Una tragedia immane in cui ha giocato un ruolo decisivo il ruolo dei collaborazionisti. In prima linea il capo del Governo, Ferenc Szálasi, fervente nazionalsocialista e furioso antisemita
Un aspetto importante dell’ebraismo ungherese, al pari della condizione di molte altre comunità europee, è che non costituiva un corpo unitario, omogeneo, capace quindi di coordinarsi come se fosse stato un soggetto in grado di esercitare una qualche pressione rispetto agli eventi in corso. Era una realtà al medesimo tempo plurale (poiché composta di molteplici individui, con interessi, gusti e status sociali molto differenziati) e acefala, in quanto priva di una guida univoca. Più prosaicamente, pur con tutte le difficoltà del caso, era parte costitutiva della società ungherese, di cui ne viveva le trasformazioni. Anche per questa ragione, dinanzi all’inasprirsi sia delle condizioni in cui gli ebrei si trovavano nell’intero Continente europeo che della stessa legislazione antisemitica nazionale, la maggioranza di essi, nel Paese, non realizzò il rischio che stava montando all’orizzonte, perseverando semmai nella strada di una sempre più improbabile integrazione con il resto dei connazionali.
Essere ebrei, peraltro, non costituiva un atto politico. Non almeno per gli ebrei medesimi, poiché di diversa opinione erano invece gli antisemiti. L’articolazione organizzativa dell’ebraismo ungherese in prossimità della guerra contava tre gruppi di maggiore consistenza: l’Ufficio nazionale conservatore degli ebrei d’Ungheria (Magyarorszagi Izraelitak Orszagos Irodaja) che univa due terzi della popolazione; la comunità ortodossa, raccolta nell’Ufficio centrale della comunità ebraica ortodossa autonoma (Magyarorszagi Autonom Orthodox Izraelita Hittfelekezet Kozponti Irodaja), con circa un trenta per cento di aderenti e, infine, la parte residua (qualcosa come un 5 per cento di elementi), composta perlopiù da persone anziane, legate all’ebraismo dell’età imperiale e post-imperiale e senza un organismo di rappresentanza a sé. Significativo anche il fatto che, diversamente dalla Polonia e da altri paesi dell’Est, l’insediamento sionista raccogliesse poco seguito, trovando spesso l’ostilità del notabilato locale.
L’adozione e l’inasprimento della legislazione antisemitica, nell’estate del 1941, presentata come un’opzione “anti-assimilazionista” (gli ebrei sono estranei alla magiarità e, quindi, non debbono confondersi con essa), non decretò da subito il tracollo della comunità. L’espulsione dei «giudei alieni», tali in quanto privi dei diritti di nazionalità, a partire dai polacchi rifugiatisi entro i confini nazionali, costituiva invece per ciascuno di essi una condanna a morte, poiché cadevano pressoché immediatamente nelle mani dei tedeschi, venendo quindi assassinati. La Galizia orientale era il teatro di questi omicidi. Quando tuttavia alcuni tra di loro, scampati al massacro, poterono riferire alle autorità ungheresi quale fosse il trattamento riservato ai correligionari, l’allora ministro degli Interni interruppe il meccanismo delle espulsioni automatiche.
L’ingresso dell’Ungheria in guerra, il 27 giugno 1941, fece sì che per diversi ebrei ungheresi, già esclusi da molti aspetti della vita civile, si aprissero le porte del Servizio del lavoro oppure, in alternativa, con l’inizio del 1942, della leva paramilitare, sia pure svolta in condizioni coatte. Si trattava, nell’uno come nell’altro caso, di un vero e proprio circuito di lavori forzati, ai quali vennero assoggettati anche esponenti della vecchia opposizione politica, le comunità nomadi, gli appartenenti a minoranze ritenute pericolose. In altre parole, se gli ebrei erano esclusi formalmente dall’esercito erano tuttavia tenuti a diventare reclute dei battaglioni di lavoro. Delle diverse decine di migliaia che ne furono assoggettati, le stime ufficiali parlano di 23.308 caduti mentre quelle raccolte dagli studiosi arrivano alla cifra di 43mila elementi, oltre a un elevato numero di dispersi. Il destino della comunità ebraica nazionale era peraltro oggetto di un duplice conflitto: il primo di essi con la Germania, che reclamava un’uniformazione nel suo trattamento, in linea con il percorso di annientamento intrapreso dalle autorità tedesche nei territori occupati; il secondo, all’interno della stessa classe politica ungherese, dove alle posizioni maggiormente radicali – che aderivano con solerzia alle indicazioni tedesche – si contrapponevano quelle conservatrici, senz’altro ispirate ad un antisemitismo di regime ma non disposte a scivolare velocemente verso il crimine di massa. Il confronto, al pari di altri che si svolgevano nello stesso periodo in diverse parti d’Europa, non ruotava in quanto tale intorno al destino degli ebrei, bensì alle giurisdizioni da esercitare su di essi. Poiché chi aveva il potere di decidere della vita e della morte di individui oramai apolidi di fatto (quand’anche avessero mantenuto formalmente la nazionalità di origine) consegnava a sé una capacità decisionale che, in linea di principio, i nazisti avrebbero invece voluto sottrargli, per avocarsela. Decidere del destino dei “reietti” è, in prospettiva, uno strumento fondamentale per condizionare l’esistenza del resto della popolazione, orientando i rapporti di potere in un senso rispetto all’altro.
