Il database che raccoglie storie, lingue e modi di viviere delle comunità ebraiche nel mondo. Tra polemiste (donne) ed epidemiologi che scrivono in rima…
Il feuilleton, o romanzo d’appendice, è stato a lungo un formato bistratto della comunicazione letteraria o giornalistica, al punto da assumere la connotazione spregiativa di prodotto culturale dozzinale per il popolino. Ora che, nella cultura contemporanea, il confine tra alto e basso va assottigliandosi – con il popolare che diventa semplicemente pop – anche le forme non tradizionalmente elevate di letteratura divengono oggetto degno di ricerca storica e divulgazione. E ciò vale certo il feuilleton, un fenomeno culturale globale che molto ha ancora da raccontare.
Il termine francese, diminutivo di feuillet, ovvero “paginetta”, indicava la sezione inferiore del foglio di giornale, il piè di pagina su cui erano stampati i pezzi letterari separatamente dalle notizie vere e proprie. A partire dagli anni ’30 dell’Ottocento, gli editori francesi iniziarono a riservare questo spazio staccabile a racconti e romanzi a puntate, grazie ai quali garantire una fidelizzazione del pubblico che, a quel punto, avrebbe voluto sapere come andrà a finire la storia. Ben presto, oltre i confini francesi, il feuilleton divenne un formato irrinunciabile con il quale integrare l’informazione giornalistica: non solo narrativa, ma anche poesia, critica letteraria, satira, costume, opinione.
In questa tendenza globale, la cultura ebraica ha scritto una pagina fitta e, per molti versi, inattesa – alla cui riscoperta contribuisce ora un archivio digitale creato dalle università americane di Michigan e Ohio: Below the Line. The Feuilleton and Modern Jewish Cultures.
Il progetto, coordinato da Naomi Brenner, Matthew Handelman e Shachar Pinsker, si sviluppa intorno a un interrogativo storico e culturale: che cosa c’è di ebraico nel feuilleton? Molto, sarà la risposta. Come da introduzione, tra l’Otto e il Novecento, il genere del feuilleton finì per essere percepito, nell’opinione pubblica, come qualcosa di intrinsecamente ebraico. Da una parte, infatti, il feuilleton divenne il genere prediletto per la comunicazione tra realtà ebraiche attraverso il mezzo stampa. Dall’altra, l’affermarsi di questa rete internazionale di giornalismo ebraico diede adito ad attacchi antiebraici. L’ebraicità, come contenuto oggettivo e come autorialità soggettiva, fu dunque una costante nel fenomeno transculturale del feuilleton.
Visto da una prospettiva interna, il feuilleton ebraico nacque come formula (coloniale, a suo modo) di esportazione della cultura europea nelle aree percepite come periferiche: così, i classici della narrativa francese e tedesca venivano tradotti nelle lingue parlate presso le comunità ebraiche dei Balcani, del Nord Africa, della Palestina ottomana, dell’India britannica. Fin da principio, dalla metà dell’Ottocento, i feuilleton di autori e contenuti ebraici furono caratterizzati da un utilizzo linguistico estremamente vario e ricco: accanto ai più classici vernacoli ebraici come Yiddish e giudeo-spagnolo, troviamo l’allora (ri)nascente ebraico moderno (come nel romanzo a puntate Otiyot porhot, Lettere volanti, pubblicato a San Pietroburgo nel 1886, su Ha-Yom, il primo quotidiano in lingua ebraica), come pure lo sranan tongo, una lingua creola parlata in Suriname che fonde inglese, olandese, portoghese, e lingue africane. Quanto alla diffusione geografica, poi, basta un colpo d’occhio alla mappa riassuntiva dell’archivio online: oltre alle ovvie pubblicazioni nell’Europa continentale, non mancano contributi da Nord e Sud America, Sudafrica, India, Russia. Il database di Below the Line permette di navigare tra gli esempi notevoli di feuilleton ebraici fino ad ora raccolti. In ciascuna voce, la scheda bibliografica (con dati su autore, periodico, data di pubblicazione, lingua, contenuto) è integrata da una scansione digitale del testo, una sua traduzione in inglese e un commento informativo sul contesto storico e culturale del pezzo.
