La recensione
Ci sono artisti che si amano a prescindere. A prescindere dalla singola opera; se ne valuta il percorso, l’identità completa che non viene scalfita neanche da un insuccesso. Il loro carisma sopravvive a qualunque scivolone, a qualunque critica. Nel caso di Woody Allen avviene questo. Dato che per sua stessa ammissione sente la necessità di fare un film all’anno – sono pellicole a basso budget, se lo può permettere – per divertimento o come terapia, e dato che ha compiuto da pochi giorni ottantotto anni, la sua produzione è piuttosto corposa.
Non sempre ci sono stati capolavori; ma tutte le volte siamo riusciti ad apprezzare qualcosa. Una battuta, un personaggio, un’inquadratura, uno scenario. L’ultimo film, Coup de chance, si svolge a Parigi ed ha quindi un bel paesaggio a disposizione. E’ recitato in francese da attori francesi, carini, spigliati. Belle case, bei lavori. Il marito nella finanza, lei in una sofisticata casa di aste, il giovane squattrinato scrittore vive in un bilocale piuttosto improbabile per le sue tasche, ma indossa i panni dell’artista bohémien con simpatica disinvoltura. Ci sono le solite frasi taglienti (la vita è una commedia aspra), qualche personaggio curioso (la madre della protagonista che si improvvisa detective) e la solita fotografia di Storaro che illumina le foglie gialle del paesaggio autunnale.
Eppure qualcosa non gira. Si è parlato di richiami a Match Point perchè anche questa è una storia di passione e di omicidio. Allen cita chiaramente i segni del film: all’inizio il marito regala alla moglie un anello che lei non vorrebbe mettere al dito (l’anello è “l’oggetto magico” della pellicola precedente, quello che porterà a scagionare l’assassino negandogli catarsi) e il fucile da caccia è lo stesso che Chris usa per uccidere Nora (si caccia molto nei film di Woody Allen). Ma, a differenza di Match Point, qui l’omicida seriale non si sente minimamente sfiorato dai sensi di colpa, uccide con la stessa facilità con cui si soffierebbe il naso. Nell’altro film c’erano una serie di sub plot che rendevano solida la struttura: l’ascesa sociale a cui il giovane tennista non voleva rinunciare per ambizione, lo scontro tra classi, l’attrazione per una donna su cui pesavano etichette e stigmi, americana in un mondo tutto inglese. Il tema del caso – ormai caratteristica costante nei film di Allen – veniva declinato con acutezza, diventava centrale e generava riflessione. E poi la passione, il tormento, il dubbio, il rimorso lacerante, la profonda tristezza. C’erano i sentimenti. Ecco, il problema fondamentale di Coup de chance è che qui i sentimenti non ci sono. Si passa dall’amore al disinteresse, le perdite si annullano bevendo un bicchiere di champagne, l’indifferenza al cuore e alle sue ragioni finisce per oscurare qualunque sensibilità. E non solo nella trama e nei personaggi, anche nel regista. Sembra che Allen osservi l’umanità del film con sguardo beffardo, come un burattinaio che muove i fili di marionette piuttosto prevedibili. Non si percepisce nessuna partecipazione, solo osservazione distaccata.
Gli spunti che potrebbero essere comici – il marito appassionato di trenini elettrici, la suocera golosa di foie-gras – diventano giudizi cinici, spietati. Sono sferzate verso un’élite snob che non ci sta simpatica neanche per un minuto. Forse aver fatto recitare gli attori in un’altra lingua ha contribuito a creare questa estraniazione? Può darsi. Si ha la sensazione che ci siano delle piste narrative che sono state abbandonate nel percorso. Perchè la protagonista ha in tasca un biglietto della lotteria che non viene più utilizzato o tirato in causa nella trama? Sembra la pistola di cui parla Cechov: se appare nel primo atto, poi deve sparare. Invece, nonostante uno sparo ci sia, anche quello è scontato, non genera dramma e il finale resta tronco. Il regista si compiace delle sue citazioni ma non riesce a comporre un’opera credibile. Si cita addosso, per parafrasare un testo noto di Allen. Si può perdonare a un artista uno sbaglio, un film minore, noiosetto e privo di ossatura, ma non la mancanza di empatia verso i propri personaggi. Quella è l’unica condizione per creare con onestà. Ma niente paura. Woody ci proverà di nuovo. E noi fedelmente aspettiamo, come tutti gli anni, che ci sorprenda ancora una volta.