La distruzione delle comunità ebraiche europee era un disegno che politicamente viveva di una sorta di dimensione sua propria, indipendente da altre prassi del Terzo Reich
La storia degli ebrei ungheresi, e del loro sterminio, è tra le più raccontate. Un’ampia documentazione fotografica, perlopiù risalente al 1944, resoconta di ciò che avvenne loro. Così facendo, ci restituisce per frammenti le immagini della Shoah nel suo insieme, varcando le soglie delle vicende del Paese di cui rimane comunque un impressionante repertorio. Non di meno, l’eliminazione di una della più grandi comunità ebraiche continentali, compiutosi quasi in prossimità della conclusione della guerra – comunque in un anno ove le sorti definitive del conflitto erano già chiare per chiunque avesse una qualche cognizione dello stato delle cose – rafforza il significato della lettura della distruzione delle comunità ebraiche europee come di un disegno che, per essere compreso appieno, va senz’altro contestualizzato storicamente ma che politicamente viveva di una sorta di dimensione sua propria, indipendente da altre prassi del Terzo Reich.
Di certo un’Europa senza ebrei era parte integrante dell’imperialismo nazista. Tuttavia, come non si può risolvere quest’ultimo nella sola Shoah (sommando in sé anche occupazione militare dei territori, persecuzioni contro le popolazioni non tedesche, violenze sistematiche ai danni dei civili, rapina e saccheggio dei beni altrui, schiavizzazione delle collettività slave, collaborazionismi e altro ancora) così, per un criterio di reciproco inverso, non si può incasellare lo sterminio razzista dentro la sola dinamica espansionista della Germania hitleriana. In altre parole, se l’equivalenza tra bolscevismo e giudaismo era pressoché totale – come spesso è stato ricordato anche in altri articoli pubblicati su questa testata –, facendo quindi derivare il primo dal secondo, non di meno la trasformazione dell’antisemitismo in ideologia – e poi in prassi politica di Stato – così come la sua radicalizzazione cumulativa (laddove all’incremento costante del tasso di violenza si sommava l’estensione e l’imbarbarimento delle pratiche prima persecutorie e poi sterminazioniste), presentavano, dal punto di vista nazista, una ragione a sé, che la guerra contribuì non solo ad alimentare ma a tradurre in genocidio. Un antisemitismo redentivo (Philippe Burrin) era alla radice di questa visione del mondo, ovvero delle relazioni sociali.
Così Saul Friedländer: «i più ampi obiettivi dell’antisemitismo di Hitler apparvero solo con la pubblicazione di Mein Kampf, in cui la dimensione apocalittica della lotta antiebraica trova piena forza espressiva. Tale epilogo potrebbe essere stato il frutto di un’evoluzione indipendente del pensiero politico di Hitler; più probabilmente, tuttavia, fu il risultato dell’influsso ideologico di un uomo che Hitler conobbe alla fine del 1919 o all’inizio del 1920: lo scrittore, direttore di giornale, saggista, tossicodipendente e alcolizzato Dietrich Eckart. […]
Il tristemente noto “dialogo” tra Eckart e Hitler, Der Bolschewismus von Moses bis Lenin: Zwiegerspräch zwischen Adolf Hitler und Mir (Il bolscevismo da Mosè a Lenin: un dialogo tra Adolf Hitler e me), pubblicato alcuni mesi dopo la morte di Eckart, fu scritto dal solo Dietrich Eckart probabilmente all’insaputa dello stesso Hitler. […] I temi del Dialogo traspaiono chiaramente nel Mein Kampf ogni qual volta la retorica di Hitler assurge al livello metastorico. Ciò che immediatamente […], a partire dal titolo stesso, è che il bolscevismo non è identificato con l’ideologia e la forza politica assurta al potere in Russia nel 1917, quanto piuttosto con l’azione distruttiva degli ebrei nel corso dei tempi. In realtà, nei primi anni della carriera di agitatore di Hitler – e questo include la stesura del testo del Mein Kampf – il bolscevismo politico, sebbene costantemente indicato come uno degli strumenti impiegati dagli ebrei per giungere a dominare il mondo, non è una delle principali ossessioni di Hitler. Esso è un tema primario solo nella misura in cui il vero tema centrale sono gli ebrei, di cui il bolscevismo è espressione. […] Il Dialogo è impregnato di visioni apocalittiche correlate alla minaccia ebraica. Il pamphlet di Eckart è certamente una delle rappresentazioni più estremizzate degli ebrei in quanto storica forza del male. Alla fine del testo [Hitler] riepiloga l’obiettivo ultimo degli ebrei: “Le cose stanno certamente – egli disse – come tu [Eckart] hai scritto una volta: È possibile capire gli ebrei solo conoscendo il loro obiettivo finale. Essi vanno al di là del dominio del mondo, e tendono alla distruzione del mondo”.
