Analisi di due universi culturali diversi, accomuntati dall’inquietudine
Diaspora è una brutta parola. Almeno così mi sembra di capire se seguo tutta la discussione su “ebrei e dispora”. Io non penso che diaspora sia una brutta parola, non penso nemmeno che sia una parola bella (in realtà non penso che il vocabolario si divida tra “parole brutte” e “parole belle”). Penso, invece, che sia una parola viva e che forse per questo valga la pena rifletterci senza partigianeria.
Provo a spiegarmi
Il primo passaggio è distinguere tra esilio e diaspora (due termini che, invece, sono spesso usati in maniera indifferente). Sono due condizioni apparentemente simili, ma molto distanti tra loro, quasi antitetiche.
Tanto la condizione dell’esilio, come quella della diaspora riguardano una condizione fisica: essere lontani, spesso essere impossibilitati e tornare nel luogo di prima, spesso “non poter tornare a casa”.
Aggiungo.
Il tema dell’esilio e della condizione diasporica è dunque interloquire con il luogo da cui proviene o con quello in cui risiede il gruppo umano a cui si appartiene. Luogo che si è abbandonato, quasi sempre forzatamente, «controvoglia». Non solo: luogo che si riconosce come spazio che esprime una parte della propria identità culturale, non priva di contraddizioni.
C’è nell’esilio come nella diaspora, se ci fermiamo, una condizione che riguarda tutti coloro che “lontani da Gerusalemme” (non importa quanto) riflettono sulla condizione attuale rispetto al loro passato di prima della catastrofe.
Il problema non è solo il dolore, il problema è che come si affronta l’esperienza del dolore e dunque quale risposta si proponga per superare o per rimediare a quella condizione. Il problema sono le risorse emozionali, intellettuali, letterarie, in beve l’immaginario che quella nuova condizione produce. La differenza non risiede dunque in un dato oggettivo, fisico. La differenza è mentale, e dunque culturale.
Ovvero, se il problema sia impegnarsi per ritornare al momento prima della caduta, o se quella caduta sia invece un punto di non ritorno e dunque si tratti di guardare oltre.
Se a prevalere è la prima opzione allora lì si fonda il codice dell’esilio. Se invece il processo che si inaugura è come si riordina il passato e si prospetta un nuovo codice per progettare futuro, allora la dimensione in cui si entra non è più quella dell’esilio, segnata dalla nostalgia, bensì quella della diaspora, fondata sull’idea di progetto.
È il processo che inaugura Sholom Aleichem quando attraversando l’Atlantico deve tentare di dare una luce di speranza al popolo dei suoi lettori che in lui cercano la nostalgia di una lingua (l’Yiddish) che temono di perdere, ma anche di dare un nuovo senso al loro non sapere più se essere o no comunità.
Un condizione che, due generazioni dopo, fa dire a Gershom Scholem, nel 1937, (il riferimento è al suo La redenzione attraverso il peccato, Adelphi – testo che nient’altro è che il primo nucleo che venti anni dopo si condensa nel suo Šabbetay Şevi (Einaudi), – l’idea che l’esplosione dei movimenti messianici a partire dall’Età moderna, e che ha nel movimento di Šabbetay Şevi l’espressione più dirompente, costruisca e definisca «in nuce» quella voglia di rompere il destino e di rientrare nella storia propria di tutti i maggiori momenti successivi di pensiero ebraico, dal chassidismo all’askalah fino al sionismo. Per Scholem l’elemento dell’annuncio messianico non sottostà all’attesa di un momento di riscatto, ma è essenzialmente eresia. È voglia di futuro e intervento nella storia. E, soprattutto, non è la realizzazione di un prontuario. È provare a dare forma al sogno.
Un aspetto che spesso ha portato Scholem a essere in conflitto o a disagio con la realtà in cui ha scelto di vivere e di impegnarsi a costruire (ovvero la Palestina mandataria prima, lo Stato di Israele poi,) condizione che non ha mai inteso come ultimativa, ma, appunto, come ipotesi di continuo reinizio, perché al centro non sta solo la storia che si riceve dal passato e che va confermata ma sta anche l’impegno a cambiarla, come scrive nel 1946. È questo che chiama il legame tra memoria e utopia nella storia ebraica.
Un’ipotesi che è sintonica con la sua scelta di vita come racconta ricostruendo gli anni tedeschi della sua formazione in Da Berlino a Gerusalemme, e che delinea, come scrive David Biale, nel suo Il maestro della cabala. Vita di Gershom Scholem, più che una «scelta per» è una ribellione, ovvero è prevalentemente una «scelta contro».
Dunque quel processo che prova a dare forma al sogno vive rifondando regole, spesso disegnando una società più stretta di quella precedentemente vigente, quella in atto nel territorio da cui si è stati violentemente espulsi o da cui si è fuggiti, andando verso un altro luogo, che nelle condizioni di quel momento è il più accogliente o il più disponibile o che appare come quello più carico di promesse (un processo di spostamento che nella linea del tempo disegna quella che lo storico Yosef Hayim Yerushalmi ha chiamato la storia della speranza ebraica) perché ogni rifondazione di gruppo è contemporaneamente la riscrittura delle norme identitarie, ma anche la ridefinizione dell’impalcatura culturale che le definisce. Ragion per cui ogni sradicamento è ad un tempo rigidità nelle regole, ma anche assorbimento di nuovi elementi, strumenti, concetti, in breve materiali culturali che danno nuova fisionomia al patto (è la riflessione sulla memoria culturale che propone Jan Assmann in La memoria culturale, Einaudi, p.161 e sgg.).
