Le parole che definiscono Israel come popolo e Israele come Stato
Un tema variamente oggetto di dibattito, tra lezioni e conferenze, al dipartimento di pensiero ebraico dell’Università Bar Ilan, lo scorso anno accademico, è stato quello della relazione tra ebraismo e sionismo. Tale nodo emergeva, ad esempio, nella conferenza tenuta dal filosofo Michael Walzer, il quale se da una parte faceva cenno alla potenziale tensione tra la definizione di Israele come stato democratico e quale stato ebraico, dall’altro proprio ai principi dell’ebraismo (a partire dalla Torah) e all’esperienza storica del popolo ebraico (dall’espulsione dalla Spagna cristiana alle persecuzioni nazifasciste) faceva appello per delineare una politica dell’accoglienza e dell’integrazione in tema di migrazioni non ebraiche verso Israele.
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Analogo nodo, ancorché su uno sfondo teorico differente, emergeva in una conferenza dove erano intervenuti filosofi contemporanei quali Shmuel Trigano e David Banon. Ambedue, facendo riferimento alla cosiddetta Scuola di pensiero ebraico di Parigi – insieme di intellettuali ebrei francesi, tra cui André Neher e Emmanuel Levinas, che avevano inaugurato una nuova attenzione teoretica alle fonti della Tradizione – ponevano in risalto la necessità di coniugare la ritrovata sovranità ebraica in terra di Israele con un rinnovamento spirituale di Israel. Seguendo un’osservazione sovente espressa da Banon vi sarebbe una certa egemonia, proprio nel mondo accademico israeliano, di un approccio “fossilizzante” alle Fonti della Tradizione, tale per cui queste sarebbero perlopiù oggetto di studio descrittivo (cosa dicono le fonti circa determinati soggetti) e non già esperienziale (cosa dicono le fonti a noi in questo momento, in base alle esigenze del vissuto presente, ed eventualmente lungo il filo conduttore di temi che esulano dall’economia di pensiero della Tradizione stessa).
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L’idea di fondo è che quell’approccio esistenziale, al crocevia tra fenomenologia ed ermeneutica, che ha segnato molto del menzionato dibattito francese, potrebbe costituire occasione, nell’Israele contemporanea, per ripensare diversamente il rapporto tra ebraismo e sionismo. Non solo docenti e filosofi hanno espresso la loro opinione in merito a quest’ultimo tema. Una mostra-concorso indetta dal Dipartimento sul tema di “ebraismo oggi” permette di cogliere, attraverso le immagini proposte da due studentesse, un ulteriore termine in gioco nel rapporto tra sionismo ed ebraismo, quello di integrazione, così offrendoci lo spunto per una riflessione più ampia.
La foto di Reut Barry (in apertura dell’articolo) rimanda con immediatezza a tale tema, riproducendo una sessione di studio della comunità ebraica (beta Israel, spesso conosciuti con la dicitura di Falashà) della città di Gondar, nell’Etiopia settentrionale. Reut, ci spiega, ha eseguito lo scatto durante un periodo di volontariato nella comunità, quando questa si stava preparando per la sua alyah collettiva. Al di là delle difficoltà che dovrà affrontare al suo arrivo in Israele – proteste come quella della scorsa estate o del 2015 da parte della comunità etiope ne sono testimonianza – il messaggio che l’immagine sembra trasmettere è l’auspicio all’unità, all’inclusione. Qui il sionismo è dunque colto nella sua sfida a integrare le diverse componenti del popolo ebraico, raccogliendole in Terra di Israele – non senza qualche frizione (il primo a riconoscere l’ebraicità dei beta israel fu il rabbino capo sefardita Yossef Ovadia, poggiandosi su una decisione rabbinica risalente).
