Un delicato intreccio di vita e di morte
Il più grande oggetto di rimozione della nostra vita è certamente la morte. Nostra e altrui, e la seconda perché ci ricorda la prima. Della morte siamo incapaci di parlare, le parole ghiacciano in gola e quando escono sono quasi sempre frasi fatte: “Sono sempre i migliori ad andarsene”, “adesso non soffrirà più”, “so che sarete all’altezza di questa prova”. Frasi di circostanza che dicono qualcosa soltanto sulla rimozione della morte, vero tabù del nostro tempo. Eppure, paradossalmente, in ebraico il cimitero è chiamato bet hachayim, “casa della vita” o “casa dei viventi”, dove chayim, “vita”, è in forma plurale. Chayim non ha singolare nella lingua ebraica, forse a significare che la vita come evento isolato è un’astrazione e che invece esiste solo intrecciata a molte altre vite come un filo in un magnifico arazzo. La vita come arte della tessitura dunque, la stessa arte di cui Platone fa un’immagine della politica, che a propria volta è per definizione l’arte dello stare insieme.
La rabbina francese Delphine Horvilleur con il suo nuovo libro Piccolo trattato di consolazione. Vivere con i nostri morti, appena pubblicato in Italia da Einaudi dopo aver avuto grande successo oltralpe, prova a tirare alcuni fili di questo arazzo, a svolgere alcune vite. Tira i fili con delicatezza per fare risaltare l’unicità di ciascuno e poi torna a tesserli insieme agli altri. In questo modo Horvilleur, personaggio pubblico noto in Francia (e ai lettori di Joimag anche per la sua presenza su FaceBook) per il suo impegno civile, ebraico e i numerosi libri, intreccia storie di persone famose e di sconosciuti, di famigliari, amici e estranei incontrati per caso. La rabbina parte dalla propria esperienza – la propria storia che fa da cornice alle altre – che è quella di chi accompagna al cimitero i famigliari delle persone appena decedute e cerca di aiutare nel lutto con quello che è forse l’unico strumento disponibile in questi casi, la parola.
Perché accompagnare le persone che hanno perso un genitore, un figlio, un amico significa raccontare. Non raccontare la propria storia o la propria verità, sempre che ci sia, ma quella della persona in lutto: una storia e una verità conosciute bene, ma che nessun altro in quel momento è in grado di riferire. Non insegnare cose nuove o, peggio, una dottrina, ma restituire quello che le persone in lutto ci hanno detto, in modo che possano ascoltarlo a loro volta. Porgere loro racconti in grado di gettare ponti tra le persone e le generazioni, di aprire un passaggio tra vivi e morti. Chi racconta, dice Horvilleur, è come colui che sta alla porta, facendo attenzione a lasciare aperto il passaggio. Nient’altro.
Ogni capitolo del libro racconta una di queste storie. C’è quella di Elsa Cayat, unica donna assassinata nella strage di Charlie Hebdo il 7 gennaio 2015. Elsa era lontanissima dall’osservanza delle regole della tradizione ebraica e anzi fieramente atea. Il suo funerale è così occasione di confronto tra due ebree, l’atea e la rabbina, che rappresentano due modi diversi ma altrettanto legittimi di vivere l’ebraismo. Aperta parentesi. In una occasione Delphine Horvilleur viene presentata come “rabbina laica”, un ossimoro perfettamente comprensibile se si intende una rabbina che non ha alcuna intenzione di imporre la propria visione. Se ateismo, come quello di cui Elsa va fiera, significa cercare di cavarsela senza ricorrere a un dio, atei sono gli stessi rabbini del Talmud, almeno quelli impegnati nella disputa sul forno di Aknai in cui Dio non è messo in discussione, di lui in realtà neanche si parla e men che meno si discute se esista o no. Il punto è un altro: Dio non deve impicciarsi di questioni che non lo riguardano, per esempio una discussione tra rabbini a proposito delle caratteristiche di un forno. Chiusa parentesi.
C’è la storia di Sarah e di suo figlio, che chiede un funerale tradizionale “anche se noi non siamo veramente ‘buoni ebrei’” – queste le sue parole, come se gli ebrei si dividessero in buoni e cattivi. In questo racconto troviamo tutti i racconti delle famiglie dei sopravvissuti alla Shoah, in cui tanto spesso prevale la durezza e la difficoltà a comunicare con le generazioni successive. Dor, “generazione”, nella liturgia ebraica ricorre nell’espressione midor ledor, “di generazione in generazione”. Eppure dor, alla lettera, prima di assumere il significato di “generazione” indica l’azione dell’intreccio dei cesti, in cui ogni elemento va ancorato al precedente e deve permettere l’attacco del successivo. La Shoah provoca in molte famiglie, come quella di Sarah, spaccature tra i diversi elementi del cesto, midor ledor. Per questo forse è così difficile essere figli di sopravvissuti. Perché è difficile essere sopravvissuti. E i sopravvissuti a volte scompaiono senza aver raccontato nulla della propria storia, del proprio mondo scomparso, talvolta senza aver rivelato neanche il proprio vero nome. Il figlio di Sarah è solo al funerale della madre, solo con la rabbina e con le sue parole che cercano, per quanto possibile, di ricomporre le fratture, restaurare il cesto. Lui non lo sa, ma anche lei aveva una nonna di nome Sarah sopravvissuta a Auschwitz.