In un tale quadro, l’Ungheria era e rimaneva uno Stato indipendente, nell’esercizio delle sue funzioni sovrane, all’interno di una rete di alleanze che la vedevano impegnata nella lotta contro il «giudeo-bolscevismo». Per Berlino, tuttavia, la vittoria ad Est avrebbe dovuto non solo rafforzare sensibilmente la sua influenza diretta su tutto il Continente ma anche mettere in discussione le linee di successione al potere nei singoli paesi, laddove questi non fossero già stati occupati e smembrati dalle armate tedesche. Malgrado i sorrisi e le strette di mano di circostanza, per le classi dirigenti naziste la reggenza ultraventennale di Miklós Horthy rispondeva ad un fermo immagine che non necessariamente sarebbe risultato soddisfacente qualora il mutamento geopolitico disegnato dalla Germania si fosse definitivamente imposto. Anche per una tale ragione, la sostanziale tiepidezza con la quale Budapest aveva aderito agli accordi che l’avrebbero obbligata ad un ingresso in guerra (essendo debitrice delle potenze dell’Asse per più ragioni), si trasformava, allo sguardo tedesco, in diffidenza rispetto ad un’élite nazionale che era osservata con sospettoso distacco, in quanto espressione di un conservatorismo che avrebbe dovuto cedere il terreno al radicalismo di cui i fascismi erano piena e matura espressione. Peraltro, quest’ordine di considerazioni si imponeva tra i tedeschi nel momento stesso in cui misuravano nei fatti la scarsa attendibilità dell’Italia mussoliniana come partner di minoranza nella guerra mondiale in corso.
Il primo banco di prova per l’Ungheria, non a caso, fu la partecipazione all’invasione e all’occupazione della Iugoslavia. Mentre una parte della leadership magiara riteneva pericolosa quella che si presentava soprattutto come una costosa avventura militare al servizio di Berlino (e contro Londra, che non sarebbe rimasta con le mani in mano), Horthy si dispose diversamente, allettato dalla promessa di nuovi territori da annettere al Paese (e probabilmente condizionato dal timore che una Germania pigliatutto sarebbe risultata troppo forte rispetto agli equilibri dell’intera regione mitteleuropea). La dissoluzione dello Stato iugoslavo comportò quindi vantaggi per Budapest, con la nascita della «provincia meridionale» comprendente la Bačka, il triangolo tra Baranya, Prekmurje – in ungherese Muravidék – nonché le aree comprese tra i fiumi Danubio, Drava e Tibisco, e il Međimurje (Muraköz), territorio delimitato dai fiumi Drava, Mura e dal vecchio confine austriaco. A quel punto l’Ungheria era obbligata alleata del Terzo Reich, insieme all’Italia, alla Romania, alla Bulgaria, alla Finlandia, alla Slovacchia e al neonato Stato della Croazia.