Questa visione di una fine del mondo provocata dagli ebrei riappare, quasi testualmente, in Mein Kampf : ‘Se, con l’aiuto del credo marxista, l’ebreo risulterà vittorioso sugli altri popoli del mondo – scrisse Hitler – la sua corona sarà la ghirlanda funeraria dell’umanità e il suo pianeta ruoterà nell’etere, come faceva migliaia di anni fa, del tutto privo di esseri umani’. Al termine del secondo capitolo di Mein Kampf troviamo la sinistra dichiarazione di fede: ‘Oggi io ritengo di star agendo in accordo al volere del Possente Creatore: difendendo me stesso dall’ebreo io combatto per l’operato del Signore’. In Eckart, e in Hitler così com’egli andò postulando il proprio credo a partire dal 1924, l’antisemitismo redentivo trovò la sua più piena espressione. […] Hitler ripeté incessantemente una storia di perdizione causata dagli ebrei e di redenzione conquistata mediante una completa vittoria su di essi. Per il futuro Führer, le sinistre macchinazioni degli ebrei erano un’ininterrotta e onnicomprensiva attività cospirativa che abbracciava l’intera storia dell’Occidente. Il quadro interpretativo hitleriano non si riduceva semplicemente al suo contesto esplicito; esso costituiva altresì l’essenza dell’implicito messaggio che la storia trasmetteva. Nonostante le pretese di analisi storica, nella descrizione di Hitler l’ebreo veniva destoricizzato e trasformato in un astratto principio di malvagità contrapposto a una controparte altrettanto metastorica e immutabile nella sua natura e nel suo ruolo: la razza ariana. Laddove il marxismo enfatizzava l’idea del conflitto come conseguenza del tentativo di cambiare le forze della storia, il nazismo e la visione del mondo hitleriana in particolare consideravano la storia come scontro tra forze del bene e forze del male, entrambe immutabili, il cui esito finale non poteva essere immaginato che in termini religiosi: perdizione o redenzione».
Così Friedländer, che nel definire l’antisemitismo hitleriano al pari di una teodicea assolutistica, ci aiuta meglio a comprendere quella somma di prassi inerziali e investimento ideologico totale, di radicalità e sistematicità, di ossessione e costanza, di modernità tecnologica e regressività civile che sta alla radice della distruzione dello stesso ebraismo ungherese, in tempi che oramai rivelavano l’esito a venire, in sé sempre più prossimo, del catastrofico tentativo nazista di soggiogare il Continente europeo. Quando, mutate le sorti politiche in Ungheria, il 19 marzo 1944 i tedeschi si decisero ad occuparla militarmente, istituendo poi un governo collaborazionista di effimera durata, i sovietici – infatti – non erano troppo lontani dai confini orientali del Paese. Le urgenze, in altre parole, sembrano essere di ben diversa natura che non quella dell’eliminazione fisica, in tempi molto rapidi, di un’intera parte della società locale. Poiché, e qui il racconto delle vicende si incunea nel percorso storico di lungo periodo, l’insediamento ebraico era millenario, vantando la presenza certa all’anno mille.
Qualcuno ha fatto notare che in ungherese il termine «giudeo» si traduce con la parola zsidó (al plurale Zsidók), di origine slava, quasi a lasciare intendere una possibile sovrapposizione tra un’ancora più antica presenza e certi aspetti della civilizzazione est-europea. La cristianizzazione del territorio ungherese concorse, come avvenne in altre parti del Continente, prima a definire e poi a sancire normativamente politiche di segregazione comunitaria. In età contemporanea, la modernizzazione del Paese si accompagnò all’emancipazione della componente ebraica. Nel 1867 l’imperatore Francesco Giuseppe sciolse i vincoli di ordine giuridico che limitavano la piena cittadinanza degli ebrei. La coesistenza in un impero multietnico, nel quale tuttavia i nazionalismi andavano manifestandosi e quindi esacerbandosi, favorì comunque il processo di integrazione. La partecipazione della popolazione ebraica alla vita pubblica si fece sempre più intensa. Ciò ebbe due implicazioni rilevanti: la nutrita presenza, nelle file dell’esercito austro-ungarico che combatté durante la Prima guerra mondiale, di un grande numero di ebrei magiari così come la partecipazione, nelle élite rivoluzionarie,ù che furono protagoniste della fallimentare Repubblica dei consigli d’Ungheria (tra il marzo e l’agosto del 1919), di un buon numero di intellettuali e militanti di origine ebraica. Tra di essi sia sufficiente ricordare i nomi di Béla Kun, Jenő Landler, Béla Vágó, Ottó Korvin, Tibor Szamuely, Georg Lukács e Mátyás Rákosi.
