Dialogo con uno dei primi rabbini ortodossi ad aver formato e ordinato donne rabbino nella sua scuola di Gerusalemme, Beit Midrash Har’El
Domenica 8 dicembre il Teatro Franco Parenti di Milano ha ospitato un incontro davvero interessante: Rabbi Herzl Hefter, fondatore e direttore di Beit Midrash Har’el, una delle poche scuole del mondo ebraico ortodosso in cui uomini e donne studiano insieme per ricevere la semikhà, l’ordinazione rabbinica, ha raccontato la sua esperienza e condiviso la sua visione di cambiamento all’interno della tradizione. Accanto al Rav, come interlocutrice e traduttrice, c’era Miriam Camerini, prima donna italiana iscritta a Beit Midrash Har’el. Il percorso prevede 6 anni di studio, gli studenti e le studentesse sono una quindicina: nell’organizzazione del programma si distingue chi vive in Israele e chi invece, vivendo all’estero, segue una parte a distanza.
Beit Midrash Har’el apre nel 2016, in circostanze quasi casuali: uno studente rivolge al Rav la richiesta di lezioni private per la formazione rabbinica. Ma l’agenda di Rabbi Hefter è troppo piena perché possa impegnarsi con una sola persona: per un gruppo però, risponde, sarebbe disposto. Al nostro studente il compito di formarlo: possiamo includere anche le donne?, chiede. La risposta è affermativa, il primo gruppo misto inizia a studiare.
Rabbi Hefter ha definito la scuola “molto tradizionale”, dal punto di vista delle materie di studio; e allo stesso tempo “non tradizionale”, per il fatto che donne e uomini studiano insieme. A guidare l’incontro è stata questa domanda: come giustifichiamo un’azione non tradizionale in un contesto di forte fedeltà alla tradizione? Rabbi Hefter ha sviluppato la discussione partendo da un passaggio del Libro dei Numeri che descrive l’iniziativa dei capi tribù del popolo ebraico di venire in aiuto dei Leviti, ai quali è stato assegnato il faticoso compito di trasportare il tabernacolo da una tappa all’altra nell’attraversamento del deserto. Un’iniziativa insolita, poiché viene dal basso e rovescia la gerarchia abituale, da Dio all’intermediario Mosè, e da Mosè alle persone. Inusuale, ma accettata da Dio, che comanda a uno stupito (e un po’ scocciato) Mosè di fare altrettanto. Un cambiamento sì, ma fatto non di mosse isolate ed estemporanee, bensì scaturito dalla condivisione di valori e di etica da parte dei capi tribù: dice una tradizione, quando due chakhamim (saggi) riescono a mettersi d’accordo, Dio sta dalla loro parte.
Qualche giorno dopo l’incontro, riprendiamo la conversazione con Rabbi Hefter.
Prima che nascesse Beit Har’el, cosa pensava del rabbinato femminile?
È un tema che ha impegnato i miei pensieri per diversi anni. Ho insegnato a lungo nel polo della Yeshiva University che ha sede a Gerusalemme, formando studenti maschi per la semikhà; nello stesso periodo insegnavo anche in un programma per donne ortodosse chiamato Midreshet Lindenbaum. All’epoca capitava che mi chiedessero cosa pensassi dell’ordinazione delle donne e io rispondevo che non ci vedevo nulla di sbagliato. Però non avevo mai intrapreso alcuna iniziativa pratica. Quando si è presentata l’opportunità, ho subito pensato che fosse la cosa giusta .
Abbiamo esempi nella tradizione ebraica di leadership femminile che ispirano l’idea moderna di donna rabbino, intesa come guida di una comunità?