Il secondo terreno di verifica fu, nell’aprile del 1942, l’arrivo della grande ondata di ebrei provenienti dalla Slovacchia, dove nel mentre erano state avviate le deportazioni in massa. Le organizzazioni ebraiche si adoperarono con sollecitudine nel sostegno ai fuggitivi, usando tuttavia quasi esclusivamente mezzi legali. Nacque un Comitato di aiuto e soccorso (con la presenza di personaggi che avrebbero svolto ruoli di rilievo, come Joel Brand, Rudolf Kasztner e Otto Komoly). Quando nell’autunno di quell’anno arrivarono sollecitazioni sempre più corpose da Berlino, ed in particolare dal ministero degli Esteri, affinché l’Ungheria si “allineasse” alle politiche antisemite praticate dalla Germania (esclusione definitiva dalla vita civile e sociale degli ebrei, adozione di un segno di distinzione obbligatorio da indossare in pubblico, segregazione abitativa in luoghi definiti, deportazione di tutti gli ebrei non ungheresi senza eccezione alcuna), Budapest rispose negativamente. Peraltro, nella stessa capitale europea, laddove transitavano profughi e fuggitivi che cercavano di raggiungere la Palestina britannica attraverso la rotta balcanica e turca, le voci su cosa fosse per davvero la «soluzione finale della questione ebraica» circolavano oramai diffusamente.
L’intera impalcatura del regime ungherese crollò quando, a fronte della crescente evidenza che l’Asse sarebbe risultato sconfitto dalla guerra che aveva esso stesso scatenato, Budapest intraprese contatti e tentativi di negoziazione con gli Alleati così come con i sovietici. Hitler, prima ancora che del destino dell’Ungheria, era preoccupato che la fuoriuscita del paese dal residuo sistema di alleanze germanocentriche, dopo il “tradimento” italiano, potesse fare crollare come un castello di carte quel poco che di esso restava. La qual cosa, va da sé, avrebbe accentuato il crescente accerchiamento dei tedeschi e accelerato l’avanzata dei suoi nemici da Est (e presto anche da Ovest). Una settimana dopo che il governo ungherese aveva palesato l’intenzione di cessare la sua partecipazione al conflitto, la Germania si adoperò quindi nell’«operazione Margarethe».
L’invasione dell’Ungheria, iniziata il 19 marzo 1944, non incontrò alcuna resistenza armata. L’esercito ungherese, che scontava i terribili rovesci che aveva subito in Unione Sovietica, non dovette neanche arrendersi. Mentre il primo ministro otteneva riparo dalla legazione diplomatica turca, l’ammiraglio Horthy, fuori sede su invito degli stessi tedeschi, non manifestò nessuna significativa contrarietà a quanto stava avvenendo, mantenendo la carica formale di reggente. Ipotizzò in un primo tempo di dimettersi ma, dinanzi alla prospettiva – pressoché certa – che l’Ungheria divenisse un protettorato in mano anche ai croati, ai rumeni e agli slovacchi, recedette velocemente dal tiepido intendimento. Il Paese, quindi, fu quasi da subito consegnato ad un governo collaborazionista, presieduto da Döme Sztójay, già ambasciatore a Berlino e convinto nazionalsocialista, affiancato da Edmund Veesenmayer, generale delle SS, tra gli artefici della Shoah in Croazia (e poi nella stessa Ungheria), quest’ultimo nella sua qualità di massimo plenipotenziario di Hitler e Himmler.
Nei fatti a decidere su tutto erano i tedeschi, anche se l’esercito ungherese non fu disarmato, posto che diverse sue unità stavano proseguendo nei sanguinosi combattimenti contro i sovietici insieme alle truppe dell’Asse. Il primo ministro Sztójay si dimostrò al riguardo un valido passacarte, disposto ad accettare qualsiasi richiesta avanzata da Hitler e dai suoi uomini. L’apparato amministrativo ungherese rimase, a sua volta, al proprio posto. Nell’estate del 1944, diverse divisioni ungheresi partecipavano ancora alla lotta contro l’avanzata russa.
Non appena l’operazione Margarethe fu dichiarata conclusa, con una brusca accelerazione che era già stata studiata da tempo a Berlino, si avviarono le grandi deportazioni degli ebrei ungheresi verso i campi di sterminio della Polonia occupata. Il grande regista era il tenente colonnello delle SS Adolf Eichmann, al quale fu demandato il compito organizzativo di dirigere l’insieme delle deportazioni, benché il suo superiore fosse lo stesso Veesenmayer. Eichmann sapeva di potere contare sulla disponibilità delle amministrazioni locali e sulla partecipazione della gendarmeria ungherese. Da subito impose alla comunità ebraica di Budapest, quella più numerosa, la costituzione di uno Judenrat, un consiglio ebraico che doveva eseguire tassativamente gli ordini dei tedeschi. Il modello, peraltro, era già stato abbondantemente sperimentato.