Il ricorso alla forza per ottenere un regime sovietico, conosciuto come Magyarországi Tanácsköztársaság o Magyarországi Szocialista Szövetséges Tanácsköztársaság, si rivelò non meno fallimentare dell’evanescente della Prima repubblica d’Ungheria, nata a sua volta al momento dello scioglimento dell’Impero austro-ungarico nel novembre 1918. Dopo la firma del trattato di Trianon (4 giugno 1920), con il riassetto dell’Europa danubiana, a seguito di ampie cessioni territoriali a favore di Cecoslovacchia, Romania e Jugoslavia, l’Ungheria ne era uscita fortemente ridimensionata. La Transilvania era divenuta parte definitiva della Romania; la Slovacchia entrava a fare parte della neonata Repubblica cecoslovacca, così come la Rutenia subcarpatica; Croazia, Slavonia, Voivodina si univano al nuovo Regno dei servi, croati e sloveni, mentre le città ungheresi di Pécs, Baja, Szigervár e Mohács furono sottoposte all’amministrazione provvisoria serbo-croata; buona parte del Burgenland divenne nel 1921 parte della Repubblica d’Austria mentre Fiume, infine, fu annessa all’Italia nel 1924.
Se in un tale ridisegno territoriale le penalizzazioni per gli ungheresi furono gigantesche, causando un vero e proprio “trauma”, che avrebbe ben presto incamminato il Paese verso quel revisionismo geopolitico che, con l’Italia prima e la Germania poi, divenne il suggello della politica europea contro i trattati di pace seguiti alla conclusione della Prima guerra mondiale, la maggiore omogeneità etno-nazionale che ne sembrò derivare avrebbe dovuto aiutare l’integrazione della società nel nuovo Stato. Tuttavia, i gravami economici si rivelarono da subito tali da porre un freno a qualsiasi ipotesi di sviluppo. Si calcola che il 61,4% della terra arabile, l’88% dei boschi, il 62,2% delle ferrovie, il 64,5% delle strade battute, l’83,1% della produzione di ghisa, il 55,7% degli impianti industriali e il 67% degli istituti bancari e di credito dell’ex Regno d’Ungheria fossero nel mentre divenuti parte integrante delle nazioni circostanti. È vero che proprio in ragione di ciò un’aliquota del debito di guerra fu traslato ai beneficiari delle annessioni ma le condizioni imposte dal trattato di Versailles al Paese sconfitto assomigliavano a quelle dettate alla Germania, con la cancellazione di fatto dell’esercito (ridotto a non più di 35mila elementi, in assenza di leva obbligatoria) e il depauperamento delle linee ferroviarie (strategiche per una nazione completamente priva di sbocco sul mare).
Il fatto che successivi accordi, come gli arbitrati di Vienna fossero poi intervenuti per mitigare le amputazioni territoriali del 1920, non mutarono il quadro generale della situazione. Due terzi del territorio d’anteguerra erano andati perduti. La popolazione ebraica di insediamento magiaro, che prima di Trianon era composta di 911mila elementi, da allora si ridusse della metà, 473mila persone, molte delle quali residenti a Budapest. Nei vent’anni intercorsi tra le due guerre mondiali l’Ungheria si impegnò quindi in una politica dai toni marcatamente irredentisti. D’altro canto, con la nascita della Piccola Intesa (1920-1936), l’alleanza politica costituita per il tramite di una serie di accordi sottoscritti da Romania, Jugoslavia e Cecoslovacchia con l’obiettivo di neutralizzare le pretese magiare, la politica estera di Budapest cercò prima in Roma e poi, dopo l’annessione tedesca dell’Austria nel marzo del 1938, in Berlino, i suoi interlocutori privilegiati. Tutto il resto era lontano.
