismo proprietario, ad una sorta di conformismo che risponde alle esigenze di quell’«America profonda», il MAGA – Make America Great Again – è depositaria. Inoltre, se Trump dovesse contestare il risultato delle urne del 3 novembre, quando si voterà per il nuovo presidente, la Corte Suprema federale verrà comunque chiamata in causa, con un qualche pronunciamento: se non tutti i giudici “conservatori”, soprattutto quelli nominati da Bush junior (Samuel Alito, Clarence Thomas, il presidente Roberts), assentiranno alle prevedibili attese del tycoon, il cercare di costituirsi un nucleo di potenziali assenzienti (Gorsuch, Kavanaugh ed adesso Coney Barrett), è parte di una precisa strategia politica che da anni viene portata avanti. L’obiettivo non è quello di piegare un potere indipendente ad un candidato presidente ma di condizionarne sottilmente gli umori e, con essi, gli indirizzi di fondo, anche dinanzi alle eventuali resistenze che una parte del Grand Old Party potrebbe semmai esprimere. Trump fa squadra a sé, ritiene che la divisione tra Repubblicani e Democratici sia stata già da tempo messa in discussione dalle evoluzioni dell’economia internazionale, conduce una guerra senza quartiere contro i Dems ma è sostanzialmente estraneo anche agli equilibri interni ai Reps. La sua stessa nomination, nelle primarie del 2015, rompeva consolidati equilibri dentro il partito repubblicano. Ha saputo trasformare un handicap – l’essere un “parvenu” della politica – nell’asso da calare, di passo in passo. Sparigliando i giochi e le regole. Lo rifarà a breve. Se dovesse perdere alle elezioni di novembre, si può stare certi che aprirà una guerriglia di ricorsi. Anche per questa ragione il 26 settembre, neanche una decina di giorni dopo il decesso di Ruth Bader Ginsburg, che per parte sua sapeva benissimo di avere il tempo contato (sperava di morire dopo il risultato delle presidenziali), Trump ha dato seguito ad una decisione che in cuor proprio, in tutta probabilità, aveva già assunto da tempo.
Nel mentre, qualche parola sul profilo della nuova giudice suprema – la cui nomina passerà attraverso il vaglio impietoso del Congresso, beninteso – è a questo punto necessaria. Nata a New Orleans in Louisiana nel 1972, è la maggiore di una famiglia numerosa (sette fratelli, un maschio e sei femmine). Il padre era un avvocato per la Shell Oil Company mentre la madre è stata insegnante liceale di lingue. Una coppia inconsapevolmente appropriata per crescere una figlia destinata al talento. Amy, cresciuta in un sobborgo di New Orleans, diplomatasi nel 1990 alla cattolicissima Saint Mary’s Dominican High School, affiliata alle “sorelle domenicane” (parte dell’ordine dei “mendicanti”: per capire cosa ciò implichi, bisogna conoscere le infinite diramazioni del cattolicesimo americano, oggi più che mai in competizione con il protestantesimo evangelico), ha poi studiato letteratura inglese nel Tennessee. Laureatasi nel 1994, dopo avere studiato al Rhodes College di Memphis, ha conseguito il Bachelor of Arts magna cum laude per poi mettersi a studiare diritto alla Notre Dame Law School.
Praticamente, il profilo di una sgobbona, con gli occhiali provvisti da lenti a fondo di bottiglia (non li porta, beninteso), tipici delle nerds di “sinistra”. Anche se tale non è mai stata. Nel 1997, per non smentire se stessa e il profilo di “prima della classe” che la circondava come un’aura, si è quindi addottorata in giurisprudenza come Juris Doctor summa cum laude. Per intenderci: ancora una volta una studentessa da invidiare (e da evitare, se non altro per la sue qualità intellettuali). Poiché Amy Vivian Coney Barrett è tutto fuorché un’ignorante. E Trump, che invece è grezzo così come appare (venendo votato proprio per questa ragione), lo sa benissimo. Se ne intende di diritto non solo perché gli piace infrangerlo ma anche perché conosce la complessa macchina della giustizia americana. Sa che il Paese non ne può fare a meno.