Compulsando l’archivio (in costruzione e dunque aperto a contributi esterni), scoveremo voci di vita e cultura ebraica alquanto in aspettate. È il caso delle Lettere di una parigina (Lettres d’une parisienne), rubrica firmata da Julienne Bloch, scrittrice ed educatrice ebrea francese. Una delle rare penne femminili rappresentate, tra il 1854 e il 1861 Bloch intrattenne i lettori della rivista ebraica L’Univers Israélite de France con arguti e spesso caustici commenti sulla vita pubblica parigina. Il brano selezionato, datato settembre 1855, riflette sui paradossi sociali e civili visibili a contrasto della visita in pompa magna a Parigi della regina Vittoria d’Inghilterra. Bloch intesse la polemica sulla traccia allegorica del politicissimo libro biblico di Ester:
Da parte mia, ammetto, ho provato orgoglio a vedere, nella patria della legge salica e del Codice civile che afferma così civilmente che ‘la donna deve obbedire al marito,’ una persona del mio fragile sesso ricevere tanto onore, infondere tanto riguardo, generare tanto entusiasmo, regnare sugli uomini per diritto di discendenza e per ascendente di meriti e virtù. In questo immenso convivio parigino dell’anno 5616 dalla creazione, la donna si è presa una vendetta eclatante sull’umiliazione subita da Vashti [moglie del re Assuero protagonista di Ester] al festino di Susa del 2407.
Osservando la figura graziosa di Sua Maestà, ho pensato a Ester e alla storia incredibile della sua ascesa al trono, e mi sono detta: Se, per assurdo, la sovrana della Gran Bretagna, su consiglio di un Memucan donna, come Assuero, lei che regna dall’Hodu [India] al Kush [Africa], ripudiasse il consorte e indisse un concorso tra i giovani del suo impero – e se la sua scelta cadesse su un qualche Mardocheo locale, e se si sposassero non in vera fede cristiana ma per la legge di Mosè e d’Israele – cosa direbbero gli Haman del parlamento che, ancora oggi, rinnegano al Barone de Rothschild il posto che gli spetta alla Camera dei Comuni? In verità, avremmo bisogno di un altro Purim per poter dire, come ai tempi di Ester: ‘Gli ebrei ebbero luce, gioia e onore.’ (Ester 8,16).”
Voci di donne polemiste di professione, ma anche pamphlet informativi – uno dei quali non può non incuriosirci, dopo due anni di crisi pandemica. Si tratta di una pubblicazione su una pagina singola (non associata a una rivista, quindi), prodotta a Casablanca negli anni ’40 del Novecento. Il titolo, quasi un déjà-vu, recita Qasida per un’epidemia di febbre tifoide. Curiosamente, l’autore anonimo ha deciso di assolvere al compito di sensibilizzazione igienica attraverso una composizione in rima, come suggerisce il termine qasida, il genere principe della poesia araba. La lingua, stavolta, è il giudeo-arabo, ovvero una variante di arabo codificata in caratteri ebraici. Il messaggio ci suonerà malauguratamente familiare:
Guardate quest’anno buono, in cui è scoppiato il tifo
che infuria in donne e uomini, segnando per sempre l’umanità.Persino i dottori erano sbalorditi: chi si ammalava veniva preso
e portato in ospedale, un su e giù di conoscenti. […]Ebrei, fatevi di buon grado questa iniezione, venuta da vicino, dal mare.
Vi ammonisco con un consiglio morale: fatevela, e state in salute. […]Gente, mettetevi in isolamento; andate dai dottori e sopportate.
Dalla febbre tifoide e dalla sua razzia potrete così scampare.”
Possiamo ritrovare molto del vissuto moderno, in queste schegge di storia ebraica – e imparare ancor di più dal patrimonio multiforme del feuilleton ebraico: tante lingue, tanti luoghi, tante storie. Ai tempi, nostri, di sovraccarico di informazione, è bene ricordarlo: anche i media minori fanno la storia.
Ilaria Briata è dottore di ricerca in Lingua e cultura ebraica all’Università Ca’ Foscari di Venezia. Ha pubblicato con Paideia Editrice Due trattati rabbinici di galateo. Derek Eres Rabbah e Derek Eres Zuta. Ha collaborato con il progetto E.S.THE.R dell’Università di Verona sul teatro degli ebrei sefarditi in Italia. Clericus vagans, non smette di setacciare l’Europa e il Mediterraneo alla ricerca di cose bizzarre e dimenticate, ebraiche e non, ma soprattutto ebraiche.