Analisi del meccanismo elettorale negli Usa e delle sue ricadute politiche, sociali ed economiche
Lenti come delle lumache. Mentre le piazze si fanno agitate e, quindi, a modo loro veloci, aggressive, comunque agitate e disordinate. “Peggio che in Italia”, direbbe qualcuno. Beninteso, si sa che la più grande democrazia del mondo (o almeno ciò che ci è ancora presentato in questi termini) sia tale anche perché il suo sistema elettorale presenta già in origine una complessità che, ai nostri occhi, risulta essere non solo farraginosa ma incomprensibile. Forse intollerabile. È un circuito statale e al medesimo tempo federale, poiché somma in sé anche e soprattutto i circuiti nazionali, che tra di loro sono molto diversi nel raccogliere ed esprimere le preferenze. Un circuito pensato due secoli fa, mai realmente messo in discussione né, tanto meno, riformato. Possiamo quasi farci del sarcasmo sopra, se non fosse che stiamo parlando del Paese che, fino a prova contraria, determina una parte rilevante degli equilibri del mondo. Almeno, ancora al momento corrente. Poiché se dovesse invece seguire la Cina, da certuni incautamente indicata come “modello” di velocità e determinazione (“sì che loro sono bravi, guarda come hanno gestito la pandemia”), potremmo recitare il de profundis della democrazia come sistema pluralista.
Peraltro, tra le tante difficoltà che stiamo vivendo, ci sono anche quelle generate da coloro che accarezzano sempre e comunque le scorciatoie. Meglio quindi non dare alcun credito a chi, d’abitudine, crede che per le situazioni complesse possa darsi sempre una soluzione “semplice”. Ovvero, banale. La democrazia non è mai banale, beninteso. Quindi, porta con se stessa un buon grado di sofferenza. Sperando che ciò non si trasformi in insofferenza. Va da sé che il seguire i risultati, per meglio dire lo snocciolamento dei dati che arrivano di Stato in Stato, ha comunque qualcosa di esasperante. Ci attendevamo un “presidente” entro la mattina del 4 novembre ed invece ci troviamo dinanzi alla (prevedibile) situazione nella quale alla formale proclamazione di un vincitore, o eventualmente alla sua mancata proclamazione, si accompagnerà comunque una lunga battaglia giudiziaria, che quasi senz’altro chiamerà in causa la Corte suprema federale. Non a caso ora integrata da un nuovo membro, Amy Vivian Coney Barrett, che se non è detto che sia da subito di osservanza strettamente trumpiana (cosa che, al momento, è infatti tutta da verificare) senz’altro è di ascendenza conservatrice.
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Ma prima ancora di arrivare a quell’esito c’è di mezzo una lunga fase di transizione, dalla presidenza uscente a quella entrante, che già da adesso si manifesta come aspra. La tempistica istituzionale è chiara, anche a fronte della sicura contesa legale e del dramma politico che sta mondando da sé: a spoglio ultimato, con la fine di questa settimana, il passo successivo sarà l’8 dicembre, la deadline entro la quale dovranno essere state risolte le eventuali dispute e le controversie, a partire da quelle che derivano rispetto al contesissimo voto postale, che in questa tornata ha coinvolto un grande numero di elettori. Sia l’interpretazione che gli eventuali riconteggi dei voti nei singoli Stati, così come le cause nei tribunali nazionali e un possibile ricorso alla Corte suprema, dovranno a quel punto essere arrivate ad una loro definitiva soluzione. La quale, in tutta plausibilità, non potrà che accentuare i tratti divisivi già ad oggi correnti, poiché non sarà il frutto della decisione in un arbitrato consensuale bensì la scelta autoritativa di un organismo che inevitabilmente sarà obbligato ad imporre la sua volontà. Beninteso, il problema non è un tale pronunciamento ma il fatto che si possa giungere ad esso, ossia le attuali premesse politiche, basate sull’esasperazione, coltivata ed alimentata da una controparte fortemente fazionalizzata.
Il 14 dicembre, circa una settimana dopo la deadline, il collegio elettorale dei 538 grandi elettori procederà quindi all’elezione del presidente. Ognuno dei due candidati, Stato per Stato, indicherà i grandi elettori che dovranno rappresentarlo. I quali, a loro volta, voteranno per la presidenza. Si tratta di un meccanismo di riscontro, poiché i grandi elettori sono il risultato del voto popolare, il quale si esprime sulle candidature presidenziali, determinando quindi il colore politico degli stessi grandi elettori e, con esso, la presidenza medesima. Il 3 gennaio 2021 dovrà debuttare il nuovo Congresso, il 117mo della storia statunitense, insediandosi sia la Camera dei rappresentanti che il Senato degli Stati Uniti. Nel mentre, qualora le controversie sul candidato vincitore non fossero ancora state sciolte, allora toccherà alla Camera, il 6 gennaio, decidere con un unico voto, a quel punto insindacabile. La composizione attuale, quella uscente dalle urne, vede 208 democratici e 193 repubblicani. Tra dicembre e gennaio dovrebbe inoltre realizzarsi il processo di transizione, ossia quell’insieme di adempimenti formali per il trasferimento di poteri da una presidenza all’altra. Si tratta di una serie di atti che avvengono dopo ogni elezione, quand’anche sia riconfermato il presidente uscente. Nel caso dell’ingresso di Joe Biden, ad occuparsi di tali adempimenti saranno i rispettivi «transition team» dei due contendenti.
