Cultura
Di che cosa parliamo quando ci riferiamo all’ebraismo italiano?

Essere ebrei, oggi, in Italia (e in Europa). Un discorso circa l’identità, l’appartenenza, il concetto di minoranza (e quello di maggioranza)

Di che cosa parliamo quando ci riferiamo all’ebraismo italiano? Torniamo su questo punto, che ci sta particolarmente a cuore. Ovvero, interessa una parte non irrilevante di chi ci legge. Così come noi tutti che, su queste pagine, componiamo i nostri pensieri. Con una comune avvertenza: quando si entra nel merito della specificità storica degli ebraismi, ossia del loro essere minoranze tanto pervicaci quanto adattive, tradizionaliste ma non necessariamente conservatrici – e tutto ciò non solo in Italia – si affronta di per sé un campo minato. Tale poiché composto di potenziali fraintendimenti, di ossessive ricorsività, di accuse e contro-accuse, di imputazioni di responsabilità così come di auto-assoluzioni, di identificazioni e di rigetti come quant’altro. Il catalogo è questo, che piaccia o meno. Non rimanda a punti di vista storici e neanche ad un’indagine sociologica (come molti, invece, simulano di volere fare, per potere poi dire che l’unica opinione accettabile, tale in quanto supportata dai “fatti”, sarebbe la propria) bensì ad un approccio ideologico. Come tale, basato più su quella commistione tra affettività ed esclusivismo, tra particolarismo e identitarismo.

Veniamo al sodo. L’ebraismo italiano è declinante. Da più punti di vista. Beninteso, non si tratta di un cupio dissolvi, ossia di una disgregazione nell’assoluta non essenzialità e nella sopravveniente indifferenza collettiva. Nulla di tutto ciò. C’è piuttosto dell’altro. Poiché la questione è tanto demografica (quindi, il tema della “quantità” di una minoranza) quanto culturale (le idee, il ruolo pubblico, la questione della “qualità” dei pensieri espressi come anche la libertà di poterli fare circolare). Nel primo caso ci si riferisce ai numeri, che pure hanno la loro importanza. Se il principio per cui si contano gli ebrei peninsulari è quello che, di volta in volta, viene stabilito dal rabbinato cosiddetto “tradizionalista” (il fatto che una tale definizione possa non calzare, ovvero non piaccia a certuni, non è questione che, in franchezza, sia tangente oltre una certa misura), allora il risultato della partita è già determinato. Poiché assegna l’essere ebrei – qualcosa che in sé rasenta invece tratti d’imponderabilità – ad una linea di successione matrilineare (un principio non etico ma endogamico), che non corrisponde necessariamente al concreto sentirsi e al viversi come tali. In questi ultimi decenni, diverse realtà che non si riconosco in una tale condizione, sono nel mentre sorte. Dando vita ad esperienze sociali, culturali, morali e religiose significative. Fingere – poiché di ciò si tratta, e non di altro – di non essere in obbligo di prenderle in considerazione (cosa ben diversa dall’accettarle acriticamente) implica il non volersi curare della diversificazione che l’ebraismo italiano, quand’anche rigorosamente minoritario rispetto alla parte restante della popolazione, va sperimentando di sé. Quest’ultima non è una risposta al profilo di minoranza dal punto di vista numerico bensì una manifestazione di vivacità esistenziale che andrebbe invece osservata con uno sguardo diverso. Al pari della riscoperta dell’esistenza di un Mezzogiorno ebraico che, fino al XV secolo, era stato determinante nei destini del giudaismo peninsulare.

