Storia del piatto caldo dalla cottura lentissima e delle sue declinazioni nei vari paesi del mondo
Tutti sanno che cos’è lo cholent. O almeno dovrebbero. Più difficile invece è trovare chi, con sicurezza, sappia dire che cosa ci vada dentro. Il problema non è l’ignoranza dell’interrogato, ma la complessità della domanda. Conosciuto tra i sefarditi con il nome di hamin, lo stufato di Shabbat ha una sola, o quasi, caratteristica certa. Quella di essere caldo. I suoi stessi nomi vi farebbero riferimento, a cominciare da quel chald del francese antico da cui deriverebbe l’appellativo più diffuso al Nord. Alcuni vi uniscono anche lent, a indicare la lentezza di cottura, ma su questa posizione, riportata anche dall’antropologa ed esperta di cucina Claudia Roden nel suo The Book of Jewish Food non ci sono consensi unanimi.
Secondo un’altra interpretazione, cholent deriverebbe sempre dal francese antico, ma in questo caso dall’espressione chald-de-lit, ossia calore del letto, in riferimento alla pratica di riporre il pentolone con lo stufato tra le coperte dopo averlo ritirato dal forno e in attesa di consumarlo.
Qualunque sia l’origine del nome, dello cholent si sa che è uno stufato, bello caldo e cotto a lungo, anzi a lunghissimo. E qui sta tutta la sua essenza e la sua poesia. Quella cioè di essere un piatto cucinato fin dai tempi più remoti dagli ebrei il venerdì e mantenuto alla giusta temperatura in maniera, diciamo così passiva, fino all’indomani, in modo da poter essere consumato il sabato ancora ben caldo e cotto a puntino. In tal modo, si rispetta sia l’obbligo di riposo di Shabbat, che comprende la proibizione di accendere il fuoco o anche solo di regolarlo, sia il precetto di consumare, comunque, almeno un pasto caldo nel giorno di festa. Sul modo di conservare quello che per tutti è un pentolone profumatissimo con un numero indicibile di ingredienti e sapori all’interno, torneremo più avanti.
Quel che qui interessa puntualizzare è quante forme diverse lo cholent assuma e quante variazioni conosca, a seconda delle comunità che lo preparano e dell’epoca presa in considerazione. Il tutto senza mai perdere la sua identità e confermando, una volta di più, quanto il cibo sia lo specchio di chi lo produce e consuma, anche nel suo essere polimorfo.
Per fare un po’ di ordine, seguire la linea del tempo può essere piuttosto utile. In questo modo, risalendo nei secoli andati, lo storico e scrittore Gil Marks nella sua Encyclopedia of Jewish Food, trova la prima citazione dello cholent ashkenazita, tsholnt in polacco, in un testo del Rabbi Isaac ben Moses di Vienna. Nato in Boemia e trasferitosi a studiare a Parigi nel 1217 presso il rabbino Messer Leon, nello scritto Or Zarua Isaac ben Moses racconta di come lo stufato di legumi, preparato il venerdì, fosse tenuto caldo per il sabato dagli inservienti cristiani del suo ospite francese. Una pratica, questa, non accettata dai più rigorosi rabbini tedeschi, che imponevano tra l’altro che il pentolone venisse posto in un forno sigillato o comunque su una fonte di calore non regolabile, senza che nessuno, ebreo o gentile che fosse, potesse più toccarlo.
Va detto, comunque, che mentre i tedeschi si confrontavano con i francesi, molto tempo prima il piatto già esisteva, o comunque stava prendendo forma, in Medio Oriente. Si trattava, in epoca antica, della harisa, pietanza a sua volta destinata allo Shabbat e preparato il venerdì con grano spezzato, agnello e cipolle. Considerato dagli studiosi come Marks l’antenato dell’hamin, questo stufato era chiamato dai sefarditi, specie nel Nord della Spagna, hamin di trigo, letteralmente “caldo di grano”, o semplicemente hamin. Pare che nello stesso periodo, sempre nella Penisola Iberica, diversi cuochi avessero iniziato ad aggiungere alla preparazione fave o ceci, allungando il tutto con liquido e ottenendo così uno stufato ben più brodoso rispetto all’originaria harisa, da cui ormai il nuovo piatto finiva con il differenziarsi nettamente.