Essere in diaspora, dunque, non è tanto essere lontani da qualcosa, ma essere fortemente orientati a dare nuovi contenuti, a riscrivere parzialmente o significativamente segmenti del proprio codice culturale e dunque riformulare patti.
All’interno di questa condizione sta una premessa che rovescia il senso di ciò che chiamiamo fedeltà. La fedeltà non è mantenere il passato, ma cercare di dare forma a un sogno nelle dimensioni in cui si produce questa possibilità.
Ecco perché una delle premesse fondamentali, non solo nell’esperienza ebraica, meglio delle molte realtà ebraiche che si sono mosse nel tempo della dispersione, è tornare a fare i coti con sé stesi. Vale per tutti. Per esempio è la raccomandazione, che Edward Said formula nelle sue Riflessioni sull’esilio (1984), (in Id., Nel regno dell’esilio. Riflessioni, letture e altri saggi, Feltrinelli, pp. 216-231). Il tema, allora, è come riflettere sulla sconfitta, come mettere in questione le proprie speranze con le attese di riscatto che si originano dalla “resa dei conti” con il proprio passato, con la capacità di riprendere il filo della storia, e tornare a interrogare il proprio presente in relazione alla identità culturale e politica che si vuol rivendicare. Un profilo che riguarda tutte le esperienze di esilio che nascono da una sconfitta.
Questo perché l’identità non è una volta per tutte, ma è un processo, un work in progress che vive di due condizioni culturali.
La prima: un’esatta consapevolezza dei contenuti e anche della storia della cultura che si eredita (e dunque anche delle tecniche l’hanno nel tempo definita nella sua personalità, compresi i punti di conflitto, ovvero i luoghi dove si è prodotto confronto aspro, in altre parole i “bivi” in cui si è scelta una direzione).
La seconda: una grande capacità di ascolto di ciò che c’è fuori perché come diceva il poeta William C. Williams “the pur products go crazy”, “i frutti puri impazziscono.”
Questa condizione ha il suo veicolo essenziale nella costruzione di una lingua che magari si serve del mito di far rinascere una lingua “morta” o considerata solo testuale, la quale può assumere lo statuto di riprendere la lingua di un testo di riferimento (non è successo così all’ebraico moderno?) ma che poi deve fare i conti con lo sviluppo storico non dei termini o dei vocaboli, ma delle necessità e delle insorgenze di una comunicazione, in cui le parole esprimono i sentimenti, le idee, le immagini delle persone che quella lingua usano, e dunque anche nell’agire quotidiano la arricchiscono, la deformano. In una parola la “ricreano”, come ha raccontato Anna Linda Callow.
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La condizione della diaspora è anche la scelta non solo di mantenere un ricordo o di preservarne la conservazione, ma di consentire un passaggio di generazione, trasformandolo, variandolo, arricchendolo delle suggestioni che la nuova condizione di sradicamento impone.
Dentro l’esperienza dell’esilio e della diaspora come speranza c’è la determinazione a continuare e a ricominciare a sfidare l’oggettività del presente e a reinvestire su un’ipotesi di futuro.
Esilio, come scriveva Cicerone, è una condizione non felice per sfuggire a una condizione più infelice. “Si muta suolo – scrive Cicerone nel Pro Caecina – allorché ci si vuole sottrarre a una qualche pena o disgrazia, è per questo che si cambia sede e luogo”. L’esilio può essere una pena comminata. Talvolta è un modo per sottrarsi, per ritrovare o cercare un’altra libertà. Ma non è pace.
Propongo di riflettere sulle molte nuances, non solo negative che l’esperienza esilica e quella diasporica propongono. Per farlo, forse si tratta di tenere a mente i possibili significati di quelle due parole e provare declinarli in forma nuova, sapendo che esilio e diaspora non solo non sono sovrapponibili, ma indicano due contenuti diversi.
Esilio ha come etimologia ex salire e potrebbe avvinarsi al significato di balzare fuori, andare oltre, più semplicemente uscire. Diaspora indica la dispersione o la disseminazione del corpo di un popolo rispetto alla sua terra di origine, la disseminazione di semi in agricoltura (da cui peraltro la parola etimologicamente proviene (dal greco sperirein), pone però il problema di un possibile impiantamento, radicamento e, dunque, eventualmente crescita.
Non sostengo che questo sia l’unico significato. Come spesso capita le parole sono polisemiche. Tanto l’esilio quanto la diaspora non sono una ricetta, sono come ci si pone al bivio della storia e come si decide di agire, sono le domande che si pongono a se stessi e l’insoddisfazione che si ha. Non sono in ogni caso una scelta di “stare a sedere”. E sono una condizione in cui si sta scomodi nelle “scarpe che si indossano”.
In ogni caso se personalmente propendo per il percorso emozionale e intellettuale di ciò che rientra nel concetto e nella pratica mentale del “sentirsi in diaspora”, non credo che “esilio” sia meno problematico.
Sia in esilio che in diaspora le persone corrono molto, perché la loro condizione non è la quiete, ma l’inquietudine. Forse meglio: l’insoddisfazione. Si tratta di non dimenticarlo.
Classe 1955, nato e cresciuto a Livorno, studia a Pisa dove inizia la facoltà di Filosofia, ma si innamora di quella di Storia. Ha insegnato al liceo e all’università, da anni lavora alla Fondazione Feltrinelli in quanto Direttore dei contenuti editoriali. Si definisce uno storico sociale delle idee (ci ha assicurato essere una vera specialità, benché nessuno finora abbia capito cosa sia). Scrittore e giornalista, dicono che il suo branzino al sale sia leggendario.