Detto questo, è possibile formulare qualche prima considerazione di merito sul clima esacerbato che si respira, nel mentre si attendono ancora gli esiti ultimi del confronto elettorale. Che la divisività sia un tratto marcato dell’Amministrazione Trump era risaputo pressoché da sempre. Ne ha contraddistinto stile e sostanza, soprattutto all’interno degli Stati Uniti prima ancora che nelle relazioni internazionali, dove invece un certo grado di pragmatismo e di opportunismo ha invece spesso dominato. Segnali di fumo, non propriamente nel senso della pace, erano già arrivati ben prima della prova elettorale, lasciando intendere che l’attuale inquilino della Casa Bianca sia poco o nulla propenso a riconoscere un risultato che non sia a lui favorevole. Questo atteggiamento è peraltro in piena sintonia con un mandato che è stato esercitato per quattro anni giocando attraverso forzature e intemperanze. Non solo ascrivibili ad un carattere, quello dello stesso Donald Trump, nel quale narcisismo ed egocentrismo rasentano comunque il livello dell’intolleranza nei confronti di chiunque e qualsiasi cosa non si adeguino al suo passo e ai suoi interessi.
L’ossessivo rimando del presidente uscente al «voto rubato» (anch’esso peraltro già annunciato, come una sorta di profezia che si autoavvera), ai tranelli e all’imbroglio che i suoi avversari gli avrebbero giocato, al «complotto di banchieri e mass-media» insieme al richiamo al «popolo», ossia alla piazza che dovrebbe travolgere l’ordine costituito laddove questo non soddisfi le attese del candidato repubblicano, è parte di un meccanismo di rappresentazione e comunicazione tipico delle destre radicali. Di cui Trump è espressione, non certo solo da oggi. Interpretare le proprie sconfitte attraverso la costruzione retorica della «pugnalata alle spalle», dell’inganno che gli “altri” avrebbero giocato ai danni di un’immaginifica collettività, altrimenti coesa rispetto al proprio esponente, il “capo”, fa infatti parte, dal primo Novecento in poi, di quel meccanismo che è stato definito come sovversivismo delle classi dirigenti. Che è tale quando le medesime élite, richiamandosi alla collettività, rifiutano le regole che esse stesse si sono date per governare la società.
Più in generale, ciò che queste elezioni rivelano, nel loro svolgersi ancora relativamente ordinato, è soprattutto la radicalizzazione delle posizioni politiche. Non si tratta della sola divisione tra sinistra e destra, democratici e repubblicani, gruppi etnici contrapposti (come quant’altro di sufficientemente prevedibile), ma di un più generale processo di polarizzazione che attraversa gli Stati Uniti e che, in tutta probabilità, è parte anche di un disagio presente in Europa così come in altre parti del mondo. Riflettendosi sulla tenuta sia delle istituzioni che della già faticosa coesione sociale. Il confronto elettorale americano, con i suoi toni esacerbati e le sue note esagitate, non ha fatto altro che lasciare emergere un qualcosa che era rimasto fino ai tempi recenti tra le pieghe del dibattito, trasformando quindi il confronto in una dilacerante contrapposizione. È questa la profonda radice di ciò che chiamiamo «sovranismo». La stessa presenza sulla scena pubblica di gruppi che invocano la soluzione dei contenziosi con il ricorso alla forza, fatto di per sé inquietante anche se manifestazione, malgrado tutto, di enclave ristrette, è un indice della rabbiosità di questo tempo.
Prima di vaticinare la “fine della democrazia”, tuttavia, si dovrà vedere come e quando essa riuscirà, attraverso le sue istituzioni, a porre rimedio alle inevitabili difficoltà che stanno caratterizzando questa età pandemica, dove le trasformazioni che si sono innescate non hanno ancora un orizzonte chiaro ma da subito comunicano, a un grande numero di persone, che le loro certezze di un tempo sono comunque destinate a tramontare. Non si sa bene in cambio di cos’altro. È peraltro invece certo che il nocciolo dei problemi sia prima di tutto di ordine sociale: l’instabilità collettiva, il sentirsi franare la terra sotto i piedi, erano già stati all’origine della stessa candidatura di Trump nel 2015. Ritenuta inverosimile e di tenue speranze, si era poi trasformata, passo dopo passo, nell’ascesa al trono di un uomo che ha scarsa o nulla confidenza con gli strumenti e i criteri della mediazione democratica. Risultando convincente, ai suoi sostenitori di sempre e a quanti lo hanno votato in queste elezioni, proprio per quella commistione di personalismo, di caudillismo, di intransigenza spesso reversibile, a tratti opportunista (su molti dossier Trump ha rivelato di avere idee mutevoli, quasi occasionali, senz’altro influenzabili dalle circostanze del momento), che invece sono sabbia negli occhi dei suoi avversari.
