Dal Danish Jewish Museum alla Royal Library al Freedom Museum ricostruito dopo l’incendio doloso che lo aveva distrutto nel 2013
Da quasi vent’anni passato e presente dell’ebraismo danese si rispecchiano in un museo sviluppato come un complesso sistema di simboli. Inaugurato nel 2004, il Danish Jewish Museum di Copenhagen si presenta come un intricato gioco di rimandi storici, architettonici e religiosi, a partire dal luogo che lo ospita, la Royal Boat House, e dall’uomo che lo fece costruire all’inizio del XVII secolo, re Christian IV.
Un luogo, ma anche un tempo e un personaggio importanti, visto che è proprio in questa epoca e sotto il regno di questo sovrano che inizia la storia degli ebrei in Danimarca.
Per rimpinguare le casse dello Stato prosciugate da guerre e da onerosi interventi urbanistici, negli anni Venti del Seicento il sovrano avrebbe pensato bene di offrire ospitalità ad alcune facoltose famiglie ebraiche provenienti perlopiù dalla vicina Germania. In cambio di protezione e della possibilità di praticare la propria religione liberamente (relativamente, visto che il tutto doveva avvenire a porte e finestre chiuse), i rappresentanti di una religione fino a quel momento assente sul territorio nazionale avrebbero dovuto pagare al regnante le tasse su proprietà e redditi. Oltre a prestargli ingenti somme di denaro.
Tornando all’edificio che oggi ospita parte degli oggetti, delle opere e dei documenti che testimoniano 400 anni di storia ebraica danese, questo antico palazzo all’inizio del Novecento avrebbe subito radicali interventi, trasformandosi nella Royal Library. Oggi è proprio dalle sale della sua struttura originaria, dai soffitti a volta e i mattoni a vista, che inizia la visita a questo straordinario luogo espositivo.
Progettato dall’architetto Daniel Libeskind, polacco naturalizzato statunitense di origine ebraica, il Jewish Museum propone un percorso che si sviluppa nella storia e nel pensiero oltre che nello spazio. Collegata al corpo antico attraverso un passaggio pedonale, la futuristica struttura in Proviantpassagen 6 si articola come una serie di piani, ognuno corrispondente a una dimensione dell’esperienza religiosa: Exodus, Wilderness, The Giving of the Law, The Promised Land e Mitzvah. I diversi livelli sono collegati da intricati corridoi dai pavimenti in pendenza e le pareti inclinate che a loro volta compongono le lettere della parola Mitzvah, concetto sul quale si fonda lo stesso museo e dentro al quale il visitatore si trova immerso anche fisicamente.
Nell’allestire le mostre, il consiglio di amministrazione del Museo, composto da membri della Società per la storia ebraica danese, ha scelto di concentrare l’attenzione sulla peculiarità della storia danese. Così, tra gli eventi che guidano l’esposizione, più che l’Olocausto viene messo in luce il salvataggio degli ebrei dalla persecuzione nazista messo in atto dalla resistenza danese. Grazie a una fuga di notizie, prima che diventasse ufficiale l’ordine di arresto e deportazione da parte di Hitler, il primo ottobre 1943 fu organizzato l’esodo via mare verso la neutrale Svezia di 7.220 dei 7.800 ebrei presenti in Danimarca, oltre a 686 loro coniugi non ebrei. Con questa azione e con la successiva intercessione danese a favore dei 464 ebrei catturati e deportati nel campo di Theresienstadt, oltre il 99% della popolazione ebraica danese riuscì a sopravvivere all’Olocausto. Oggi lo stesso museo organizza visite guidate nei luoghi della città che sono stati decisivi nelle operazioni di salvataggio, raccontando le storie di quanti dovettero fuggire così come gli sforzi della città perché poi queste stesse persone potessero fare ritorno alle loro proprietà.