L’ebraismo ungherese, reduce dalle molte interdizioni che Horty e i suoi avevano imposto negli anni di guerra, si trovò pressoché paralizzato dinanzi alla subitaneità dell’azione nazista. Furono introdotte misure amministrative – gabellate per leggi – che decretavano la segregazione totale della società ebraica dal mondo circostante: quindi, obbligo di indossare una fascia gialla di riconoscimento, il blocco dei conti correnti bancari, l’estromissione dalle professioni, l’interdizione dall’uso di radio, telefoni, automobili, sequestri ed espropriazioni di beni, l’impossibilità di spostarsi fisicamente e così via. La gragnola di colpi, sferrati in rapidissima successione, che tra la fine di marzo e i primi di maggio del 1944 caddero sulla testa della popolazione ebraica, impedì qualsiasi reazione significativa. Con la nomina a segretari di Stato del ministero degli Interni di due acerrimi antisemiti, Laszló Baky e Laszló Endre, le procedure di concentramento nei ghetti, operate con il concorso del Sonderkommando di Eichmann, proseguirono speditamente. Se gli ebrei delle grandi città dovevano essere raccolti in quartieri separati, quelli presenti nelle campagne e nei centri urbani minori andavano raccolti in locali comunitari per poi essere trasferiti nei ghetti cittadini. Questi ultimi, peraltro, andavano intesi come misura rigorosamente temporanea, poiché le deportazioni dovevano essere accelerate il più possibile. Non c’era tempo né intenzione di seguire la segregazione stanziale che invece era stata adottata, quattro anni prima, in Polonia.
Il 16 aprile le operazioni di rastrellamento della popolazione ebraica ebbero inizio in Rutenia, per poi proseguire il 3 maggio con i 160mila ebrei della Transilvania settentrionale. Nell’uno e nell’altro caso ci si adoperò per concentrare in alcune località metropolitane l’intera popolazione. Già il 15 maggio ebbero poi inizio le deportazioni verso la Polonia dai ghetti della Transilvania settentrionale e della Rutenia carpatica. Da quel momento, quattro convogli merci, con almeno 3mila persone ciascuno, furono avviati quotidianamente verso la frontiera slovacca laddove, nel complesso marchingegno burocratico nazista, venivano presi definitivamente in carico dalle autorità tedesche. In altre parole, a compiere materialmente i rastrellamenti, le ghettizzazioni e poi i trasporti dovevano essere le amministrazioni ungheresi. Solo al passaggio in un altro Stato intervenivano formalmente gli uomini di Berlino, decadendo di fatto – secondo questa ferrea logica – la residua cittadinanza nazionale e, con essa, quel che restava dei residuali diritti di vittime ungheresi, a quel punto considerate apolidi.
A sovraintendere all’identificazione, alla separazione, alla segregazione degli ebrei ungheresi furono chiamate infatti le autorità locali, a partire dai sindaci, con il concorso della gendarmeria che ebbe una grande parte in questa mattanza collettiva, segnalandosi per la gratuita brutalità con la quale si metteva quotidianamente all’opera. I ghetti, effimere istituzioni di mero transito, a volte addirittura fabbricati adibiti a tale funzione temporanea, dovevano essere gestiti da occasionali consigli composti dai maggiorenti delle locali comunità. L’isolamento dal resto della popolazione era totale. La disorganizzazione completa, posto che gli episodi di resistenza – che avrebbero comunque richiesto una qualche preesistente capacità di auto-organizzarsi – praticamente si rivelarono nulli. Solo nei mesi successivi qualcuno avrebbe pensato ad organizzare qualche via di fuga.
Il collaborazionista Sztójay, come già si è detto, fu attivo compartecipe di questa tragedia. Il governo e le amministrazioni ungheresi, infatti, poterono godere di un elevato grado di autonomia nella sua attuazione. Non delusero i tedeschi. Per parte ebraica, lo spiazzamento subito con l’occupazione del territorio nazionale iniziata il 19 marzo, trovò le comunità incapaci di reagire. Una tale impotenza derivava da più elementi: la sostanziale spoliticizzazione di una parte della popolazione, di contro – invece – all’ebraismo polacco, a quello bielorusso e ucraino, nei quali la presenza di partiti e movimenti organizzati era un fattore diffuso; il convincimento, nutrito anche oltre il riscontro sopravveniente dall’evidenza dei fatti, che la violenza non si sarebbe comunque tradotta in atrocità deliberata; il disorientamento tra le stesse élite ebraiche, che non raccolsero i segnali di allarme quando questi arrivavano, come invece – ad esempio – nel caso dei movimenti giovanili che furono tra i pochi che cercarono di fare circolare il più possibile le notizie; la determinazione e il coordinamento manifestati dai tedeschi, soprattutto dinanzi alla speranza, nutrita da molti ebrei ungheresi, che la loro nazionalità potesse preservarli dalle sorti peggiori.