Continuiamo allora con Amy: dopo il blasone degli studi, ha lavorato come figura di secondo piano, ovvero servente, prima per il giudice Laurence Silbelman, alla Corte di Appello federale, poi per il giudice Antonin Scalia, alla stessa Corte Suprema. In sostanza, una formichina. Che accumula per se stessa. Inutile aggiungere, almeno per chi conosce il sistema legale statunintense (assai complesso), che a ciò accompagnasse anche uno stage di consolidamento allo studio Miller, Cassidy e Lewin, a Washington D.C. Fare l’avvocato in uno studio di associati, in genere nella figura di associato junior serve per consolidare il proprio potere di contrattazione. Al quale Barrett ha abbinato l’incarico di professore associato prima alla George Washington University poi alla Notre Dame Law School, con il 2002. Laddove ha insegnato diritto costituzionale e federale, ottenendo – anche grazie al sistema di borse di studio che, in Italia, è invece pressoché sconosciuto – l’incarico di docente di diritto.
Al netto delle contrapposizioni politiche, Barnett ha un discreto curriculum di pubblicazioni su riviste di prestigio accademico. Come tale, ha ottenuto, in più di una occasione, il riconoscimento di «Distinguished Professor of the Year». Non sono “medaglie” d’oro ma indicano che la destinataria sia in quale modo deputata a svolgere ruoli a venire, nella pubblica amministrazione così come nel settore privato. Non a caso, infatti, la sua affiliazione professionale a Lawrence Silbeman l’ha inserita nel novero dei magistrati papabili ad un qualche ruolo federale. Trump, l’8 maggio 2017, l’ha infatti nominata alla Corte d’Appello degli Stati Uniti, in sostituzione, di fatto, dell’anziano giudice John Daniel Tinder, divenuto deliberante senior (in poche parole, elemento della riserva, quello che con un acronimo di definisce, nel sistema americano, come “rtd”, ovvero retired, ancorché in ruolo ausiliario). Data a quell’anno, non a caso, il primo fuoco di sbarramento del Senato contro la sua nomina. Il fulcro dell’opposizione ruotava intorno ai suoi convincimenti morali ed etici su questioni relative alla giurisprudenza sulla vita e sulla morte. Gli avversari nel Congresso della Barrett da sempre temono il suo cattolicesimo essenzialista, che non esclude la possibilità di dare la morte (per condanna) e di considerare la vita (del feto) come “persona”. In tali circostanze, alcuni esponenti democratici hanno definito la giudicata come una «dogmatica». Un fatto che non solo l’ha gratificata, incontrando la considerazione che da sempre nutre di se stessa, ma ha dato polveri al conservatorismo religioso, rendendola in tale modo popolare oltre alle ristrette cerchie nelle quali risultava già conosciuta.
La stessa magistratura repubblicana di estrazione laica, al tempo stigmatizzò una tale condotta, affermando – non senza ragione – che in tale modo si offriva un’involontaria investitura a colei che sarebbe risultata in giudizio non per ciò che andava concretamente facendo ma per quanto andava credendo. In altre parole, un regalo a quanti si voleva invece contrastare. In un tale contesto, Lambda Legal, organizzazione per i diritti civili LGBTQ+, insieme ad altre organizzazioni per i diritti alla differenza, ha intrapreso un’azione contro la giudice, impugnando la sua affermazione di imparzialità, considerata altrimenti un totem per l’accesso agli incarichi pubblici. Anche qui non senza fondamento, l’ipotesi avanzata è che la fusione tra fede religiosa e ruolo politico fosse tale da fare sì che la prima possa inquinare, per sempre, l’imparzialità del secondo. Le ripetute affermazioni di Barrett sull’intenzione di rispettare non tanto i convincimenti altrui bensì la giurisprudenza consolidata, che riconosce la maturazione dei diritti alla differenza, ha peraltro incontrato scarso credito tra gli interroganti. I quali hanno ritenuto che le sue affermazioni tolleranti e pluraliste fossero solo di natura opportunista.