Sì, certo: non si è membri di un “gruppo” se, rispetto ad esso, non si è sottoscritto un patto di lealtà, di reciprocità, di costanza nell’identificazione di una comune radice. Cosa ciò voglia dire, quindi cosa implichi nei fatti, come anche quel che comporti nel tempo, è tuttavia materia che non può essere risolta da un’autorità esclusiva. Ogni comunità umana ha bisogno di guide, beninteso. Le quali, tuttavia, non esercitano un sacerdozio insindacabile. La medesima storia ebraica testimonia, nella sua interezza, di tutto ciò. Di contro a quelle comunità affratellate da un esclusivo credo – più ideologico che religioso – le quali, invece, non hanno saputo affrontare il grande tema della modernità, ossia i processi di secolarizzazione. I quali, ai fini del nostro discorso, sono strategici. Poiché rinviano alla capacità di distinguere tra le norme della Torah e le leggi dell’epoca nostra. Non mettendole in contrapposizione ma evitando anche anacronistiche sovrapposizioni. Il tema, segnatamente, rimanda anche ad Israele e alla sua evoluzione come moderno Stato degli ebrei.
L’ebraismo peninsulare, in questi ultimi quarant’anni, ha peraltro assunto – in certi casi suo malgrado, altre volte con consapevole disponibilità (ovvero, “spirito di servizio”) – anche una funzione molto dialogica, ovvero non di comunità ristretta bensì di interlocutore, in sé culturalmente molto aperto, di una società allargata, quella italiana, quest’ultima invece in crisi di ruolo e identità. Una funzione di supplenza, per capirci, rispetto alle trasformazioni che attraversano quest’ultima. I tempi storici, di per sé, non sono per nulla casuali. L’emergere dell’ebraismo, come soggetto di interesse pubblico in Italia, al netto cioè di consolidate dottrine e consuetudini, data storicamente soprattutto al progressivo sfaldamento del cosiddetto «arco costituzionale», in sostanza quello composto dai partiti della «prima Repubblica». Cosa c’entra tutto ciò e quali sono – eventualmente – i nessi? Il discorso è in sé difficile. Ci basti dire che gli equilibri istituzionali che, dal 1945 ad oggi, hanno governato il nostro Paese e l’Europa intera, si sono progressivamente consumati. Oggi ne vediamo concretamente gli effetti. Misurandoli sulla nostra pelle. Non si tratta di un dramma collettivo ma senz’altro di un progressivo mutamento dello scenario pubblico. La qual cosa riguarda la totalità degli italiani a partire da quelli che, tra questi ultimi, si definiscono anche come «minoranza». Ovvero, tali in quanto accomunati, nel loro essere cittadini dell’Italia repubblicana e costituzionale, anche da una specifica appartenenza di gruppo. In altre parole, il racconto della storia di un piccolo gruppo, storicamente innervato nella società italiana, è stato inserito, in alcuni casi, dentro i percorsi della crisi dell’identità nazionale, cercando di offrire delle risposte ad essa. Per essere più espliciti: il «Giorno della Memoria» è andato progressivamente colmando un vuoto che si era creato nell’ethos pubblico. Ma chiedere ad esso di assumere significati che non può offrire, al di là della sua funzione non solo commemorativa, implica il trascinarne valori e contenuti dentro l’agone della polemica politica spicciola, con tutte le competizioni e le torsioni che da ciò possono derivare. Nonché le confusioni e le manipolazioni del caso. L’accostamento con altre ritualità del calendario civile, purtroppo, si presta ad un tale esito.
Non si sta parlando, in questo caso, di definire una volta per tutte cosa sia l’ebraismo italiano in sé (ammesso e non concesso che qualcuno abbia le parole giuste, nonché l’autorità definitiva, per qualificarlo esaustivamente), bensì la natura, e le ragioni, della sua ricezione pubblica, ossia il contesto delle rappresentazioni, delle immagini, e dell’immaginazione, con le quali è concepito dai quei non ebrei che ne sono disposti a cogliere gli aspetti e i caratteri di soggetto di trasmissione interculturale. Si è infatti minoranza attiva quando si ha un qualche peso nell’opinione pubblica. Di cui, peraltro, si è comunque parte, a prescindere. È valso nel caso del Risorgimento, vale a tutt’oggi. Mentre tutto ciò fu nullificato dal fascismo mussoliniano. Poiché nessuna garanzia sussiste, per le minoranze, se essa non è invece ancorata ad un regime costituzionale, tale in quanto non basato sui meri rapporti di forza dettati dalle circostanze bensì dalla mediazione tra identità, ruoli e interessi tra di loro altrimenti contrapposti, ed ostili, una volta per sempre.

