Uguaglianza, dignità e libertà nella lettura dell’ebraismo progressive
Il rapporto tra ebraismo progressive (cioè tutte quelle correnti che si differenziano dall’ortodossia) e diritti umani è tanto stretto quanto, se ci si passa il termine, tradizionale. Da un lato infatti l’ebraismo progressive ha mostrato fin dalla sua nascita, in Germania prima e negli Stati Uniti poi, un forte interesse per i diritti umani, dall’altro tale interesse è ben radicato nell’essenza più profonda dell’ebraismo e nelle linee guida della Riforma. Che infatti pone come proprie basi i concetti di libertà personale e di responsabilità collettiva sia in quanto popolo Ebraico, sia come parte della società umana.
L’approccio storico alla rivelazione
Pensiamo ad esempio all’elemento che normalmente più colpisce, incuriosisce o spaventa dell’ebraismo progressivo: la parità di diritti (e quindi di doveri!) tra uomo e donna. Il fatto di essere equalitarian rappresenta certamente un tratto peculiare ed imprescindibile della Riforma ebraica, ma di fatto si tratta di un elemento derivato da un aspetto assai più profondo. Ciò che separa in maniera radicale riforma e ortodossia nell’ebraismo è l’approccio storico alla rivelazione, ossia l’idea che la Torà sia stata scritta in un determinato periodo storico (o in più periodi storici differenti e poi assemblata), da esseri umani che parlavano un linguaggio umano e ragionavano con categorie umane, ma agivano per ispirazione divina. Lungi dall’annullare il valore portante della Torà per l’ebraismo, ben radicato nell’ispirazione divina del testo, questa visione inserisce i precetti nella mentalità di un’epoca specifica, di cui la Torà stessa sarebbe espressione. Nel testo ispirato si distinguono allora alcuni insegnamenti vincolanti in modo assoluto, perché parlano a tutti gli ebrei di ogni epoca storica, da indicazioni che non possono più essere considerate attuali se confliggono con valori di maggior importanza.
Verso l’uguaglianza
La differenza di ruoli tra uomo e donna, di conseguenza, non viene più ritenuta valida proprio basandosi sul fatto che tutti gli esseri umani debbano e possano godere degli stessi diritti. In maniera simile si affronta una questione halakica assai delicata e potenzialmente fonte di infinite sofferenze: quella del mamzer, ossia del figlio illegittimo, nato da una donna sposata e da un uomo che non è suo marito. Il bimbo che nasce in questa condizione, pur non avendo alcuna colpa personale, subisce una notevole serie di limitazioni (non potrà essere contato nel minian, subirà restrizioni matrimoniali molto rigide, etc.), che peraltro vengono estese a tutti i suoi discendenti. Per ovviare ad una situazione che crea, ancora prima della nascita, l’impossibilità assoluta di una uguaglianza di diritti, i rabbini progressive pur non negando la precettistica contenuta nella Torà a proposito di questo caso, affermano che, poiché se una persona è mamzer tali saranno tutti i suoi discendenti durante le generazioni seguenti, nessuno ebreo può essere certo di non aver avuto un mamzer tra i propri antenati, dunque tutti gli ebrei sono (almeno potenzialmente) mamzerim, il che annulla le restrizioni specifiche cui i mamzerim sono sottoposti.
La versione di Borowitz
Se anche in ambito ortodosso il dibattito su questioni come queste è assai acceso ed il mondo dell’ortodossia è ben lungi dall’offrire risposte halakiche univoche e statiche, in ultima analisi il problema è quanto ci si possa separare dalla norma codificata nei secoli passati e, soprattutto, facendo appello a quale autorità. L’ebraismo progressivo ha assunto nel corso dei decenni, e ancora assume, posizioni differenti sulla questione, ma potremmo dare almeno un’ipotesi di risposta appoggiandoci a quanto scritto da Eugene Borowitz (1924-2016), uno dei più eminenti pensatori riformati contemporanei, che fu docente presso lo Hebrew Union College e Presidente dell’American Theological Society. La riflessione di Borowitz si concentra sulla nozione di sé ebraico (jewish self), che non corrisponde alla coscienza autonoma ed indipendente tematizzata dai filosofi moderni, da Cartesio a Kant, ma consiste in una coscienza che vive “una vita di libertà, esercitata all’interno dell’alleanza”. Se quindi la coscienza del singolo individuo ebreo è l’ultimo tribunale davanti al quale rendere conto, e dunque ciascuno acquisisce il diritto di essere giudice di se stesso e della propria vita, non si dà coscienza (e dunque decisione) ebraicamente intesa, se non all’interno del legame di alleanza con Dio e della relazione con il popolo di Israele.
La pluralità identitaria
Il diritto assoluto di autodeterminazione dell’umano, il dovere di discernimento morale personale e l’esercizio di una libertà consapevole costituiscono quindi dei capisaldi del pensiero di Borowitz (e di tutto l’ebraismo progressivo), ma dopo le prime generazioni di pensatori riformati, essi vengono mitigati dal radicamento nella tradizione e nella storia ebraiche, che a loro volta hanno come scopo principale la sopravvivenza del popolo di Israele. Borowitz, a differenza dei primi rabbini e teorici della riforma ebraica, afferma tra l’altro la superiorità spirituale delle generazioni precedenti, sottolineando come nessuna autorità posteriore possa aspirare alla stessa autorevolezza della Torà, ma questo non toglie il dovere dell’autodeterminazione del singolo ebreo per tutte le questioni che lo riguardano. La sottolineature del valore autonomo del sé ebraico aumenta chiaramente la soggettività della pratica halakica, il che ha come conseguenza la necessità di riconoscere e accettare una pluralità di modi di dirsi e di essere ebrei, con una conseguente estensione di diritti ad un numero maggiore di individui.