La tradizione presenta sicuramente degli esempi di leadership femminile, ma sono pochi, un’eccezione alla regola e questa è la ragione per cui sono conosciuti. Le donne leader nella tradizione ebraica sono una minoranza così come lo sono nella storia del mondo. Si contano sulle dita di una mano. Come Cleopatra, o restando nella nostra tradizione, Ester o la profetessa Hulda. Penso che si debba fare attenzione a non rapportarsi in modo anacronistico verso queste figure: sono vissute tremila anni fa e oltre, in società che avevano concezioni completamente diverse di relazioni tra i sessi, di persona, di identità e di comunità. Va bene entusiasmarsi per le figure storiche, ma senza perdere di vista che ciò che accade oggi è molto diverso: le donne rabbino di oggi non sono una continuazione di Bruriah, la moglie di Rabbi Meir, o della figlia di Rashi. Quelle sono storie particolari, non furono scritte per veicolare un punto di vista femminista. La domanda odierna di rabbinato femminile invece fa riferimento all’idea, relativamente nuova nella storia del pensiero umano, che ognuno debba mettere la propria autorealizzazione e autonomia al centro, e la polis, il pubblico, a lato. Da qui nasce il femminismo, dall’idea che ogni persona abbia diritto all’autorealizzazione e la cosa peggiore che possa capitarle è non vivere al massimo delle sue potenzialità. È un modo moderno di guardare le cose, il che va bene, è giusto che il mondo cambi. Ma è importante non scombinare la storia.
In che modo il suo approccio, come rabbino ortodosso, è diverso da un approccio conservative o reform?
Preferisco rispondere descrivendo ciò che faccio e lasciare le conclusioni agli altri. Cerco di mantenere un impegno totalmente fedele – ma non in senso amorfo – alla pratica tradizionale e alla Halakhà, la guida per il vivere spirituale ed etico degli ebrei. All’interno di questo vincolo di fedeltà, cerco di far progredire le cose in avanti. Questo è il mio approccio. Riconosco che ce ne possono essere altri e se essi sono onesti e coerenti, li rispetto. Le conclusioni a cui sono arrivato vengono in parte da un lavoro di contemplazione interna su ciò che ritengo giusto, e in parte dalla collaborazione con gli altri. L’incoraggiamento dei miei compagni di percorso mi dà fiducia per andare avanti in modo coscienzioso.
Quali sono le argomentazioni più frequenti contro il rabbinato femminile e come risponde?
Le persone hanno una non espressa paura del cambiamento e dell’ignoto. Temono che qualsiasi cambiamento possa portare alla disintegrazione delle comunità ebraiche e all’assimilazione. Sono paure comprensibili, in un mondo che spesso è monetizzato, narcisista, irrispettoso del positivo sviluppo umano: minacce reali, non solo per gli ebrei ortodossi ma per tutta l’umanità. Chi tiene alla preservazione dei propri valori guarda al mondo esterno e dice: io non voglio essere così. L’argomentazione contro un’innovazione come il rabbinato femminile dunque è la seguente: non rispetta la nostra tradizione e quindi finirà per condurci là, rendendoci uguali a quel mondo dal quale vogliamo distinguerci. La pura ricerca dell’autorealizzazione, il protagonismo, dove andremo a finire? A queste critiche io rispondo: venite a visitare il Beit Midrash, guardate voi stessi. E vedrete che è tutto normale e ordinario. Tutto ciò che c’è da vedere sono persone che studiano la Torah. Da quando delle persone sedute a studiare la Torah sono una minaccia? Dopo la visita, alcuni mi dicono: continuiamo a essere in disaccordo, però ora capiamo ciò che dici. E ci sono anche quelli che cambiano idea. Sono cose significative.
Chi sono le studentesse di Beit Midrash Har’el?