Il fatto è che la credibilità della giudice è da sempre supportata da un largo seguito di colleghi, studenti, colleghi di studi. Barrett – e Trump lo sa benissimo – da sempre ha costruito il suo profilo professionale puntellandolo di assensi tra quanti l’hanno frequentata. La professionalità è fuori di discussione. Non le radici ideologiche, invece. In sostanza, un abile politico travestito sotto l’abito del “tecnico”. Il Senato statunitense, pur diviso al riguardo, ha quindi deliberato nel 2017 a favore della sua nomina alla Corte d’Appello federale per l’Indiana. Barrett conosce comunque il diritto federale come le sue tasche, sapendone piegare l’interpretazione a beneficio dei convincimenti suoi e della parte – non solo politica ma anche culturale – nella quale si riconosce. Tutte le tematiche, declinate giuridicamente, del «politicamente corretto» e delle quote tra minoranze e maggioranza, sa come volgerle a favore della componente bianca, protestante e cattolica. Non è solo un’opzione ideologica ma un profondo convincimento personale. Non gioca sporco, semmai impegnandosi – così come chiede lo stesso sistema giudiziario statunitense – nell’interpretare le leggi secondo un indirizzo di buon “senso comune”. Il quale, per inciso, oggi si indirizza in senso recessivo, ossia volto ad avvantaggiare le prerogative dei privati (dall’autodifesa alla rinnovata centralità della famiglia) di contro a quelle federali, che sempre più spesso sono viste non solo come inefficaci ma in quanto espropriatorie. Nella crisi della politica, ritorna di prepotenza la centralità del “locale”, della dimensione territoriale, di cui i politici e i giudici di estrazione protestante, cattolica e finanche evangelica, si incaricano di essere rappresentanti. Non solo in campo repubblicano. Grasso che cola per un uomo come Trump, tanto spregiudicato quanto attento ai trend dell’opinione pubblica.
Non a caso Amy Vivian Coney Barrett, quando le si chiede quale sia la sua collocazione, predilige il definirsi come «originalista». Rispetto al dibattito americano, il cosiddetto originalismo rimanda ai criteri con i quali interpretare la Costituzione americana. Il riferimento alla letterarietà è il fuoco di tale approccio, che lo avvicina alle letture fondamentaliste dei Sacri Testi della tradizione religiosa. In altre parole, il senso del documento fondamentale sarebbe immodificabile, se non attraverso il ricorso all’articolo quinto, che ne permette emendamenti in base a criteri e procedure vincolate. Barrett appartiene a quel novero di giudici che si oppongono alla nozione di «Costituzione vivente», per la quale l’evoluzione dei costumi deve introdurre significative differenziazioni nella comprensione e nell’applicazione del testo fondamentale.
L’originalismo, generatosi come corrente giuridica e poi culturale negli anni Ottanta del secolo trascorso, durante la presidenza di Ronald Reagan, si basa sul principio della «tesi della fissazione», per la quale il significato di una norma costituzionale è dato nel momento stesso in cui essa viene enunciata. Da ciò, i suoi sotenitori fanno derivare due teorie di sostegno: quella, al momento scarsamente accreditata, del cosiddetto «intento originario», per cui l’interpretazione di una Costituzione scritta è (o dovrebbe essere) coerente con ciò che intendevano coloro che l’hanno redatta e ratificata; altra è invece la posizione del «significato originale», che rimanda ai modi in cui la norma è stata recepita dai contemporanei nel momento in cui fu emanata. Così, per intenderci, il già giudice della Corte Suprema Antonin Scalia, venuto a mancare nel 2016.
Entrambe le posizioni condividono l’opinione che ci sia un intento originale identificabile, ovvero un significato incontrovertibile, contemporaneo alla ratifica di una Costituzione o di uno Statuto, che dovrebbe orientare tassativamente le sue successive interpretazioni. Le divisioni tra le due accezioni della teoria si riferiscono a cosa sia esattamente quell’intento originale: le intenzioni degli autori o dei ratificatori, il significato originale del testo, una combinazione dei due, oppure il significato originale del testo ma non la sua applicazione concreta. Non a caso la collaborazione di Barrett con Scalia (anch’egli cattolico) si basava sulla comune radice di conservatori religiosi, per il quali il testualismo – i testi costituzionali contengono già in sé tutto quello che può occorrere al presente – era e rimane l’orizzonte del loro magistero.