Ad un tale punto della riflessione, vale forse la pena di dire che è inutile il parlare a tutti quando, invece, c’è chi si rivolge solo al simulacro di se stessi. Ossia ad una icona cristallizzata, una volta per sempre. Certo, non si è ebrei per semplice auto-definizione. Ci vuole, in questo come in altri casi, un accordo su quelli che sono i limiti di un’appartenenza. Storicamente, tuttavia, non esiste un criterio unico. Tali limiti, infatti, sono mutevoli. Chi afferma altrimenti, sta dicendo cose non veritiere. Così come, un tema oggi più che mai strategico, è quello che demanda all’«essere ebrei» non per generazione né per successione bensì per elezione. Ossia, per una scelta personale, maturata consapevolmente nel tempo. Beninteso, non si sta parlando di conversioni bensì di convinzioni. Se l’ebraismo non sarà mai un partito, non potrà neanche essere un club esclusivo. Men che meno, una piccola collettività recintata, da tutelare costantemente contro le aggressioni esterne. Le campane di vetro, la storia insegna, sono destinate, ben presto, a disintegrarsi.
Chi afferma altrimenti, ci sia concesso dire che non crede tanto nella Torah bensì in un qualche inconfessabile fantasma di quella idea di «identità», strettamente intrecciata alla nozione stralunata e indecente di «razza», per la quale l’ebraismo europeo ha invece pagato un tributo allucinante, ineguagliato, insuperato: per l’appunto la «catastrofe», la Shoah. Nessuna reductio ad Hitlerum (così Leo Strauss), per capirci, ma la consapevolezza che quella tragedia ha lasciato un segno non solo nei carnefici bensì anche in una parte delle vittime. Ossia, ha scavato un solco insuperabile. Il quale, nel caso nostro (le vittime), consiste nel riconoscere e nell’interpretare quanto avviene con le categorie di ciò che fu. Come se si fosse ancorati, una volta per sempre, al passato. Avraham Burg, già speaker della Knesset, nel 2007 pubblicò in Israele un libro fondamentale, «Defeating Hitler», tradotto in italiano l’anno successivo da Elena Loewenthal, nel quale tematizzava questo problema come dimensione politica, ossia come aspetto fondamentale dello stare insieme, ovvero di ciò che ci tiene uniti, sia come minoranze che nel rapporto con la restante maggioranza.

Sul versante culturale registriamo infatti il progressivo affaticamento di una auto-narrazione di gruppo, di supporto alla fragilità di un’identità prima nazionale e poi europea, che gioca tutto sull’istanza della «memoria». C’è come una contraddizione ineliminabile in tutto ciò: l’Unione europea ci chiede di fare in modo che il ricordo del passato dei totalitarismi diventi un monito civile e politico per il presente delle società nazionali. Tuttavia, formulata una tale premessa, l’Unione non sa definire un’idea di futuro, in sé accettabile, per le nostre società. Per l’ebraismo europeo, e segnatamente per quello italiano, non basta più riferirsi all’antisemitismo (del pari ad una sorta di contro-identità, una fisionomia di gruppo in negativo, capovolta e stravolta), alla memoria medesima (e quindi alla sua condivisione collettiva) e ad Israele (la statualità ebraica che è tuttavia tale perché costituisce una Nazione tra le nazioni e non un soggetto isolato, a sé, come tale insindacabile nelle sue scelte). Il futuro, proprio perché a molti pare nebuloso, richiama l’esigenza di una ridefinizione di gruppo che sappia rendere plausibile il pluralismo interno, al posto di un’ossessiva ricerca di un simulacro di appartenenza, soprattutto se declinato nei termini di osservanze astoriche e per nulla capaci di formulare in maniera critica il senso del proprio tempo. Il resto, francamente, è solo polemica fine a sé, destinata come tale, a riprodurre il senso dello smarrimento e il bisogno di fuggire da qualcosa che si avverte come sempre più distante dalla propria esperienza quotidiana di vita.

Claudio Vercelli
collaboratore

Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.


2 Commenti:

  1. Grazie, Claudio Vercelli, di avere finalmente preso “il toro per le corna”, centrando il discorso (oltre che sull’auto-percezione ed auto-definizione degli ebrei) sul pluralismo interno della componente ebraica della società italiana. L’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, per come è strutturata oggi, appare sempre di più come “una camicia troppo stretta” per contenere tutte le realtà che si autopercepiscono ed autodefiniscono come ebraiche. C’è quindi bisogno di un confronto (ed una conseguente riforma istituzionale) radicale, che non può continuare ad essere rimossa ed elusa, a meno che il fine (soprattutto inconscio) degli ebrei italiani sia quello dell’autoestinzione. Prima della sua scomparsa, il rabbino Giuseppe Laras aveva lucidamente percepito questa necessità storica, e l’aveva espressa in una lettera-testamento, la cui portata è stata minimizzata, se non rimossa del tutto dagli ebrei italiani, e certamente non accolta dalle istituzioni che, proprio con quella lettera, rav Laras voleva stimolare. Trovo infine che l’antica e metaforica auto-percezione del popolo ebraico come popolo lunare, aiuti a non perdere la speranza nel futuro: quando sembra scomparire totalmente, rinnova però il suo ciclo fino a risplendere chiaramente nel cielo notturno.


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