Da Ancona a Pesaro, da Senigallia a Urbino: viaggio nella storia delle comunità ebraiche marchigiane
Ci sono cimiteri che è bello visitare per motivi storici e monumentali, altri per ragioni paesaggistiche. Quello ebraico di Ancona non si fa mancare niente. Sorta di museo a cielo aperto con le più antiche sepolture risalenti al Cinquecento, si trova anche in una posizione indiscutibilmente panoramica. Noto come Campo degli Ebrei, dalla metà degli anni Novanta è stato interessato da un progetto di recupero terminato nel 2005 che ha riguardato sia le recinzioni sia il recupero delle lapidi. Si trova nel cuore di uno dei luoghi più belli di Ancona, nel Parco del Cardeto, tra l’omonimo Monte, il Colle dei Cappuccini e la falesia a picco sull’Adriatico. Digradante verso Gerusalemme, questo luogo dominato dal verde del prato e dall’azzurro del mare esiste come cimitero dalla fine del XV secolo, da quando cioè la già importante comunità ebraica anconetana, presente in città almeno dall’anno Mille, ottenne nel 1428 l’autorizzazione dal Comune. Sarebbe rimasto attivo fino al 1863, anno della sua cessione alle autorità militari, ingolosite dalla sua posizione strategica. Tra i più antichi e grandi cimiteri ebraici in Italia e in Europa, il Campo degli Ebrei si distingue non solo per il numero delle tombe, oltre un migliaio, e per il valore di chi che vi è stato sepolto, ma anche per la dislocazione delle lapidi, di cui sono oggi visibili circa un centinaio. Tutte con le iscrizioni rivolte a est, queste sono collocate lungo il crinale della collina a fasce orizzontali e parallele, con quelle ottocentesche, le più recenti, poste a valle. Le più antiche risalgono invece al Cinquecento e si distinguono per la loro semplicità, mentre quelle settecentesche sono riconoscibili per la conformazione a cippo cilindrico.
Della lunga e gloriosa storia della comunità ebraica anconetana non rimangono però solo i cippi, ma anche una doppia sinagoga in quella che era stata la via principale del ghetto, al numero 14 di via Astagno. Particolarmente attivi in città grazie alla rilevanza del porto, gli ebrei di Ancona erano di origine sia italiana sia levantina, dall’arrivo di spagnoli e portoghesi dalla fine del Quattrocento. La loro libertà era stata qui come altrove compromessa dalla presenza dello Stato della Chiesa, che dopo avere annesso la città nel 1532, aveva istituito formalmente il ghetto nel 1555. Al suo interno furono rinchiuse circa mille persone, tra cui non solo ebrei anconetani, ma anche quelli che fino a quel momento avevano vissuto nelle campagne o nei borghi vicini. Dell’ampio quartiere destinato a essere chiuso al tramonto oggi non è rimasto molto di riconoscibile, dato che nel corso del Novecento tutta la zona ha subito numerose e profonde trasformazioni. Oltre alla struttura urbanistica, di cui solo a tratti si possono oggi distinguere i tipici vicoli stretti e bui, lo stravolgimento del secolo scorso ha cancellato anche le sinagoghe più antiche. Le due di cui si diceva sopra sono di rito levantino e italiano e occupano due piani di un edificio costruito tra il 1873 e il 1876, in epoca di piena emancipazione, quando gli ebrei in città avevano toccato le 1.900 unità, circa il 6 per cento dell’intera popolazione.
Posta al primo e secondo piano del palazzo di via Astagno, la sinagoga di rito levantino è stata l’ultima a essere costruita in città dopo che la precedente era stata distrutta dalle truppe pontificie nel 1860. Al piano rialzato, invece, dal 1932 si trova il tempio di rito italiano, qui trasferito dopo che il precedente era stato distrutto con il resto dell’antico quartiere. Entrambe a pianta rettangolare, con tevah e aron contrapposti sulle due pareti più corte, le sale di preghiera sono visitabili solo in situazioni eccezionali vista anche l’esiguità della comunità locale, ridotta ormai a poche centinaia di persone. Niente a che vedere con gli antichi fasti, certo, ma già meglio rispetto a Senigallia e Urbino, le cui comunità sono state assimilate a quella anconetana, o a quella di Pesaro, ormai estinta.