La presenza dei legumi si stava dimostrando dunque decisiva e imprescindibile, aggiungendo un tassello a una comunque difficile (se non impossibile) caratterizzazione della ricetta. Per quanto riguarda gli altri ingredienti, questi si sarebbero via via differenziati a seconda dei Paesi in cui l’hamin arrivava. E se in Spagna e tra i sefarditi in genere la tendenza era quella di usare grano, riso, ceci o fave, accostati a carni di agnello, di pollo o di tacchino, insaporendo il tutto con spezie quali il cumino e il peperoncino, nell’Est Europa lo cholent era perlopiù a base di carne di manzo mescolata con orzo, cipolle e, dalla scoperta del Nuovo Mondo in poi, con patate e fagioli.
Prima di arrivare in Germania e in Polonia, però, non va dimenticato l’importante passaggio dell’hamin spagnolo in terra francese e in particolare, come fa notare la Roden nel suo libro già citato, nella regione della Linguadoca. Qui, oltre ad assumere il nome con il quale viene oggi generalmente indicato, avrebbe anche lasciato un segno piuttosto forte nella tradizione culinaria locale. Avrebbe cioè portato alla composizione di quella cassoulet, a base di carne (di oca, ma anche di suino) e di fagioli bianchi, che si sarebbe velocemente imposta presso i cristiani all’indomani dell’arrivo dei nuovi legumi dalle Americhe. A questo riguardo, Gil Marks ricorda che gli stessi Conversos, durante l’Inquisizione spagnola, erano stati costretti a trasformare il loro amato hamin in uno stufato di carne di maiale pur di poterlo continuare a mangiare senza rischiare l’arresto (quando non la morte).
Dalla Penisola Iberica l’hamin viaggerà poi verso Est, giungendo fino in India, di passaggio dalla Siria, e mantenendo spesso il nome originario. Nelle varie terre toccate, raccoglierà le tradizioni e gli ingredienti locali, acquisendo ad esempio in Italia l’uso delle fave (almeno in epoca precedente alla scoperta dell’America) e verdure come i cardi, o trasformandosi in un mix super speziato in India, con l’uso del garam masala e dello zenzero fresco. L’arrivo dei sefarditi in Nord Africa, invece, porterà all’incontro con le tradizionali tajine locali, nonché all’aggiunta di altre spezie e all’uso del miele.
In gran parte di queste derivazioni dalla ricetta sefardita, va inoltre ricordato uno dei suoi elementi distintivi, ossia le uova. Aggiunte intere allo stufato prima del riposo notturno, in 12 ore di cottura queste assorbono gli aromi di carni e vegetali, trasformandosi in huevos haminados, dal caratteristico albume marroncino e il tuorlo burroso ancora tutto da scoprire e da assaporare. Passando invece in Germania, lo cholent risulta in genere più asciutto dell’hamin sefardita, anche se resta comunque molto morbido, e pare sia uso aggiungervi un paio di gewürzgurken, i classici cetrioli croccanti aromatizzati con aneto e semi di senape.
Per quanto veloce e necessariamente incompleta, questa carrellata sui diversi modi di comporre l’hamin (e lo cholent) dovrebbe confermare quanto detto all’inizio, ossia la natura sostanzialmente proteiforme di questo piatto. Quello che conta, però, è il suo scopo. E in particolare la sua capacità di assolvere ai già citati precetti dello Shabbat. Se da una parte si tratta per definizione di una pietanza calda, la sua genialità sta nel fatto di conservarsi alla giusta temperatura dal momento della sua preparazione fino a quello del consumo. A questo riguardo, va ricordato che il cibo dovrebbe essere cotto almeno per metà prima del calare del sole del venerdì, finendo di cuocere su un fuoco già acceso e che non potrà più essere toccato, pena l’infrazione del precetto del riposo.