Nella foto di Rotem (qui sopra) siamo, invece, rimandati a un aspetto speculare ed opposto: la difficoltà dell’integrazione nell’Israele contemporanea. Come ci spiega l’Autrice dello scatto, infatti, la scelta di ritrarre, in quella che vorrebbe essere un esplicito richiamo ad alcuni poster di Bennetton, i pezzi di scacchi – il Re bianco e la Regina nera – rimanderebbe a quello che, secondo le parole di Rotem, costituisce uno stigma ricorrente, in particolare in certi ambienti dati, religiosi: la percezione di un ‘degradamento’ di status, per così dire, dell’uomo bianco che abbia come compagna una donna ‘variamente’ non bianca. Difficoltà interna al mondo ebraico, ossia attinente le forme di diffidenza se non razzismo tra le sue diverse componenti, certamente. E, tuttavia, difficoltà che non può non portare a interrogare le forme di razzismo presenti nella società israeliana tout court.
A partire da queste due foto siamo dunque invitati, per tornare al punto di avvio del contributo, a ragionare sui rapporti tra ebraismo e sionismo – o, se si vuole, sull’identità ebraica quale si delinea nella vita concreta in terra di Israele – a partire dal tema dell’integrazione, dei modi di interazione tra le differenti componenti dell’ebraismo nonché (aggiungiamo noi) della società israeliana nel suo complesso. Il sionismo come fase storica in cui, con l’immigrazione e ritorno di molte comunità diasporiche, avviene, con luci e ombre, l’integrazione. Il sionismo, anche, come fase storica in cui il popolo ebraico, avendo come soggetto collettivo un accesso diretto alla gestione della cosa pubblica, si trova chiamato a un’inedita responsabilità, verso le sue diverse componenti come verso le minoranze non ebraiche. Attraverso il filtro del tema dell’integrazione cogliamo, dunque, quali sfide ponga il sionismo all’identità ebraica contemporanea. Dovremmo tuttavia chiederci, lungo il filo conduttore di alcuni spunti offerti, rispettivamente, dagli interventi menzionati di Walzer sul piano della filosofia politica, e da Trigano e Banon sul piano di quella teoretica, che cosa abbia da dire l’ebraismo, colto nel senso esperienziale menzionato con Banon, di fronte a tali sfide e – specificatamente – di fronte al nodo dell’integrazione.
Alla domanda potremmo rispondere, analiticamente, individuando interrogativi distinti: cosa si intenda con unità (e identità), da una parte, e con pluralità (e alterità) dall’altra. Ripercorrendo l’auspicio sotteso alle due foto, potremmo essere anzitutto sollecitati a riconoscere, e approfondire, l’accezione di unità rinvenibile nella Tradizione (sempre qui letta in una prospettiva piuttosto filosofica che non storiografica): l’unità del genere umano di fronte al Nome, da una parte, l’unità di Israel, nel suo passaggio da conglomerato di tribù a popolo che ha stipulato un’Alleanza, dall’altro. Tuttavia – qui ripercorrendo alcune delle analisi offerte dallo psicoanalista francese di scuola lacaniana Gerard Haddad (Dans la main droite de Dieu, 2015) – unità (identità) pensata all’insegna della pluralità (alterità). Di contro al modello dell’identità omogenea, matrice di ogni fanatismo – scrive Haddad, riprendendo una lezione di Leibowitz a proposito della torre di Babele –, l’ebraismo è attaccato “al valore del particolare”, inteso quale capacità di riconoscersi nel proprio essere parziali, de-limitati. Non già perché la realtà ebraica sia scevra dal fanatismo (individuato da Haddad in certe forme di mescolamento di sionismo e messianesimo e, più strutturalmente, in ogni tendenza anti-nomica, finalizzata ad abolire la Legge) bensì perché presenta, nelle sue Fonti, alcuni strumenti per pensare (e vivere) l’universale – anzitutto quale identità e unità del genere umano – attraverso il particolare, e non già per mezzo della sua soppressione. Un’analisi, qui appena accennata, che, ci pare, potrebbe fornire alcuni spunti anche nella riflessione sui concetti di unità e identità da rivendicare per Israel, come popolo, e per Israele, come soggetto istituzionale collettivo.
Cosimo Nicolini Coen ha studiato alla Statale di Milano, dove si è laureato in Ermeneutica filosofica e Filosofia del diritto, e all’Università Jean Moulin III, a Lione; attualmente è dottorando a Bar Ilan. Ha pubblicato il libro Il segno è l’uomo per Durango Edizioni.