Un ragionamento, attuale e biblico insieme, sulle parole “residente” e “straniero”.
«Quando lo straniero dimorerà tra di voi lo tratterete come colui che è nato tra di voi; tu lo amerai come te stesso perché anche voi siete stati stranieri nella terra d’Egitto. Io sono il Signore, vostro Dio» (Levitico 19, 33-34). Basterebbe forse questo passo della Torà per liquidare il tema del diritto di cittadinanza. Una questione che – come si vede – dall’alba dei tempi è arrivata fino a noi intatta nella sua dirompente urgenza, e che nella Dichiarazione universale dei Diritti umani del 1948 interroga l’Articolo 15 nei punti Uno «Ogni individuo ha diritto ad una cittadinanza» e Due «Nessun individuo potrà essere arbitrariamente privato della sua cittadinanza, né del diritto di mutare cittadinanza». Da qui alla evidente necessità dell’elaborazione di uno jus migrandi il passo è brevissimo. E viaggia in parallelo con un’evidenza, il fatto, cioè, che anche in epoca post-nazista sia vivo e vegeto lo slogan “ognuno a casa propria”. In proposito ricordo un saggio che Bollati Boringhieri pubblicò l’anno scorso, Stranieri residenti di Donatella Di Cesare, in cui l’autrice coniuga filosofia e senso dell’attuale, vorrei dire dell’immanente. La docente di Teoretica alla Sapienza e di Ermeneutica filosofica alla Scuola Normale Superiore di Pisa aiuta ad affrontare e sviscera le infinite poliedriche e complesse problematiche di qualcosa che non solo è parte viva della nostra quotidianità, ma che è senz’altro nodo vitale del domani collettivo, il futuro nostro e dei nostri figli, dei nostri nipoti, dei figli dei loro figli.
Migrazione e cittadinanza
«Io sono straniero e residente in mezzo a voi» si legge in Bereshit/Genesi 23, 4. Parole e concetti che non lasciano dubbi, al di là delle infinite interpretazioni dei Maestri. Parole che ci raccontano quanto l’estraneità regnasse sovrana a Gerusalemme dove, secondo alcuni, il cardine della comunità era, appunto, lo straniero residente, il gher, “colui che abita”. Fa bene Di Cesare a sostenere la tesi per cui a chi «lo Stato appare un’entità naturale, quasi eterna, la migrazione è allora devianza da arginare, anomalia da abolire». In sostanza, il migrante ricorda allo Stato il suo futuro storico, ne scredita la purezza mitica. Diciamolo: impone una riflessione su migrazione e cittadinanza che a sua volta impone pure di ripensare lo Stato.
Noi ebrei, migranti per forza, da sempre o quasi… Non a caso uno degli stereotipi classici dell’antisemitismo è “l’ebreo errante”, figura leggendaria, cliché negativo affibbiatoci da secoli e secoli, protagonista infine di un racconto popolare europeo nato nel cristianesimo del Basso Medioevo. Tuttavia, volgendo in positivo ciò che voleva essere ed è stato un marchio tanto falso quanto infamante (“l’ebreo errante” incarnerebbe colui che, non avendo accolto o comunque soccorso il Cristo sofferente, fu costretto a vagare per sempre), quella “erranza” diasporica fa a pezzi, nei fatti, la logica dei saldi steccati che assegnano l’abitare all’autoctono, al cittadino. Il gher insegna cioè che abitare non vuol dire stabilirsi, installarsi, stanziarsi, fare corpo con la terra.
Il diritto dicittadinanza
Una lezione che – credo – dovremmo fare nostra, oggi, particolarmente oggi, per quanto concerne il diritto di cittadinanza. Guardando ciò che scrive Di Cesare: «Un rapporto non identitario con la terra che dischiude, nell’assunzione dell’estraneità, un coabitare che non si dà nel solco del radicamento, bensì nell’apertura di una cittadinanza svincolata dal possesso del territorio e di un’ospitalità che prelude già a un modo di essere al mondo e a un altro ordine mondiale». Senza mai scordare che (ho cercato di spiegarlo su JoiMag di qualche tempo fa), a differenza di quanto siamo abituati a vedere nella storia, dalla Dichiarazione d’Indipendenza americana alla Dichiarazione dei Diritti Umani della rivoluzione francese, fino alla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, nell’ebraismo il sistema giuridico-culturale impone il tema della società/comunità partendo non dai diritti, ma dai doveri. Nella Torà troviamo il comandamento di non uccidere, come affermazione del diritto alla vita, di non rubare come affermazione del diritto alla proprietà. «Quando lo straniero dimorerà tra di voi lo tratterete come colui che è nato tra di voi; tu l’amerai come te stesso perché anche voi siete stati stranieri nella terra d’Egitto. Io sono il Signore, vostro Dio». Appunto.