Se oggi la faccenda viene ampiamente risolta dagli osservanti con l’impiego di pentole programmabili, le cosiddette slow cooker, o anche semplicemente lasciando la casseruola coperta per tutta la notte su un fornello o una piastra regolati al minimo, un tempo, quando gas ed elettricità non erano neppure pensabili, tutto doveva per forza avvenire sulle braci, su una stufa o in un forno, spento o comunque non regolabile. E se in seguito ogni famiglia avrebbe potuto organizzarsi da sé, fino al Novecento inoltrato la pratica più comune diventava necessariamente un rito collettivo. Il venerdì pomeriggio, infatti, in Spagna come in Germania era d’uso che l’uomo di casa, la madre, un inserviente o un figlio più grande prendessero il pentolone di famiglia con lo cholent cotto a metà, dotato del suo bravo coperchio sigillato con un impasto di farina e acqua e lo portassero al forno pubblico, appena spento dopo aver indorato l’ultima challah della giornata. Secondo le regole più severe, lo stesso forno veniva sigillato con un composto di argilla, lasciando così che lo stufato cuocesse con il solo calore dei mattoni ancora roventi per tutta la notte, senza interventi umani di sorta. L’indomani, al ritorno dalla sinagoga, le famiglie potevano riprendere il loro pentolone e scoperchiare finalmente quel caldo concentrato di aromi e di significati che da sempre compone lo cholent.
Cholent
Ingredienti per 5-6
6-8 ossi di manzo o di vitello
200 g di fagioli secchi misti già ammollati
3 cipolle
2-3 spicchi d’aglio
6 patate medie
1,2 kg di polpa di manzo
100 g di orzo perlato
2-3 foglie di alloro
sale
pepe in grani
Sbucciare le cipolle, le patate e l’aglio, poi affettare le cipolle e tagliare a tocchi le patate. Disporre gli ossi sul fondo di una pentola possibilmente di ghisa a sponde alte, poi disporvi sopra i fagioli e, nell’ordine, le cipolle, l’aglio tritato, le patate, il manzo a tocchetti, l’orzo, l’alloro, sale e il pepe macinato.
Coprire con abbondante acqua, poi portarla a ebollizione, mettere il coperchio, abbassare la fiamma e cuocere a calore medio basso schiumando la superficie per almeno 1 ora, o comunque finché i fagioli saranno morbidi.
Aggiungere se serve altra acqua, poi mettere un coperchio e trasferire nel forno già caldo a 150°, cuocere per 15 minuti, poi abbassare la temperatura a 100° e lasciare cuocere per 12 ore, senza mai toccare il contenuto della pentola.
Spegnere infine il forno e lasciarvi riposare il cholent per 2 ore, poi trasferire il contenuto della casseruola sul piatto da portata e servire.
Hamin
Ingredienti per 5-6
5-6 piccoli stinchi di agnello o costine di manzo
3 cipolle
4 spicchi d’aglio
200 g di fave secche e/o fagioli già ammollati
6-7 patate
200 g di grano o di riso
cumino in polvere
cannella in polvere
olio extravergine d’oliva
sale
pepe in grani
Scaldare 4-5 cucchiai di olio in una casseruola possibilmente di ghisa a sponde alte, aggiungervi la carne, farla rosolare su tutti i lati per 10 minuti, poi toglierla dal fuoco. Aggiungere le cipolle sbucciate e affettate, poi rosolarle per circa 15 minuti.
Sbucciare e tritare l’aglio, poi unirlo in pentola e rosolare per un minuto, quindi aggiungere di nuovo la carne con i fagioli, le patate, i chicchi di grano o di riso, sale, pepe macinato, spezie a piacere e l’acqua necessaria a coprire il tutto.
Mettere un coperchio e trasferire la casseruola nel forno già caldo a 100°, poi cuocere per tutta la notte senza mai toccare il recipiente e il suo contenuto. Fare riposare a fuoco spento per 1 ora, sfornare e servire.
Camilla Marini è nata a Gemona del Friuli (UD) nel 1973, vive a Milano dove lavora da vent’anni come giornalista freelance, scrivendo prevalentemente di cucina, alimentazione e viaggi. Nel 2016 ha pubblicato la guida Parigi (Oltre Edizioni), dove racconta la città attraverso la vita di otto donne che ne hanno segnato la storia.
Mi piace moltissimo ma non lo mai fatto
Interessante, shalooom