Nonostante l’assenza di ebrei in città, Pesaro non dimentica comunque la propria eredità giudaica. Con un passato di gloria legato all’epoca dei duchi di Montefeltro prima e dei Della Rovere poi, la città aveva a sua volta subito l’abominio del ghetto, istituito nel 1634 dopo che nel 1632 la Chiesa aveva annesso anche questo centro al proprio Stato. Prima di allora, la città aveva subito indirettamente le conseguenze di un fatto orribile accaduto ad Ancona. Nel 1556, in piena Inquisizione, la Chiesa aveva ucciso 25 ebrei, impiccandoli prima e bruciandoli poi sul rogo in Campo della Mostra (oggi Piazza Malatesta). L’accusa era quella di professare clandestinamente la propria fede dopo la conversione forzata al cristianesimo. Nonostante i tempi non certo favorevoli alla vita degli ebrei, l’atrocità di questi fatti aveva suscitato comunque una certa indignazione al di fuori degli ambienti cristiani, arrivando fino al sultano ottomano Solimano il Magnifico. Il porto di Ancona era stato così boicottato e i traffici dal Levante erano stati spostati a Pesaro, che era giunta nel 1569 a raccogliere la comunità ebraica più numerosa del Ducato. Subito dopo, però, si sarebbe aperta la parentesi buia del ghetto, chiusa solo nel 1797 con l’arrivo dei francesi. Con l’allontanamento di questi sarebbero seguite le rappresaglie dei sanfedisti, che avevano saccheggiato case e sinagoghe.
Dell’antico ghetto, istituito in una delle aree più malfamate della città, fra le attuali via Tortora, Levi Nathan e Castelfidardo, oggi è difficile distinguere l’antico tessuto a causa degli sventramenti architettonici operati negli anni Trenta del Novecento, ma resta comunque la possibilità di visitare quella che era stata la sinagoga di rito italiano. Aperto alle visite tutti i giovedì da giugno a settembre e nell’ultima domenica degli altri mesi dell’anno, il tempio si trova in via delle Scuole 23. Rimasto a lungo chiuso per restauri, presenta come spesso accade una facciata esterna anonima, difficilmente distinguibile tra gli altri palazzi, con due portoni d’accesso, uno più grande per gli uomini, l’altro per le donne. La sala di preghiera è posta al primo piano, mentre al pianterreno ci sono il forno per le azzime, la vasca per i bagni rituali e lo spazio per le abluzioni. Dalla pianta rettangolare e il soffitto a volta, la stanza è priva di panche e di arredi dato che ormai non è più utilizzata per il culto. Il suo aron in legno dorato risalente al 1708 è stato trasferito oltre cinquant’anni fa a Livorno, il balconcino della tevah si trova ad Ancona, mentre le grate del matroneo sono a Gerusalemme. L’interno merita comunque di essere visto per l’eleganza della struttura, i marmi di pavimento e colonne e soprattutto per il maestoso soffitto decorato a stucco con rosoni e serti di quercia. Ai lati del ballatoio si possono inoltre ammirare due grandi tempere ottocentesche, l’una raffigurante l’accampamento ebraico ai piedi del Monte Sinai, l’altra una rappresentazione allegorica di Gerusalemme in forma femminile.
Sempre a Pesaro, e sempre nei giovedì pomeriggio estivi, vale la pena di fare un salto anche al cimitero ebraico, raggiungibile percorrendo la strada panoramica di San Bartolo, sul versante orientale del colle. Affacciato sul mare come quello di Ancona, riporta circa 150 lapidi, anche se si suppone che le inumazioni siano in numero maggiore ma che a causa di un divieto pontificio seicentesco non riportino epigrafi. Restaurato all’inizio di questo secolo, il cimitero si sviluppa su un terreno in forte pendenza su cui si arrampicano scalinate e passerelle bordate dalla vegetazione. Le sepolture più antiche, perlopiù a stele o a cippi cilindrici con iscrizioni in ebraico e decorazioni sobrie, si trovano nel settore più alto, mentre la porzione più recente, successiva all’emancipazione, accoglie sepolcri frutto delle influenze della popolazione cristiana con tombe più monumentali ed elementi simbolici non ebraici, come urne, lampade, fiaccole e colonne spezzate.
