Richieste pressanti di aumento del debito pubblico e massicci interventi di Stato: che cosa resta delle politiche neoliberiste ai tempi del Coronavirus
Gli effetti della pandemia sulle politiche economiche iniziano ad apparire evidenti e in queste ore si registrano una serie ravvicinata di proposte volte a difendere le economie nazionali devastate dagli effetti del Coronavirus. Mario Draghi ex presidente della BCE, in un intervento sul Financial Times ha parlato esplicitamente della assoluta necessità di aumentare il debito pubblico e di cambiare mentalità come in tempo di guerra. Negli Stati Uniti il presidente Trump ha messo sul piatto un intervento straordinario da duemila miliardi a sostegno delle famiglie, dei lavoratori e delle imprese… Di questo e di altro abbiamo parlato con Simone Disegni che i lettori di Joimag conoscono bene, giornalista e coordinatore della rivista Reset.
La posizione di Mario Draghi è chiara: “La risposta che dovremo dare a questa crisi dovrà comportare un significativo aumento del debito pubblico. La perdita di reddito nel settore privato, e tutti i debiti che saranno contratti per compensarla, devono essere assorbiti, totalmente o in parte, dai bilanci pubblici“. Una strada percorribile?
Ci vorrà del tempo perché Stati come Germania e Olanda accettino una logica del genere, ovvero quella del condividere il fardello del debito pubblico. Vedremo… Tutto è in evoluzione:in Germania, per esempio, è appena stato infranto il tabù del fare deficit, ma in generale i Paesi del Nord non sono ancora pronti a un significativo aumento del debito pubblico. Detto questo, il parere di Draghi, rilanciato attraverso il Financial Times, è autorevole e credibile a livello mondiale. E qualcosa, prima o poi, smuoverà…
Draghi ha anche detto: “Di fronte a circostanze non previste un cambio di mentalità è necessario in questa crisi come lo sarebbe in tempi di guerra“
Ha anche ribadito che la velocità e la rapidità sono essenziali. La sua è una raccomandazione a fare in fretta e credo che anche Angela Merkel abbia iniziato a capire che si tratta di una questione di vita e di morte…
Guardando oltre, ritiene che l’effetto Coronavirus darà ancora più forza e voce ai movimenti populisti e sovranisti in Europa?
Dipende molto da quale risposta economica-finanziaria sarà in grado di dare la Ue. Mai come adesso ci sarebbe bisogno di una risposta comune a livello europeo e di un piano Marshall. Ovvio, se questa risposta fosse insufficiente e se dovessero prevalere gli istinti nazionali, si andrebbe verso una chiusura nel proprio recinto. La mia sensazione, comunque, è che questa situazione non darà ulteriore fiato ai movimenti nazionalisti e sovranisti: quello che sta succedendo ha mostrato che la malattia colpisce tutti, bianchi, neri, gialli, autoctoni e immigrati, ricchi e poveri. Forse, dentro le persone potrebbe germogliare qualcosa che è l’esatto opposto del sovranismo.
Mentre in Italia eravamo nel pieno dell’emergenza Coronavirus, in Europa si è un po’ fatto finta di nulla: raduni di massa, assembramenti, nessun provvedimento preventivo. Come lo spiega?
Guardi, Paolo Giordano, scrittore e fisico, ha scritto sul Corriere un articolo intitolato Il pregiudizio dell’altrove in cui spiega questa dinamica: fino quando la malattia non è arrivata alla e porte di casa, nessuno è stato in grado di reagire in maniera adeguata. Noi italiani abbiamo assistito a quello che accadeva in Cina pensando che fosse altrove, che tanto non ci avrebbe mai riguardato direttamente. Esattamente come hanno fatto gli altri paesi europei guardando a noi. Nonostante la scienza e tutta i mezzi che abbiamo a disposizione per informarci, gli esseri umani sono fragili e approssimativi.
La risposta dell’America e di Donald Trump è stata eclatante: un piano da duemila miliardi per l’economia americana e uno slogan che la dice tutta sull’approccio all’emergenza: “Gli Stati Uniti non sono fatti per rimanere chiusi. La gente vuole tornare a lavorare e il 12 aprile bisogna riaprire tutto“.
Prendere completamente sul serio Trump è difficile perché cambia idea ogni due ore. C’è però un’altra considerazione: il piano da duemila miliardi non è il piano di Trump, ma il piano di Washington, votato da democratici e repubblicani insieme, il che non è un dettaglio considerata la profonda lacerazione che c’è nella politica americana. Si tratta di una svolta per certi versi rivoluzionaria, perché di fatto la ricetta proposta è una politica statalista con soldi girati direttamente nelle mani dei cittadini come contributi a fondo perso. Potrebbero anche esserci salvataggi di Stato per le aziende in crisi. In definitiva, quello che sta avvenendo è la fine di un paradigma, quello neoliberista, basato sul libero mercato, che ci ha accompagnato negli ultimi trent’anni. In una settimana quel paradigma si è sciolto in un bicchier d’acqua. Bernie Sanders non sarà lo sfidante di Donald Trump alle elezioni di novembre, ma il socialismo in cui si riconosce è rientrato dalla finestra della Casa Bianca e del Congresso americano. Nessuno lo ha ancora detto chiaramente, ma è così.
Giornalista, autore, critico musicale. Dopo numerose esperienze