Non oltre il 7 giugno 1944 (il giorno successivo allo sbarco anglo-americano in Normandia) risultavano deportati già 289mila ebrei (secondo altre fonti il numero, nello stesso arco di tempo, ammontava a 437.402 persone ma si tratta di una sovrastima, che inserisce anche coloro che vennero trasportati nei campi della morte fino al 9 luglio). Seguendo una logica di rastrellamento sistematico del territorio, il 5 giugno fu poi la volta del nord dell’Ungheria, dove 65mila ebrei furono imprigionati in una decina di centri per poi, pochi giorni dopo, essere a loro volta deportati. Nel sud le ghettizzazioni furono avviate il 16 giugno e le deportazioni il 25 dello stesso mese: con quattordici convogli ferroviari 40mila persone vennero inghiottite nei campi di sterminio. Stessa sorte, nel medesimo arco di tempo, toccò ai 50mila ebrei della Transdanubia. Alla fine di giugno l’opera di sradicamento e distruzione dell’ebraismo ungherese poteva ritenersi a buon punto. Rimaneva la grande comunità di Budapest e quelle dei centri urbani limitrofi. In tre giorni, dal 6 all’8 luglio 1944, otto treni portarono 25mila vittime ai luoghi di uccisione. Secondo la macabra contabilità della gendarmeria ungherese, in meno di due mesi, ossia tra il 15 maggio e l’8 luglio, con 147 convogli ferroviari erano stati inviati oltre frontiera 434.351 individui, di ogni età e sesso (per arrivare a destinazione nei campi della morte si calcolavano quattro giorni di trasporto dei deportati e quattro giorni per il ritorno dei vagoni). Va considerato che delle vittime di Auschwitz-Birkenau, complessivamente un milione e centomila, almeno un terzo era ungherese.
A Budapest gli ebrei erano stati stipati in edifici separati, dove spiccavano segni di riconoscimento (e segregazione) come le stelle gialle. Il marchio doveva servire soprattutto a tenere lontano il resto della popolazione. Quando nei primi giorni di luglio i reparti dei volenterosi carnefici della gendarmeria furono trasferiti in città, l’improvviso intervento dell’ammiraglio Horty, in ciò sollecitato anche dalla Santa Sede, decretò l’interruzione della catena delle deportazioni. Non a caso, da Berlino, ossia dallo stesso Himmler, il 26 luglio arrivò l’ordine di fermare i convogli, considerato il fatto che il trasporto in massa di tutta la popolazione ebraica della capitale avrebbe creato un clamore che, invece, non si era registrato per le regioni periferiche. I veti del reggente proseguirono, esprimendosi anche alla fine di agosto, nel mentre il fronte orientale andava registrando cedimenti sempre più marcati, a fronte della pressione sovietica e della crisi politico-istituzionale (e militare) in Romania. Eichmann lasciò il paese il 25 agosto mentre Il Sonderkommando alle sue dipendenze fu sciolto un mese dopo. Il 30 agosto le deportazioni avevano quindi formalmente termine.
