Cultura
Di canto in canto: le raccomandazioni al poeta di Eli Eliahu

Dietro l’apparenza mediocre della trita contrapposizione tra numeri e lettere, tra scienza e umanesimo, di cui la nostra società spesso di nutre, Eli Eliahu ci dona una delle migliori definizioni della poesia che la nostra contemporaneità abbia elaborato

Se esiste un poeta israeliano che negli ultimi anni ha ricevuto un’autentica consacrazione, da un punto di vista tanto istituzionale quanto popolare, questi è senza dubbio Eli Eliahu. Nato a Tel Aviv nel 1969 in una famiglia di ebrei iracheni, Eli Eliahu si è formato culturalmente in diversi istituti accademici e letterari della città, come la TAU University, il centro culturale Alma e, in seguito, la scuola di poesia Helikon, il nucleo artistico-letterario più importante che lo Stato ebraico abbia conosciuto negli ultimi trent’anni. La sua opera poetica, divisa finora nelle raccolte Ani ve-lo mal’akh (“Io e non un angelo”, 2008) e Ir ve-behelot (“Città e paure, 2011), è stata più volte insignita di premi prestigiosi, i quali gli hanno consentito di entrare di diritto nel canone letterario ebraico, come titolava Haaretz nel giugno scorso.

Al di là dei doverosi riconoscimenti ufficiali ricevuti dall’autore, osserviamo che la sua poesia è dotata di una rara potenza espressiva, grazie a un ebraico limpido e preciso, di cui avvertiamo la profondità storica, ma non il peso. La scrittura di Eli Eliahu è, al contrario, caratterizzata da una fluidità sorprendente, che colpisce nel segno senza trascurare, talvolta, una garbata verve ironica. Per dare ai lettori della rubrica un saggio della sua opera, ho scelto un testo di grande intensità, vale a dire Hamlatzah, “Raccomandazioni”. Credo che gli appassionati di poesia la apprezzeranno in maniera particolare, siano essi professionisti o meno del settore. Il testo, infatti, è strutturato come una sorta di ammonimento dai pericoli insiti nel fare della poesia la propria ragione di vita, ma infine, con penna abile e sagace, ne diviene una sublime esaltazione, non immune da implicazioni filosofiche.

Dietro l’apparenza mediocre della trita contrapposizione tra numeri e lettere, tra scienza e umanesimo, di cui la nostra società spesso di nutre, Eli Eliahu ci dona una delle migliori definizioni della poesia che la nostra contemporaneità abbia elaborato. I letterati tra voi provino a ricordare quante volte nel corso della vostra vita genitori, zii e parenti vari vi hanno apostrofati con queste parole: “Lascia perdere la poesia e la letteratura! Dedicati a qualcosa di più concreto!” Se non vi è mai successo, siete molto fortunati. In Italia, infatti, il detto “con la cultura non si mangia” non è soltanto l’infelice sortita di un ministro, ma una convinzione radicata, che affonda le proprie radici in un passato remoto, fatto di artisti geniali e affamati e di benefattori inclini al mecenatismo (bontà loro!). Bene, Eli Eliahu, che vive una realtà analoga in Israele, sposa questa esteriorità logora e banale, trasformandola in genialità. È, infatti, con un’esperienza incrostata di malinconia e disillusione che egli ci offre la propria concezione della poesia, che costringe chi la pratica a vivere di alterità. Essa obbliga, cioè, il poeta a dislocare la propria coscienza, svalutando l’assioma dell’io poetico-biografico come elemento cardinale della scrittura e al tempo stesso richiamando la celebre formula rimbaudiana Je est un autre. Dietro una veste inaffidabile e pericolosa, si cela quindi la ricchezza plurivoca della parola, che abbraccia infiniti sensi, così come il poeta incontra infiniti mondi. È un mestiere duro, insomma, addirittura pericoloso. Tuttavia, per l’aspirante poeta l’attrattiva è irresistibile. Pertanto vale la pena di correre il rischio.

 

Raccomandazioni

Non diventare poeta.

È difficile vivere così.

Ogni cosa è un simbolo

di qualcos’altro.

Non diventare poeta.

Non è semplice trovarsi

sempre nei panni di un altro.

Impara qualcosa che abbia un’utilità

che ti apra le porte.

Qualcosa con leggi chiare.

Ancora meglio se prevede numeri.

Sui numeri ci puoi contare.

Sono affidabili.

Non come le parole, che dicono una

cosa e ne intendono un’altra.

Sara Ferrari
Collaboratrice

Sara Ferrari insegna Lingua e Cultura Ebraica presso l’Università degli Studi di Milano ed ebraico biblico presso il Centro Culturale Protestante della stessa città. Si occupa di letteratura ebraica moderna e contemporanea, principalmente di poesia, con alcune incursioni in ambito cinematografico. Tra le sue pubblicazioni: Forte come la morte è l’amore. Tremila anni di poesia d’amore ebraica (Salomone Belforte Editore, 2007); La notte tace. La Shoah nella poesia ebraica (Salomone Belforte Editore, 2010), Poeti e poesie della Bibbia (Claudiana editrice, 2018). Ha tradotto e curato le edizioni italiane di Yehuda Amichai, Nel giardino pubblico (A Oriente!, 2008) e Uri Orlev, Poesie scritte a tredici anni a Bergen-Belsen (Editrice La Giuntina, 2013).

 


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