Attigua al museo ebraico, la Royal Library è un altro luogo ricco di testimonianze della storia ebraica. Maestosa e imponente, la sua nuova ala è stata costruita nel 1999 e prende il nome di Black Diamond per la sua forma squadrata e la copertura lucida di granito nero che riflette la luce del sole. Tra le sue collezioni, la Judaica è una delle più sorprendenti e spazia dai manoscritti miniati medievali, acquistati per quella che fino al 1793 era stata la collezione personale del re, ai circa 45mila volumi acquisiti nel 1932 dalla collezione privata dell’ex rabbino capo di Copenhagen, il professor David Simonsen. Sopravvissuta miracolosamente alla Seconda Guerra Mondiale, nei decenni successivi al conflitto la Judaica si è arricchita di nuovi testi, donati o venduti alla biblioteca in segno di gratitudine alla popolazione danese per il salvataggio del 1943. Gran parte dell’immenso patrimonio bibliografico è stato recentemente digitalizzato e può essere consultato, o comunque ordinato per la consultazione, anche online.
Allontanandosi dal vasto complesso museale e bibliotecario, si può raggiungere un altro luogo legato alla resistenza e alle vicende del popolo ebraico in terra danese. Ricostruito completamente dopo l’incendio doloso del 2013 che ne aveva distrutto la precedente sede, il Freedom Museum non ha abbandonato il suo vecchio sito, a Churchillparken di Kastellet, ma oggi è decisamente più moderno e sicuro. Gran parte degli oggetti in mostra, fortunatamente scampati alle fiamme, sono esposti in sale sotterranee e ripropongono la storia della Resistenza danese durante l’occupazione nel 1940-45. Diversi i percorsi proposti, così come le attività, anche online, che consentono di immergersi nelle azioni di quanti, dai privati cittadini ai rappresentanti delle istituzioni religiose e civili, si erano opposti al regime. Oltre alla simulazione di azioni di sabotaggio, si può anche entrare in contatto virtuale con i diversi protagonisti di quegli anni drammatici.
Facendo un salto indietro nel tempo e insieme immergendosi nel presente della vita ebraica locale, si raggiunge a questo punto il più importante luogo di preghiera ebraico della città, la Grande Sinagoga in Krystalgade 12. Costruita nel 1833 dall’architetto Gustav Friedrich Hetsch, il tempio aveva preso il posto di alcune piccole sinagoghe già presenti nella capitale danese, spesso costruite per sostituire quelle bruciate nei diversi incendi che devastarono la città nel corso del Settecento. Inaugurata il 12 aprile dal nuovo rabbino capo Abraham Alexander Wolff, che guidò la congregazione cittadina per oltre sessant’anni e che ora riposa nell’antico cimitero ebraico di Nørrebro, fondato nel 1693, la sinagoga della Jewish Society presenta uno stile architettonico che richiama per certi versi quello egiziano. Può essere esplorata virtualmente dal sito della congregazione.
Per quanto si tratti del più importante tempio della città, la Grande Sinagoga non è però l’unico luogo di culto giudaico di Copenhagen. Con i suoi 6-7.000 ebrei perlopiù concentrati nella capitale, la Danimarca presenta infatti una comunità complessa e vivace, composta dai discendenti di famiglie provenienti dai luoghi più diversi. I primi a giungere sulle sue coste pare siano stati i sefarditi, che sarebbero rimasti però sempre in numero piuttosto esiguo rispetto agli ashkenaziti, arrivati perlopiù dalla vicina Germania all’epoca di Christian IV, nel Seicento. A loro si sarebbero affiancati a fine Ottocento i russi, in fuga dalla miseria e dalle persecuzioni della loro terra natia, seguiti negli anni Trenta del Novecento dai tedeschi scappati dal regime nazista. Un’altra migrazione sarebbe avvenuta intorno al 1968 con i rifugiati dalla Polonia comunista.
Alle svariate provenienze geografiche si associano le appartenenze ai diversi gruppi religiosi. Alla comunità ortodossa della Jewish Society si accostano così quella riformata di Shir Hatzafon, quella degli ortodossi chassidici Chabad e degli ultra ortodossi Machsika Hadas, letteralmente i Guardiani della Fede. Nata oltre un secolo fa, questa congregazione ridotta ormai a poche famiglie possiede ancora una sua piccola sinagoga in Ole Suhrsgade 12, fondata nel 1934 e poi ampliata nel 1958.
Camilla Marini è nata a Gemona del Friuli (UD) nel 1973, vive a Milano dove lavora da vent’anni come giornalista freelance, scrivendo prevalentemente di cucina, alimentazione e viaggi. Nel 2016 ha pubblicato la guida Parigi (Oltre Edizioni), dove racconta la città attraverso la vita di otto donne che ne hanno segnato la storia.