La sempre maggiore sfiducia nei confronti di governi e Istituzioni – in Europa e non solo – ci pone davanti a una domanda cruciale: è la democrazia la miglior forma di governo possibile?
Tra un anno – dal 23 al 26 maggio 2019 – tornerà a ripetersi uno dei più colossali esercizi democratici del globo: le elezioni per il rinnovo del Parlamento Europeo, una chiamata alle urne collettiva per poco meno di 500 milioni di persone. A dodici mesi di distanza, gli opinionisti hanno già marchiato l’appuntamento come la disfida finale tra due visioni radicalmente contrapposte, quella europeista/globalista e quella euroscettica/populista, con tutte le approssimazioni e semplificazioni del caso. La realtà, però, è che prima ancora degli esiti di tale scontro, quelle elezioni dovranno dare risposta a una storica, inquietante domanda: gli europei credono ancora nella democrazia?
Democrazie stanche
I segnali, un po’ dappertutto, sono tutt’altro che incoraggianti. Dalle nostre parti, naturalmente, ne sappiamo qualcosa. L’infinito stallo post-elettorale italiano ha portato non solo il Paese di nuovo sull’orlo del baratro finanziario, ma anche la stragrande maggioranza dei cittadini a unirsi, per lo meno, su una cosa: il sentimento di estenuazione per il protrarsi della crisi, parente stretta di una ben più pericolosa nausea per le procedure democratiche stesse. Ma i segni di affaticamento sono ben visibili anche altrove.
La Francia che appena un anno fa ha eletto Emmanuel Macron, il capo di Stato oggi più osannato nel deserto di leadership europeo, lo ha fatto non solo al termine di una campagna elettorale vissuta col terrore dell’arrivo al potere di un partito a suo modo neofascista, ma anche con molto meno trasporto ed entusiasmo di quanto già oggi ricordiamo: alle presidenziali l’affluenza fu di 6 punti inferiore a quella di cinque anni prima; alle parlamentari del mese successivo crollò addirittura al 42,6%. Della lunga ed altrettanto estenuante trattativa di cui hanno avuto bisogno i partiti tedeschi per dare un nuovo governo alla Germania dopo l’ultima tornata elettorale si è scritto per mesi. Quanto alla gloriosa democrazia inglese, a due anni dalla “botta” auto-inflitta della Brexit con lo strumento più partecipativo di tutti, il referendum, il sistema istituzionale sembra non aver tuttora trovato modo di riprendersi dallo shock. E a livello Ue, per tutti gli sforzi di informazione e inclusione profusi dalle istituzioni, il livello di partecipazione democratica appare sempre più deprimente, come mostra crudamente il trend di affluenza alle europee degli ultimi decenni.
Perfino lontano dal Vecchio Continente, là dove si potrebbe supporre ci sia sete più fresca di democrazia, le notizie dell’ultimo mese sono tutt’altro che incoraggianti. Due Paesi del Medio Oriente ricchi di storia ma di recente funestati da gravi crisi interne, per restare alla stretta attualità, sono tornati nel giro di poche settimane alle urne: l’Iraq, per la prima volta dopo la sconfitta definitiva di Daesh; il Libano, per la prima volta addirittura dopo nove anni. Risultato? Quasi identico, in termini di partecipazione: 44% nel primo caso; 47% nel secondo. Che succede, dunque, alla più grande promessa di liberazione politica maturata nel XX secolo? Dove sono finiti i sostenitori entusiasti del modello democratico?
Il problema è annoso, soprattutto perché non riguarda soltanto i numeri, ma anche la qualità dei risultati che la democrazia sa produrre: la qualità della governance, per dirla in gergo accademico. Mentre giganti ormai del tutto “emersi” dell’economia mondiale fanno sfoggio sempre più aperto dei propri successi raggiunti con un modello politico dichiaratamente autocratico, in Occidente si moltiplicano gli scossoni. Pure lasciando da parte il caso italiano, dagli esiti sempre più incerti, nessuno avrebbe davvero scommesso appena due anni fa sulla vittoria nel giro di pochi mesi delle opzioni totalmente outsider di Brexit nel Regno Unito e di Donald Trump negli Usa: due risultati vissuti dalle élites culturali ed economiche dei rispettivi Paesi – tranne rarissime eccezioni – come letteralmente disastrosi.
Che sia ora di superare il modello “Democrazia”?
Che l’insoddisfazione generalizzata verso le istituzioni e le procedure democratiche sia potenzialmente assai pericolosa è cosa nota, specie in questo continente. La novità però è che, sull’onda di questi eventi, anche in contesti “insospettabili” essa è arrivata al punto da accendere la miccia di una discussione aperta sulla stessa possibilità di correggere una volta per tutte i difetti del sistema democratico, superandolo. Non si parla qui naturalmente dei penosi gruppuscoli neo-fascisti sparsi in giro per l’Europa: ma di una serie di docenti e intellettuali stufi e arcistufi di risultati politici ai loro occhi “miserabili”.