Pesaro e Ancona non sono comunque le uniche due tappe di un possibile viaggio nelle Marche ebraiche. A questo proposito va ricordato che all’inizio del 2021 la Regione ha approvato una legge, intitolata appunto Itinerario ebraico marchigiano, volta a sostenere iniziative di tutela, recupero e promozione dell’eredità ebraica di ben 25 comuni. Tra questi troviamo anche Senigallia, i cui pochi cittadini ebrei fanno riferimento alla comunità di Ancona, e Urbino, dove invece non esiste più una comunità.
Come nel caso delle altre due città trattate, anche a Senigallia quello che era stato il quartiere ebraico ha subito nei secoli notevoli trasformazioni. Imposto nel 1633 dopo l’annessione del 1632 allo Stato Pontificio, il ghetto rinchiuse nella zona posta tra Piazza del Duca e piazza Roma una comunità formatasi sotto la spinta dei rapporti commerciali favoriti dalla presenza fin dal Trecento tra le più importanti d’Europa. Costruita nel 1634, l’unica sinagoga oggi superstite si trova in via dei Commercianti 20, la sola strada che può ancora dare un’idea di come fosse un tempo il quartiere. Frutto di due ricostruzioni, l’una successiva alla devastazione operata dai sanfedisti dopo l’uscita di scena dei francesi, nel 1799, l’altra al terremoto del 1930, può essere visitata facendone richiesta alla Comunità Ebraica di Ancona.
Ultima tappa essenziale per farsi un’idea della gloria passata degli ebrei marchigiani è Urbino. Anche qui la storia è stata segnata da periodi di tranquillità, come quella durata fino al 1508 sotto di duchi di Montefeltro, altri più incerti, sotto i Della Rovere, e quindi di costrizione, sotto lo Stato Pontificio. Il ghetto fu qui istituito nel 1633, data a cui seguirono due secoli di estrema povertà per la popolazione ebraica. Con la restaurazione gli ebrei abbandonarono l’antico quartiere per partecipare all’emancipazione portando a un progressivo esaurimento della comunità.
Pure qui la sinagoga si distingue a fatica dal resto del tessuto urbano, la facciata si può però riconoscere per la presenza di tre portoni: quello centrale conduce direttamente al vestibolo, quello a destra scende al pozzo e al forno per le azzime pasquali, mentre quello a sinistra porta al matroneo. Per visitarla si può anche in questo caso fare riferimento alla Comunità di Ancona. Al suo interno si potrà ammirare una struttura a tempietto colonnato a pianta circolare di gusto neoclassico, che con la ristrutturazione del 1857 aveva sostituito l’aron, con la nuova tevah posta sul fronte opposto della sala. Lo stile complessivo è molto vicino a quello delle chiese cristiane. In particolare, gli stucchi e le decorazioni della volta ricorderebbero alcuni motivi ornamentali del duomo cittadino. A questo proposito leggenda vuole che sia stato l’allora arcivescovo, in rapporti di stima con il presidente della Comunità, a consigliare le manifatture per il rifacimento ottocentesco.
Camilla Marini è nata a Gemona del Friuli (UD) nel 1973, vive a Milano dove lavora da vent’anni come giornalista freelance, scrivendo prevalentemente di cucina, alimentazione e viaggi. Nel 2016 ha pubblicato la guida Parigi (Oltre Edizioni), dove racconta la città attraverso la vita di otto donne che ne hanno segnato la storia.
Trattazione interessante, conosco i luoghi citati per la mia continua ricerca delle tracce della tradizione ebraica .
Da quando ho collaborato alla tesi di mia nipote sul Ghetto di Lugo nel 1700 ho un grande interesse per questa parte fondamentale della nostra storia e saluto con piacere la pubblicazione. Mi piacerebbe conoscere anche sugli Ebrei di Romagna, e in particolare della comunità di Bertinoro da cui nacque nella seconda metà del 1400 il grande Obadiah Bartneura, autore del più importante (omonimo) commento della Mishnah (la Legge orale), oggetto di studio nelle scuole rabbiniche di tutt’Europa. Bartneura è il nome di Bertinoro nel nostro dialetto arcaico.