L’ascesa alla guida del Paese di Miklós Horthy, ammiraglio e reggente di fatto del Regno d’Ungheria per ben ventiquattro anni, dal 1920 al 1944, fu contrassegnata da un violento conservatorismo di ritorno. Il sistema istituzionale controrivoluzionario di cui era al vertice, combatté spregiudicatamente l’esile e velleitario tentativo della Repubblica dei consigli con l’adozione di un vero e proprio «terrore bianco», sulla scorta delle violenze anticomuniste in corso nei territori occidentali della futura Unione Sovietica. Horthy aveva ad obiettivo soprattutto due target: consolidare il suo potere, a fronte di esecutivi deboli e spesso inetti e dinanzi ad una situazione economica e sociale tormentata; impedire agli Asburgo di tornare in sella, occupando il trono di fatto vacante. La sua posizione, assai calcolata sul piano politico, di «reggente» ad interim, si inscriveva quindi in questo stato di cose. Fotografando una condizione di sospensione della sovranità del casato, alla quale si sostituiva un potere di fatto, pressoché privo di effettivi limiti di sindacato. In altre parole, alla restaurazione monarchia, dopo una Repubblica liberale e una social-comunista, non seguì nessun regnante ma una forma ibrida di governatorato. Anche per questo l’ammiraglio e i suoi uomini, caratterizzandosi per il loro intransigente radicalismo, imposero al parlamento sia una riforma agraria, necessaria per dare respiro all’economia, sia una legislazione antisemita, che reintroduceva il numero chiuso nell’accesso al sistema educativo.
Non di meno, le autorità nazionali tolleravano l’esistenza e l’operato dei gruppi e delle milizie paramilitari che attuavano azioni terroristiche contro la minoranza ebraica, l’intellettualità dissidente e le organizzazioni socialiste. Per il conservatorismo magiaro la partecipazione di alcuni dirigenti comunisti di origine ebraica al breve governo di Béla Kun, era la riprova della compromissione dell’ebraismo intero con il bolscevismo. L’Ungheria di quegli anni doveva fronteggiare il problema dell’assorbimento dei profughi, spesso appartenenti a quei ceti medi espulsi dai loro territori di origine; con esso, la questione della smobilitazione del vecchio esercito imperiale, insieme alla presenza di un grande numero di ufficiali privi di occupazione (a fronte di decine di migliaia, solo 1.750 riuscirono a tornare in servizio effettivo); al pari della contestuale disoccupazione di una parte dei funzionari statali; infine, il malcontento di quanti, avendo goduto di un diverso trattamento in epoca imperiale, ora dovevano fare i conti con una situazione drammatica per sé e i propri familiari. Lo sviluppo di organizzazioni proto-fasciste ed eversive si inseriva in questo calderone, alimentandosi anche dell’incapacità dei governi di imporsi sulle forze armate riformate, assai poco lealiste nei confronti delle istituzioni. La piccola e media borghesia in crisi andava alla ricerca di impieghi nel settore pubblico, a sua volta completamente incapace di dare risposte affermative a tali richieste. La rilevanza della presenza ebraica nell’industria e nel commercio (avendo perlopiù sofferto della precedente esclusione dalla pubblica amministrazione), ossia in quei settori verso cui l’esecutivo cercò di dirottare i profughi, e la competizione che in tale modo si innescò, favorirono l’antisemitismo dei nuovi arrivati. La successiva stabilizzazione del Paese, avvenuta a cavallo tra gli anni Venti e Trenta, non sciolse molti dei nodi che si erano precedentemente formati.
Non a caso, infatti, nel 1935 l’ex maggiore Ferenc Szálasi, aveva fondato il Partito della Volontà Nazionale (Nemzet Akaratának Pártja – NAP, acronimo corrispondente al termine «sole» come anche «giorno»), messo fuorilegge due anni dopo a causa della sua radicalità ideologica, del ricorso sistematico alla violenza e del feroce antisemitismo. La formazione politica fu poi ridenominata, dopo alcuni passaggi intermedi, come Partito delle Croci Frecciate (Nyilaskeresztes Párt – Hungarista Mozgalom, letteralmente «Partito delle Croci Frecciate – Movimento Ungarista») e divenne ben presto, con le sue unità paramilitari, a partire dalle Camicie verdi, la principale forza di opposizione alla maggioranza governativa. Nel mentre le stesse Camicie verdi avevano dato vita al Partito nazionale socialista (Nemzeti Szocialista Párt), insieme a gruppi più effimeri, tutti però connotati da un esasperato nazionalismo, un’accentuata simpatia per il fascismo e il nazismo, un acceso antisemitismo.