Non i massacri, tuttavia. Quando il 15 ottobre 1944 Horty, con l’acqua alla gola, dichiarò la cessazione delle ostilità contro i sovietici, al pari di quanto era avvenuto l’8 settembre dell’anno precedente in Italia, tutto precipitò. Le Croci frecciate, su spinta e sostegno dei nazisti, attuarono un vero e proprio colpo di stato. Capo del governo divenne Ferenc Szálasi, fervente nazionalsocialista e furioso antisemita. In tale modo i tedeschi si garantivano la prosecuzione dell’impegno bellico ungherese, sia pure in una posizione definitivamente subalterna, nel mentre le truppe sovietiche premevano ai confini. Le Croci frecciate assunsero su di sé la continuità dell’amministrazione nazionale, che aveva già brevettato e implementato il sistema delle deportazioni. Unità armate paramilitari occuparono di fatto la capitale, dove ancora si trovava una nutrita comunità ebraica. Alla quale fu impedito di uscire dai luoghi di residenza e concentramento. Poi iniziò la marcia forzata degli uomini e delle donne in età da lavoro, che dovevano essere trasferiti al confine tra Ungheria e Germania per adoperarsi nella costruzione di un sistema di fortificazioni. Con il mese di novembre nessun convoglio poteva più partire verso i luoghi della morte. Il rombo dei cannoni sovietici era già udibile dalla capitale nel mentre le Croci frecciate si adoperavano per assassinare il maggiore numero possibile di ebrei, a volte anche per strada e sulle sponde urbane del Danubio.
Un ultimo circuito convulso di brutalità e massacri a quel punto ebbe corso, in una sorta di sabba collettivo dove qualsiasi freno inibitorio, nel mentre, era venuto a mancare. Gli ebrei non immediatamente uccisi, 70mila dei quali raccolti nel “piccolo ghetto” di Budapest, vennero in parte consegnati ai tedeschi e in parte a loro volta obbligati a marciare per circa duecento chilometri ed oltre, verso la cittadina di frontiera di Heyeshalom. Molti tra essi, privi di qualsiasi sostentamento in una marcia che doveva completarsi in pochi giorni, morirono di stenti o assassinati in mezzo alla strada. Allo stesso tempo, il governo collaborazionista abbandonava la capitale, lasciata pressoché allo sbando e quindi in mano alla peggiore feccia, raccoltasi con le residue Croci frecciate. Alla vigilia di Natale del 1944 l’esercito sovietico aveva raggiunto e circondato Budapest, con il concorso di reparti rumeni. L’assedio, in un clima delirante dentro l’area urbana, vide ultimarsi lo sterminio dell’ebraismo ungherese. Pest fu presa solo il 18 gennaio 1945, mentre Buda il 12 febbraio. A quel punto, 564mila ebrei ungheresi erano già periti. Di essi, 64mila erano stati assassinati antecedentemente all’occupazione tedesca del marzo 1944.
La specificità della Shoah in Ungheria trova in alcuni passaggi cardine i suoi elementi di maggiore rilievo: fino all’arrivo dei nazisti la comunità ebraica era rimasta al riparo dalle pratiche di sterminio; benché le amministrazioni nazionali si fossero poste al servizio dell’occupante, la concorrenza che si verificò tra di esse e le ripetute crisi di legittimità permisero, in alcuni casi, di salvare la vita a vittime potenziali; l’azione del Comitato di aiuto e soccorso di Budapest, finché fu praticabile, venne promossa in tutti i modi per cercare di sottrarre all’uccisione il maggiore numero possibile di persone, anche cercando di contrattare con gli stessi tedeschi; il destino degli ebrei residenti nei centri minori fu da subito più precario di quello che venne poi vissuto dalla grande comunità della capitale; un certo numero di stranieri, presenti perlopiù nelle legazioni diplomatiche, si attivò per salvare le vite dei perseguitati (tra tutti, i casi ben conosciuti dello svedese Raoul Gustav Wallenberg e dell’italiano Giorgio Perlasca); la Croce rossa intervenne per preservare l’esistenza ad alcuni bambini. Nel complesso, si possono distinguere quattro periodi storici nella Shoah ungherese: l’arco di tempo che va dall’ingresso in guerra dell’Ungheria (27 giugno 1941) e l’invasione tedesca (19 marzo 1944), quando al regime di privazione dei diritti si accompagnò un’esacerbazione dell’antisemitismo di Stato; i mesi più cruenti dell’occupazione germanica (dalla seconda metà di marzo del 1944 all’estate dello stesso anno), con la deportazione sistematica del maggiore numero di vittime possibili; il periodo di transizione (tra luglio e ottobre 1944), con la sospensione dei convogli verso i luoghi di sterminio; l’effimero ma feroce governo delle Croci frecciate (15 ottobre 1944 – primi giorni del 1945), quando i massacri, compiuti perlopiù nella capitale, si svolsero pressoché sotto gli occhi di tutti. Gli occhi, ovviamente, di quanti volevano vedere, non di coloro che anche in quelle circostanze finsero di non accorgersi di nulla.
Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.