Benché la giudice Barrett non si sia mai pronunciata giuridicamente sull’aborto (a parte le sue prese di posizione personale, che valgono in quanto tali, non facendo giurisprudenza), si è tuttavia adoperata per vincolarne il diritto di esercizio, attraverso manifestazioni di volontà su questioni accessorie (come nel caso della cremazione dei resti fetali). Va detto al lettore italiano che tutti i suoi pronunciamenti in tale materia sono parte della permanente contesa che attraversa la giurisprudenza americana, di Common Law, su visuali che alternano, secondo un andamento pendolare, posizioni progressive a condotte conservatrici.
La sua nomina a giudice della Corte Suprema, una carica a vita (per la quale sussiste la facoltà di ritirarsi quando non ci si ritenga più in grado di adempiere al proprio mandato; la nomina è presidenziale, ma richiede il consenso successivo del Senato; i giudici – secondo una norma non scritta – debbono rappresentare in maniera sufficiente e adeguata la pluralità delle componenti costitutive degli States, dal punto di vista sociale, culturale, “etnico” religioso, civile e di genere; ogni membro, nella sua incontrovertibile integrità morale e professionale, dovrebbe votare sempre e solo secondo coscienza personale), inscrivendosi in tali logiche, segue al ritiro della candidatura di Anthony Kennedy nel 2018. Barrett, che lo stesso Trump all’epoca comunque considerava come ancora priva di sufficienti requisiti di esperienza, da allora è divenuta la figura prediletta da quella parte del partito repubblicano più tradizionalista, soprattutto dopo la nomina al medesimo ruolo di Brett Kavanaugh. Di fatto, già in quell’anno era stata identificata dal Presidente americano come colei che sarebbe succeduta a Ruth Bader Ginsburg, in caso di morte di quest’ultima. Anche grazie al fatto che la famiglia della cadetta, composta di ben sette figli (due dei quali adottati ad Haiti ed uno affetto dalla sindrome di Down) è il ritratto del confessionalismo americano: aderenza al patriottismo federale, conservatorismo sociale, cristianesimo praticante (essendo membro, insieme al marito, del gruppo «People of Praise» che di sé dice: «siamo una comunità cristiana carismatica. Ammiriamo i primi cristiani che furono guidati dallo Spirito Santo a formare una comunità. Quei primi credenti misero in comune le loro vite e i loro beni, e “non c’erano persone bisognose tra loro”»; per farsene un’idea basta visitare il sito peopleofpraise.org).
Fin qui Barrett. Della figura che le è preceduta, molto si è detto nei giorni scorsi. I tributi sono stati all’altezza della sua figura, con il feretro esposto per ben due giorni all’ingresso dell’augusto ingresso della Corte Suprema (l’ultima volta che ciò accadde fu con il ventisettesimo presidente statunitense, William Howard Taft, già presidente della medesima Corte tra il 1921 e il 1930). Di Ruth Bader Ginsburg si è detto che era l’incarnazione dell’«american dream». Figlia di un immigrato di Odessa, la madre era invece nata quattro mesi dopo l’arrivo della famiglia dalla Polonia. Alla domanda di questa, contabile di professione, su quale fosse la differenza tra sé e una giudice della Corte Suprema, la figlia Ruth rispondeva lapidariamente: «una generazione». Peraltro, Bader Ginsburg non aveva mai nascosto la sua vicinanza ad Israele, soprattutto sul piano dei programmi per l’eguaglianza di genere e di giustizia sociale quand’essi erano stati discussi e poi inseriti nelle piattaforme politiche praticate dal Paese. Anche per una tale sua pervicace posizione egualitaria, era stata liquidata dai suoi oppositori come una sorta di icona del Novecento. Quanto del secolo dei diritti sia nel mentre del tutto passato, insieme ai suoi protagonisti, sarà solo il tempo a venire a poterci darcene la misura e le conseguenze.
Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.
Complimenti per l’ articolo . Grazie