C’è la storia del fratello di Isaac, che pone la terribile domanda su che cosa dire quando muore un bambino. In ebraico esiste una parola per descrivere il genitore che ha perso un figlio, shakul, un termine preso a prestito dal mondo vegetale che indica il ramo spoglio della vite dopo la vendemmia. Un genitore che ha perso il figlio è come un ramo privato dei frutti. La nostra incapacità di parlare della morte tocca l’apice quando si tratta di dire a un bambino che non ha più il fratello. A volte si usano perifrasi insensate come “ci ha lasciati” o “è in cielo”, pie menzogne per nascondere il fatto che le parole, in queste circostanze, soffocano in gola. La lingua è impotente. La tradizione ebraica non offre risposte certe sulla morte (noi ne abbiamo parlato in due puntate) e lo stesso nome che la Torà usa per indicare l’oltretomba, Sheol, condivide la radice della parola sheela, “domanda”. Come a dire che quello che succede dopo la morte è un punto interrogativo, ma anche che è compito di chi rimane tenere aperta la domanda posta dalla morte. Noi non sappiamo quello che ci aspetta dopo la morte. Forse però possiamo girare la frase, suggerisce Horvilleur: dopo la nostra morte c’è quello che non sappiamo. Ma altri, anche grazie a noi che ora siamo qui, lo sapranno.
C’è la storia dell’amica Ariane, che racconta che tutti sappiamo di morire, non sappiamo però quando e come. E questo fa tutta la differenza del mondo che la diagnosi di un tumore incurabile sconvolge completamente. C’è la storia dell’anziana Myriam, che pianifica il proprio funerale nei minimi dettagli: lista degli invitati, modello di cassa, tipo di musica. Organizzare la morte nasconde forse una forma del rifiuto di accettarla. Ma la famiglia di Myriam le organizza a sorpresa il suo funerale secondo le precise indicazioni di lei, con la sola significativa assenza del cadavere e del lutto. “Visto che per te è così importante, abbiamo deciso di fartelo vivere”. C’è la storia di Simone, che è Simone Veil, prima presidente del Parlamento europeo e tra le madri dell’Europa. La sua morte, il 30 giugno 2017, è occasione per una riflessione sul Kaddish, la preghiera aramaica associata al ricordo dei defunti che contiene in realtà una lode alla grandezza di Dio e non fa alcun riferimento al dolore o alla morte. Alcuni, nelle comunità ebraiche ortodosse, ritengono che sia prerogativa dei soli uomini e non anche delle donne recitarla. La storia di Simone, protagonista di decenni di lotte per i diritti delle donne, contesta questo assunto.
E poi c’è la storia di Mosè che non vuole morire e quella di Isacco che vede la morte nell’episodio della legatura sul monte Morià e viene cambiato per sempre. Quella di Rabin e del sogno di una pace concreta e della morte di entrambi la sera del 4 novembre 1995 a Tel Aviv. La storia di Abele ucciso dal fratello Caino, ucciso insieme a tutte le generazioni che da lui non potranno discendere. E ci sono tracce, quelle di riti e tradizioni antiche che continuano a vivere midor ledor, di generazione in generazione. Le pietre poste sulle tombe in origine per avvisare i sacerdoti della presenza di un sepolcro, fonte di contaminazione. Senza dimenticare che even, “pietra” in ebraico, unisce un po’ magicamente av e ben, padre e figlio. Lavare le mani dopo un funerale, azione simbolica che segna una distinzione tra lo spazio della morte e quello della vita. L’inumazione del corpo come unica possibilità prevista dalla tradizione, perché il corpo deve tornare alla terra da cui proviene. E un pugno di domande. Quali tracce hanno lasciato in noi coloro che non ci sono più? Che cosa portiamo con noi di loro e che cosa di ciò che non sono riusciti a realizzare? E noi, che cosa lasceremo a chi verrà dopo?
Il 3 dicembre 2019 a Westhoffen in Alsazia veniva devastato un antico cimitero ebraico. Non era il primo e neanche l’ultimo di una lunga serie, a dimostrazione che l’odio antisemita colpisce gli ebrei da vivi e anche da morti, infierendo sulle tombe. Un odio che ricorda quello di Caino, l’agricoltore sedentario che aspira al possesso e alla certezza, nei confronti del fratello Abele, il pastore nomade che fin dal nome, Havel in ebraico, rappresenta ciò che è fragile, effimero e transeunte. Havel è un soffio, lo stesso evocato da Qohelet nel suo versetto più celebre, havel havalim hakol havel, “soffio dei soffi tutto è soffio”. Non è il macigno che copre una tomba, non è neanche un monumento, splendido ma altrettanto immobile. È la vita che si trasforma in movimento incessante.