Trump registra, a modo suo, la crisi non della democrazia bensì della politica come terreno dove il conflitto tra interessi contrapposti viene mediato e ricomposto. Ne è una sorta di scomposto sismografo. Ed una tale crisi deriva soprattutto da una sproporzione, a tratti quasi incolmabile, tra le ricchezze dei pochi, prodotte da un’economia digitale e finanziaria in oramai avanzato stato di sviluppo, con i trend ai quali il resto della popolazione è vincolato, misurando quest’ultima il declino della propria condizione di residuo benessere. Se non si ricollega un orizzonte, quello materiale, all’altro, quello della manifestazione dei sentimenti e delle opinioni politiche, si rischia altrimenti di non capire nulla.
A tale riguardo, la candidatura democratica di Joe Biden rivela ancora una volta la debolezza del partito che la esprime. Non sarà la presidenza di un uomo oramai molto anziano, legato profondamente all’apparato politico ed istituzionale di Washington, a raccogliere le tensioni e a dare un indirizzo compiuto, soddisfacente, lenitivo ai fermenti che stanno attraversando il Paese. Biden, in questi giorni difficili, si presenta come il garante della trasparenza e della legalità del processo politico. È la posizione assunta dalla leadership del suo partito. Alla quale si attaglia il prevedibile grigiore della «governance», nel mentre invece i tanti piani bassi della società americana sono in subbuglio e chiedono politica, decisioni, azioni e reazioni, non inviti quietistici, a tratti quasi soporiferi. Se le attuali sollecitazioni alla calma da parte del candidato democratico rispondono, in questo preciso frangente, alla necessità di non cadere nella trappola delle scontro che Trump sta alimentando, confidando invece nel giudizio definitivo, in sé dirimente, delle istituzioni che saranno chiamate eventualmente a sciogliere i nodi della contrapposizione, è molto difficile credere che la volta in cui fosse definitivamente proclamato presidente Biden sia in grado di comprendere e, soprattutto, soddisfare, i bisogni come i disagi che la società americana sta esprimendo. Rivelandosi divisa come forse lo era stata solo ai tempi dell’Ottocento, quando la ricucitura passò attraverso una lunghissima stagione di violenze intestine, fino ad arrivare ad una dilacerante guerra civile. I tempi odierni non sono quelli trascorsi, beninteso, e affidarsi all’apocalitticismo sarebbe esclusivamente un esercizio compiaciuto, quello che costituisce l’altra faccia della medaglia del trambusto che gli sconfitti stanno alimentando. Rimane tuttavia lo stato di tensioni che attraversa l’intera collettività e l’insufficienza di qualsiasi risposta che non si doti di un orizzonte di respiro che non sia esclusivamente concetrato sul “limitare i danni”, giorno dopo giorno.
Va aggiunto che a questo concentrato di contraddizioni, il sistema della comunicazione – a partire da quell’universo misterioso ed iniziatico che lo affianca, ossia il sondaggismo, una vera e propria arte divinatoria – ha ancora una volta risposto con la sua sostanziale fragilità. L’intera circuito dei mass-media è andato a ricalco della confusione, spesso alimentandola, comunque facendone da camera sia di compensazione che di amplificazione. L’informazione, in questi casi, è tanto strategica quanto complicata. Ma ineludibile. Poiché proprio chi vuole alterare o adulterare le regole del gioco, quand’esso non raccolga più il segno del proprio favore, richiama all’adunata collettiva attraverso il ricorso a quell’esasperazione di cui l’immaginazione allucinata è una parte fondamentale. Un’immaginazione collettiva che si alimenta di strepitii ed urla. Una ragione di più, pertanto, nel ritenere che l’informazione debba essere il «cane di guarda» di quei poteri che, invece, dall’invisibilità così come dalla confusione, traggono i maggiori vantaggi. Tema delicatissimo, quest’ultimo, in quanto richiama il nesso tra opinione, libertà e giustizia che è al centro dell’età dell’economia digitale, nella quale siano entrati, senza neanche accorgercene appieno, da un po’ di tempo. E dalla quale non usciremo mai più, trattandosi non solo dell’orizzonte materiale ma anche di quello sociale, civile e culturale a venire.
Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.