Se oggi Israele è anche conosciuta in tutto il mondo per i suoi gay pride e per essere la principale meta LGBT+ del Medio Oriente, bisogna ricordarsi che non sempre è stato così. Sara Ferrari racconta le tappe principali e i protagonisti di questa subcultura in Israele.
In principio non fu Dana International, la cantante transessuale che all’Eurovision Song Contest del 1998 regalò a Israele una vittoria di certo non inferiore al recentissimo successo di Netta Barzilai. E neppure Yossi e Jagger, i militari innamorati protagonisti dell’omonima pellicola di Eytan Fox, destinati a far tramontare forse in maniera definitiva il mito del sabra macho a tutti i costi. Né tantomeno gli outing illustri (l’ultimo, in ordine di tempo, dell’attrice Orna Banai), i gay pride più travolgenti di sempre o l’investitura di Tel Aviv come “rainbow city” del Mediterraneo e “migliore città LGBT del mondo”. Tutto ciò può essere piuttosto considerato il felice risultato del fervido lavoro sia delle associazioni omosessuali sia dei governi i quali, soprattutto negli ultimi due decenni, hanno promosso senza esitazione una piena eguaglianza sociale per tutti i cittadini d’Israele, indipendentemente dal loro orientamento sessuale.
“L’ebraico soffre di manie sessuali”, alludendo al fatto che l’attenzione al genere del pronome e del verbo, tipica di questa lingua, nasconda la volontà di classificare quanto per sua stessa natura vorrebbe sfuggire a ogni costrizione
Questo non significa, ovviamente, che per gli omosessuali israeliani la vita sia sempre tutta rose e fiori. Ne è una dimostrazione il barbaro attentato avvenuto il 1 agosto del 2009 contro il Bar Noʻar del centro LGBT di Tel Aviv, nel corso del quale due giovani rimasero uccisi e altri quindici furono feriti. Tuttavia, nonostante le difficoltà, spesso (ma non solo) originate dai contrasti con i religiosi più oltranzisti, è evidente che una parte considerevole della società israeliana ritiene la comunità gay un elemento importante del proprio tessuto collettivo. Non a caso, in seguito alla brutale aggressione che abbiamo ricordato, la sera dell’8 agosto 2009 in piazza Rabin, a Tel Aviv, ci fu un’imponente manifestazione pubblica di sostegno agli omosessuali cui parteciparono non soltanto artisti – gay e non – ma anche e soprattutto famiglie, persone comuni sinceramente sconvolte per l’accaduto. Trovarono dunque un senso profondo e un pieno radicamento nella realtà le parole pronunciate in quell’occasione dal presidente Peres, il quale disse che chiunque aveva puntato l’arma contro le vittime della sparatoria, di fatto l’aveva rivolta “contro tutti voi, contro tutti noi, contro di me, contro di te”.
Un lungo cammino
Il cammino che ha portato a questa situazione è stato però lungo e, talvolta, non semplice, per lo più lastricato da figure straordinarie della cultura le quali apportarono cambiamenti di significato radicale. In principio fu, ad esempio, la poetessa Yona Wallach, autentica “leggenda culturale” d’Israele, la quale attraversò come un tizzone infuocato gli anni ’60 e ’70 per spegnersi prematuramente nel 1985. Yona Wallach però non è una rappresentante “tradizionale” della comunità gay. Nulla sarebbe probabilmente meno indicato per definire questo personaggio. Piuttosto, attraverso una trasformazione estrema del linguaggio poetico, la Wallach volle abbattere le barriere psichiche, cognitive e linguistiche che le convenzioni sociali da sempre hanno imposto all’individuo in ogni ambito, non da ultimo in quello sessuale. Basti pensare alla lingua stessa, che usiamo quotidianamente per lo più in maniera automatica e casuale. “L’ebraico” ammonisce, infatti, Yona Wallach “soffre di manie sessuali”, alludendo al fatto che l’attenzione al genere del pronome e del verbo, tipica di questa lingua, nasconda la volontà di classificare quanto per sua stessa natura vorrebbe sfuggire a ogni costrizione: il fuoco vitale delle nostre pulsioni. Perciò Yona Wallach, tanto nella vita privata quanto in poesia, decise di assumere alternativamente una voce maschile o femminile a seconda delle circostanze, sfruttando la possibilità garantita dal suo stesso nome, il quale può essere accolto in entrambi i generi. Per la prima volta in una società tendenzialmente moralista come quella israeliana dell’epoca, la Wallach aprì quindi la strada a una sessualità totale, aperta e poliedrica, non senza suscitare scandalo.
Benché intimamente diverso da chi l’aveva preceduto, Hezy Leskly trasse da Yona Wallach una forte ispirazione. Nato da genitori di origine ceca sopravvissuti alla Shoah, Leskly fin dalla più tenera età sognò di diventare un ballerino. La storia racconta però che sovente la danza non è considerata un’occupazione adatta a un giovane maschio, sia in Israele sia altrove. Leskly completò pertanto la propria formazione solo una volta abbandonata la casa paterna per trasferirsi nella vivace e libertaria Amsterdam, dove non solo studiò danza e coreografia ma poté vivere liberamente la propria omosessualità, cosa che non sempre fece una volta rientrato in Israele. Anche nel caso di Leskly va rilevato che non stiamo parlando di un intellettuale impegnato, di un attivista per i diritti degli omosessuali, sebbene egli sia una figura chiave della cultura queer d’Israele. Leskly, infatti, non scrive tanto dell’omosessualità, quanto piuttosto dall’interno di essa, nel tentativo di creare una lingua poetica contro dominante, presentandosi come un fastidioso disturbatore, uno sgradevole topo pronto a rosicchiare le fondamenta della casa-lingua e della casa-poesia.
