Indagine filosofica nel territorio della definizione, lungo il pensiero di Levinas
Esiste una differenza tra l’uso del linguaggio che spinge verso l’assimilazione (a un concetto, a un nome, a un’identità) e quello che, a partire dall’incontro con una figura di alterità, diviene luogo della mediazione tra soggetti distinti, dove in luogo dei gesti, speculari, dell’inclusione e dell’esclusione, si lasci spazio alla relazione.
La differenza fra i due usi si staglia a partire da un aspetto comune. In ambo i casi, in effetti, il linguaggio delimita, definisce. Dove, con l’ebraico, definizione, agdarà, rimanda a recinto, gader. Nel primo caso di tale definizione emerge l’aspetto, metaforicamente, violento. Una persona, evento o cosa è nominata, ‘incasellata’, come si suole dire. Il linguaggio incide sulle pratiche, sino a influire sulla nostra percezione: non a caso i gender studies hanno posto in questione il cosiddetto “linguaggio sessuato” (l’uso del maschile o del femminile). Nel secondo caso quel “recinto” di parole che definisce cose e persone, permettendoci di pensarci come “io” (singolo) e “noi” (collettivo), si palesa quale esperienza che inaugura la relazione mediata, finanche responsabile, con chi e con cosa a quel “recinto” è esterno: l’altra persona, l’altro gruppo e così via. L’atto del parlare, interloquendo con qualcuno, così come dello scrivere, occupandosi di qualcosa, avviene senza consumare – metaforicamente o meno – chi e cosa si ha di fronte, che rimane a noi distinto. È (anche) in questa separazione, dove il linguaggio si presenta quale soglia tra due soggetti, che l’altro si manifesta, per riprendere il lessico di Levinas, nella sua condizione di “esteriorità”. Figure di alterità che si impongono, senza chiedere il permesso, ad un tempo ostacolo nel nostro incedere e opportunità per costruire il sé.
In una delle lezioni dedicate a Levinas, Hanoch Ben Pazi, docente a Bar Ilan, metteva in luce come nell’esperienza quotidiana si ponga tanto la possibilità di una parola destinata a mettere in atto forme, seppur apparentemente marginali, di “totalità”, di riduzione all’identico, quanto di un linguaggio dove l’alterità possa emergere. È, quest’ultimo, un linguaggio in cui – con una formulazione che potrà suonare un poco paradossale – non si dà comprensione e inclusione, nel senso della presa, del possesso e dell’assimilazione. Non in nome del malinteso e dell’esclusione discriminante. Bensì, affinché il limite della definizione sia posto, onde scorgere ciò che, rispetto a quel limite, si trova oltre.
Aspetti analoghi sono stati messi in luce, in riflessioni al crocevia tra filosofia e pensiero ebraico, da David Banon e Marc-Alain Ouaknin. Il primo, distinguendo tra “concetto” e “commento”, indica come il linguaggio votato alla comprensione (nel senso indicato) tenda a elidere l’esteriorità, a ridurre a uno, all’identico; viceversa, il linguaggio articolato nel rimando ermeneutico, lascerà integra l’alterità – a partire da quella del testo commentato. In una direzione analoga Ouaknin riprende la celebre immagine di Levinas della carezza, così restituendo l’atto della lettura quale gesto di non-possesso, dove il contatto è inaugurato e, tuttavia, subito trattenuto, affinché non divenga con-fusione di senso. Presupposto di queste analisi – che questi stessi autori denominano di tipo “esistenzialista” – è costituito proprio da alcuni dei passaggi sopra evocati con Levinas, a partire dal concetto di “esteriorità”: dalla persona al testo, e viceversa.
Nella consapevolezza di essere, ogni giorno, tesi tra la necessità di affermare e affermarci, da una parte, e quella di rispondere a una richiesta esterna, inaspettata, dall’altra. Tra intendere la nostra definizione, il recinto, come sufficiente o, viceversa, esperirlo quale punto di avvio di una mediazione che, senza quel recinto, non potrebbe darsi. Una tensione che si esprime, anche, in un campo specifico del linguaggio, come quello proprio al diritto, su cui dedicheremo un prossimo contributo. Tornando all’esperienza quotidiana, un aspetto s’impone così all’attenzione: la totalità, riduzione all’identico, non pare presentarsi solo quando il linguaggio diviene incapace di lasciare spazio all’alterità. Nell’apertura priva di distinzioni, in quell’identificazione totale con ciò che è fuori da sé (ex-stasis) si pone – ad un tempo – lo svuotamento di sé in ciò che è esterno (la persona o la natura rese idolo) e la negazione di ciò che è esterno nel suo stesso carattere di alterità. Dunque, proprio la definizione, recinto di parole, si presenterebbe come primo argine a un rapporto idolatrico – ossia di con-fusione – con gli altri uomini ed enti.
Cosimo Nicolini Coen ha studiato alla Statale di Milano, dove si è laureato in Ermeneutica filosofica e Filosofia del diritto, e all’Università Jean Moulin III, a Lione; attualmente è dottorando a Bar Ilan. Ha pubblicato il libro Il segno è l’uomo per Durango Edizioni.