Il gruppo più numeroso vive in Israele, nel gruppo a distanza abbiamo Miriam da Milano, due donne dall’area di Boston, una da Manhattan, un’altra dall’Australia. Delle donne che vivono in Israele, cinque hanno finora ricevuto la semikhà. La più anziana ha circa 65 anni, la più giovane una trentina. Una di loro è un’attivista sociale molto conosciuta, un’altra, di Tel Aviv, ha un lungo curriculum di impegno nel dialogo interreligioso e lavoro comunitario. Delle studentesse attuali ce n’è una che ha un dottorato alla Sorbona, un’altra all’Institute of Humanities in sociologia delle religioni, un’altra ancora in filosofia alla New York University. In generale arrivano donne molto preparate. Lo stesso per gli uomini: uno ha studiato in yeshiva per dieci anni, un altro è un dirigente scolastico in pensione. L’anno scorso tra gli studenti che hanno ricevuto la semikhà c’è stato il giornalista e islamologo Elhanan Miller, che ha creato un progetto video per raccontare l’ebraismo in lingua araba. Porta avanti un lavoro di dialogo molto importante e penso che faccia la differenza potersi presentare come rabbino.
A Milano ha parlato della sfida di un ebraismo in sintonia col XXI secolo: come si colloca nel contesto contemporaneo la figura del rabbino?
Penso che la sfida più grande riguardi la necessità di un cambio di potere nella dinamica tra comunità e autorità religiose. Attualmente il potere va dall’alto verso il basso e ciò è comodo per le due parti. Chi è in alto può ignorare il cambiamento e chi è in basso può ignorare la responsabilità. È una dinamica malsana che crea alienazione: quando le persone non si identificano con le guide della comunità, c’è una disconnessione. Deve esserci un cambiamento nella gestione dell’autorità e ciò significa prendersi la responsabilità di studiare, indagare la tradizione, non dire: è così e basta. Il mio lavoro, più che le donne rabbino, riguarda la giustizia sociale, la consapevolezza che c’è un problema: ho due studenti, un uomo e una donna, che studiano con lo stesso impegno e talento e alla fine uno riceve la semikhà e l’altra no. Come può essere? Come risolvo questa ingiustizia restando fedele alla Torah? Il rabbinato femminile non è tradizionale, vero. Però secondo la Halakhà non è nemmeno proibito. E poi, siccome la tradizione la prendo sul serio, non riduco tutto l’ebraismo alla Halakhà. L’ebraismo è una civiltà, è cultura, è tradizioni da rispettare. Dare la semikhà a donne e uomini insieme non fa crollare il mondo. Lo rende più bello. Crea persone che porteranno la Torah nel mondo in modo inclusivo e allo stesso tempo totalmente fedele alla tradizione. Chi pensa che la Torah non abbia risposte reali ai problemi contemporanei, ha paura di tutto ciò. E paura vuol dire mancanza di fede.
A Milano ha anche parlato dell’evoluzione storica della formazione rabbinica: ciò che oggi definiamo “tradizionale”, a volte non lo è davvero.
È molto utile mantenere una prospettiva storica. La tradizione di seguire la Halakhà è antica, ma l’ortodossia come movimento cosciente di sé che resiste al cambiamento è un movimento moderno, sviluppatosi in reazione all’Illuminismo. Alcune cose che crediamo tradizionali, come i seminari rabbinici, non lo sono. La formazione tradizionale dei rabbini avveniva nelle yeshivot. Le istituzioni di formazione dei rabbini appaiono in Germania nell’Ottocento: e va benissimo, le cose evolvono ed è giusto così. Quello che è sbagliato è dire che le cose devono restare come sono ora perché così sono sempre state. Non è vero: questo è prendere la realtà attuale e lanciarla nel passato, creando una proiezione artificiale.
Qual è il messaggio essenziale di Beit Har’el?
La Torah che vogliamo insegnare è profondamente fedele alla tradizione e alla Halakhà e ciò fornisce un grande potenziale di creatività; allo stesso tempo, dobbiamo essere aperti a guardare al mondo come a una forma di rivelazione divina, che deve entrare in dialogo con la nostra fede. La mia aspirazione è che un giorno Beit Har’el smetta di interessare tanto i giornalisti, che diventi una scuola tra le tante. Per un mondo più inclusivo per le donne, per gli uomini, per tutti.