[…] Questa volta non consentirò a un essere umano di partorirmi.
Io partorirò me stesso.
L’acqua fetida e le sue fetide trasparenze allora parleranno
un ebraico nuovo.
Ossesso, sedizioso, grondante sudore,
perforerò i sogni dell’esteta.
(Da “Lezione di ebraico”)
Sotto numerosi aspetti, Hezy Leskly rappresentò il primo esempio in Israele di una cultura gay transnazionale, in grado di varcare gli angusti confini del territorio israeliano per aprirsi alle grandi esperienze dell’oltre Mediterraneo. Ciò si realizzò sia nella sua esistenza sia, purtroppo, nella sua morte. L’epidemia di AIDS che mieté numerose vittime nel mondo della cultura e dello spettacolo internazionale uccise, infatti, anche Hezy Leskly, così come aveva annientato un anno prima un giovane e geniale cineasta amico d’infanzia del poeta, Amos Guttman. Le vicende e le opere di Leskly e Guttman sono molto simili, figlie del medesimo tempo. Entrambe ci narrano di un’omosessualità vissuta ancora a caro prezzo, nonché velata dall’ombra oscura della promiscuità e di quel morbo misterioso che a molti parve una “piaga”, un castigo divino. Ciò nonostante, la grazia che traspare dalle opere di questi due artisti appare tutt’oggi qualcosa di unico, la testimonianza di una gioventù preziosa svanita anzitempo.
Gli anni ’90: visibilizzazione e normalizzazione
Gli anni ’90 e ’2000 rappresentarono un autentico momento di riscossa per la comunità omosessuale, la quale riuscì a emergere dalle tenebre per collocarsi al centro della scena, almeno in ambito culturale. Gli esiti del fenomeno sono visibili praticamente in ogni settore artistico, benché siano particolarmente evidenti nel cinema e nella televisione. I principali artefici di questa trasformazione sono stati Eytan Fox e Gal Uhovsky, una coppia ormai rodata sia nel lavoro sia nel privato.
Sin dai loro esordi, infatti, i due hanno dato al tema dell’omosessualità un risalto mai concesso in precedenza, dall’acclamata sitcom Florentin (una sorta di Friends all’israeliana) fino al già citato Yossi & Jagger (2002), al notevole Camminando sull’acqua (2004), per arrivare ai più recenti La bolla (2006) e alla serie Di buona famiglia (2014). Il segreto di Fox e Uhovsky è probabilmente la capacità di saper analizzare i grandi temi della società israeliana (l’esercito, l’elaborazione del trauma della Shoah, il conflitto israelo-palestinese, la lacerazione della famiglia) attraverso il punto di vista eccezionale dell’omosessualità.
Per quanto il loro lavoro domini la scena, Fox e Uhovsky non sono di certo gli unici a operare in questa direzione. La famosa serie televisiva dedicata ai giovani religiosi, Srugim (tre stagioni, 2008-2012) mostra uno dei suoi personaggi alle prese con un dibattito interiore lacerante di fronte alla propria omosessualità, tema affrontato anche dal film Einayim Pkuhot (2009), il quale ha ottenuto un buon successo anche al di fuori d’Israele. Un’immagine più gioiosa e ridanciana è, invece, offerta dalla serie Ima ve’Abbaz (2012), dove i sex-symbol Yehuda Levi e Yiftah Klein interpretano una coppia gay alle prese con le gioie (e i dolori) di una paternità condivisa. Infine, mentre in Italia pochi mesi fa ancora infuriavano le polemiche sull’opportunità di ammettere una coppia gay al popolare show Ballando con le stelle, nell’edizione israeliana gli indugi erano già stati rotti nel 2010, quando la presentatrice sportiva Gili Shem Tov e la compagna Dorit Milman hanno danzato in prima serata, di fronte al grande pubblico.
Insomma, esistono tutte le premesse affinché il celebre verso lanciato al principio degli anni ’90 dalla cantante omosessuale Corinne Allal – “siamo una specie rara, dei volatili bizzarri” – divenga ben presto il ricordo di tempi remoti e superati.
Sara Ferrari insegna Lingua e Cultura Ebraica presso l’Università degli Studi di Milano ed ebraico biblico presso il Centro Culturale Protestante della stessa città. Si occupa di letteratura ebraica moderna e contemporanea, principalmente di poesia, con alcune incursioni in ambito cinematografico. Tra le sue pubblicazioni: Forte come la morte è l’amore. Tremila anni di poesia d’amore ebraica (Salomone Belforte Editore, 2007); La notte tace. La Shoah nella poesia ebraica (Salomone Belforte Editore, 2010), Poeti e poesie della Bibbia (Claudiana editrice, 2018). Ha tradotto e curato le edizioni italiane di Yehuda Amichai, Nel giardino pubblico (A Oriente!, 2008) e Uri Orlev, Poesie scritte a tredici anni a Bergen-Belsen (Editrice La Giuntina, 2013).