A rompere il tabù per primo è stato lo studioso americano Jason Brennan col suo “Against Democracy” (2016; da poco uscito in edizione italiana per Luiss University Press). Partendo dal presupposto che nei grandi bivi che gli si pongono di fronte, come nel caso del referendum inglese sulla Brexit, il demos odierno non ha semplicemente la minima idea della complessità della posta in gioco, Brennan propone di fare il “grande salto”, abbandonando un sistema dimostratosi chiaramente inadatto. Per sostituirlo con cosa? Riprendendo la lezione di John Stuart Mill, il modello più efficace nell’éra della complessità è per lui l’epistocrazia. Da non confondere, ben inteso, con la tecnocrazia. Al governo – tanto per citare un dibattito tornato improvvisamente attuale alle nostre latitudini – devono andare non tanto i tecnici che conoscono la “macchina” della cosa pubblica (burocrati ed economisti), ma i sapienti nel senso più ampio e variegato del termine. Se la traduzione del concetto resta complicata in termini pratici, Brennan suggerisce in sostanza di far emergere le scelte e le personalità più adatte a rispondere alle sfide del tempo passando al setaccio della conoscenza la base elettorale: fissando degli esami obbligatori di “idoneità” al voto sulla base della conoscenza delle principali questioni in gioco, ed assegnando un peso crescente al voto degli elettori in base al titolo di studio posseduto. Sacrilegio? Elitismo? Tradimento di secoli di tradizione illuministica?
Altrove, su un diverso terreno, si prova ad affrontare la questione con strumenti più concreti. Nell’ebollizione costante di idee del settore dell’innovazione tecnologica, un’azienda americana specializzata in intelligenza artificiale, la Kimera Systems, ha pensato bene di studiare un prototipo di macchina in grado di supportare gli elettori di qualsiasi Paese nella formulazione razionale della propria scelta di voto. Nigel – questo il nome del prototipo presto disponibile sul mercato – sarebbe in grado di sistematizzare ed elaborare le informazioni sulle scelte passate e sulle preferenze di ciascun “assistito” per mettere a fuoco gli obiettivi da perseguire di volta in volta al momento di inserire la scheda nell’urna (o nel database, quando verrà il momento). Sono solo due tra i molti esperimenti, tentativi e ipotesi – ciascuno giudicherà se in buona fede – di trovare una soluzione alla disarmante crisi della democrazia. E dunque: c’è del buono in tutto questo lavorio post- o para-democratico? O si rischia invece di buttare il bambino con l’acqua sporca e tradire la promessa più rivoluzionaria degli ultimi due secoli?
Salviamo la democrazia, partecipiamo.
Il dibattito è aperto, e questa, in effetti, è forse la più sana novità: giacché di dogmi e immobilismo, immancabilmente, si muore. Ma la modestissima impressione di chi scrive è che ci sia ancora modo di “salvare” la democrazia rafforzando la responsabilità dei suoi protagonisti, i cittadini, anziché indebolendola o rinnegandola tout court. Corretto però è l’approccio di Brennan quando pretende un surplus d’impegno da parte degli elettori nel compiere le proprie scelte. La constatazione che le opinioni del “popolo” si formano ormai troppo spesso in echo-chambers chiuse ed autoreferenziali e che negli stessi ambienti social si disperdono in modo disordinato e del tutto fine a se stesso non basta più. È tempo di passare all’azione e adottare delle contromisure. Attingendo magari alla nutrita letteratura – ed esperienza pratica – della democrazia deliberativa: la partecipazione è la forza trainante della democrazia, ma se ce la siamo tutti dimenticata, o stiamo rischiando pericolosamente di farlo, forse è ora che si progetti di insegnarla e impartirla, perché no, per legge. Rompiamo pure il tabù dei limiti al diritto di voto, dunque, ma facciamolo in modo intelligente. Ad esempio arricchendolo con il diritto/dovere altrettanto indispensabile di partecipare su base regolare a momenti di informazione e confronto consapevole sulle più importanti questioni pubbliche – nel mondo reale, s’intende. Per l’attuazione di un’iniziativa del genere bisognerebbe certo risolvere una serie di questioni preliminari significative di tipo tanto teorico quanto organizzativo (chi, come, con che frequenza etc.). Ma oggi come mai superare la disaffezione cronica per forme e sostanza della democrazia richiede soluzioni radicali.
Politologo di formazione, giornalista di professione, si occupa in particolare di politica italiana ed europea. Già impegnato nel lancio del festival Biennale Democrazia a Torino e del think-tank ThinkYoung a Bruxelles, lavora per Reset e Good Morning Italia e collabora con altre testate nazionali.
Solo tre parole, che non sono queste che hai appena letto ma quelle che leggerai. Sei un grande !
Tempo fa, in un aula della Danimarca, coniai insieme ad una amica greca il termine ENOcrazia. Per scherzo dissi diamoci al vino! Adesso trovo la sua funzione: potrebbe essere un modo per rispondere al come…
Inoltre trovo molto sensato l’uso che fai della parola responsabilità: come la possiamo rafforzare? Purtroppo parlo da eretico, visto che non ho votato e divento sempre più uno spettatore di un grande cambiamento geopolitico.
E infine si, si che mi scoccierebbe, seppur da eretico, se mi togliessero il diritto al voto: solo chi “ha studiato” potrà votare? Chi ti insegnerà? E poi siamo proprio sicuri che sia un problema di demos anzichè della politica stessa?