Alla vigilia della Seconda guerra mondiale le Croci frecciate (che dichiaravano di fregiarsi di un antico simbolo delle tribù che si erano stabilite in Ungheria: il riferimento ad esso demandava alla purezza razziale dei «magiari», intesi come un’entità etnica omogenea, al medesimo modo in cui la svastica richiamava la purezza razziale ariana) potevano contare su circa mezzo milione di aderenti ed una trentina di seggi al Parlamento (pari al 25% dei voti espressi, con una base elettorale composta soprattutto da nazionalisti di varia estrazione, studenti, ufficiali delle forze armate ma anche operai e contadini delusi o estranei alla sinistra). L’ideologia del movimento presentava numerose analogie con il nazismo, soprattutto nei ripetuti richiami antisemitici, nel razzismo militante, in un anticapitalismo plebeo e di facciata, in un viscerale anticomunismo, nell’idea che la popolazione nazionale dovesse essere divisa tra gli appartenenti alla razza pura (ungheresi e tedeschi) e le comunità stranieri e quindi “ostili”, nel rigetto del liberalismo e di ogni forma di pluralismo sociale e culturale.
L’ambizioni di dare vita ad una «Grande Ungheria», sia nelle dimensioni territoriali che nella capacità egemonica, nonché la promozione dei «valori ungheresi» (due obiettivi per i quali Szálasi coniò il termine di «hungarizmus», ungarismo) si scontrarono quasi da subito con le ambizioni imperialiste della Germania sull’Europa centrale. Berlino, infatti, sostenne selettivamente solo quei gruppi minori che erano dichiaratamente filotedeschi, di fatto ponendosi in posizione espressamente supina ai suoi interessi. In un tale clima esacerbato, nel mentre anche l’Ungheria realizzava che gli equilibri sanciti dal Trattato di Versailles fossero oramai destinati al tramonto, Miklós Horthy rafforzò nel 1938 le disposizioni antiebraiche, istituendo una distinzione legale tra ebrei e non ebrei: i primi erano esentati dal servizio militare ma obbligati al «servizio del lavoro», a sua volta militarizzato. Nel l’agosto del 1941, inoltre, furono vietati i matrimoni misti, i rapporti intimi tra «magiari» e «giudei», l’accesso alle pubbliche funzioni e alle mansioni governative. La Wehrmacht nel mentre dilagava ad Est, occupando i Paesi baltici, la Bielorussia e l’Ucraina. La retorica di regime giustificò le drastiche scelte sia come risposta al fallimento dell’«assimilazione» (gli ebrei non erano veri ungheresi né intendevano divenirlo) sia come necessità di aderire ad un modello di riorganizzazione politico-sociale basata sul razzismo di Stato, a rimorchio della Germania.
Avendo a modello le leggi di Norimberga del 1935, anche i convertiti al cristianesimo furono classificati come ebrei e quindi discriminati legalmente. Nel mentre, il Paese, alleato della Germania hitleriana, aveva recuperato, grazie ai due arbitrati di Vienna, parte dei territori perduti nel 1920 con il Trattato del Trianon. La qual cosa implicava la cospicua presenza di minoranze ebraiche. Nel 1941, infatti, vivevano in Ungheria un totale di 725.000 ebrei (di cui 58.320 convertitisi ad altro culto), metà dei quali erano considerati apolidi. Benché Horthy rifiuterà sempre di consegnare i “suoi ebrei” ai nazisti, già nell’autunno del 1941 una parte di essi venne relegata alla schiavitù di fatto, essendo inviata in funzione servile ad appoggiare logisticamente le truppe ungheresi operanti ad Est e nella Serbia. Quattordicimila individui periranno di stenti e violenze. Un altro gruppo, di circa una decina di migliaia di persone, sarà invece da subito consegnata, in quanto «stranieri» ai reparti degli Einsatzgruppen, che a Kamenetz-Podolsk li sterminerà senza alcuna pietà.
(1 – continua)
Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.