La recensione del romanzo del 2009, finalmente disponibile in italiano
Esce finalmente in italiano per la casa editrice La Giuntina Verso casa, romanzo d’esordio dello scrittore Assaf Inbari. Pubblicato in Israele nell’ormai lontano 2009, il libro ha suscitato immediatamente un forte interesse da parte della critica, e non solo. È noto, ad esempio, il plauso con cui Amos Oz ha salutato l’uscita di questo romanzo, da lui definito “il miglior libro che abbia mai letto sulla nascita e il declino del kibbutz e sulla conseguente, profonda trasformazione dell’anima d’Israele”. Ovviamente il sigillo di Amos Oz, profondo conoscitore della realtà israeliana in generale e del kibbutz in particolare, non può essere omesso. Ciò nonostante, riguardo all’opera prima di Inbari ha scritto altrettanto bene il critico Arik Glasner, affermando che l’autore è riuscito a inventare qui un genere letterario del tutto nuovo, vale a dire la biografia di un luogo. Benché in Verso casa fiorisca una ridda di personaggi, tanto da rendere necessario premettere alla narrazione una lista dettagliata dei nomi principali, tuttavia, il reale protagonista della vicenda è il luogo. E non si tratta di un luogo qualsiasi. Assaf Inbari racconta, infatti, della Valle del Giordano, situata non lontano dal lago di Tiberiade, là dove il sogno sionista ha trovato il proprio compimento nella costituzione dei primi kibbutzim, in una fase costitutiva inclusa tra il 1910 e il 1949. Deganya, Kinneret Kvutzah e numerosi altri kibbutz ‒ nomi divenuti ormai leggendari ‒ sono tutti concentrati in quell’unica regione.
Tra questi c’è anche Afikim, fondato nel 1932 da un nucleo dello Shomer Ha-Tzair proveniente dalla Russia. Ad Afikim Assaf Inbari è nato e cresciuto e di Afikim ha fissato l’epopea, illustrandone in uno stile asciutto e spesso ironico la nascita e la metamorfosi. Tuttavia la storia di Afikim è anche l’epopea di un’intera nazione, letta attraverso la prova del kibbutz, la stessa che in un articolo apparso di recente su JOIMag lo storico Claudio Vercelli ha definito “un modello non solo organizzativo ma [… ] un’esperienza totale [… ] capace di dare corpo e sostanza a un «ebreo nuovo».” Del resto, lo scopo dei pionieri era di “costruire e di essere ricostruiti”, aprendosi all’azione redentrice del lavoro agricolo e manuale in genere e al rinnovamento del contatto con la Terra d’Israele.
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Il titolo originale del libro è un’espressione ebraica di uso molto comune, ha-baytah, che per lo più serve a indicare lo spostamento verso la propria abitazione. Qual è però la vera casa dei protagonisti? Quale la loro reale direzione? Non è un caso se la vicenda prende avvio nella Diaspora, in Unione Sovietica, una patria che non abbraccia, ma respinge i protagonisti. Una patria che non può essere la reale culla delle loro vite, nonostante i legami familiari, gli affetti. Ciò nonostante è spontaneo porsi una domanda: è la Terra d’Israele la loro casa? Di sicuro non lo è nel significato simbolico di casa come primo contenitore del vissuto di un individuo. Tuttavia è la casa cui tendono, è la dimora delle loro coscienze e aspirazioni. La realizzazione del sogno esige però un caro prezzo, tanto sul piano della resistenza fisica, quanto su quello personale. Il processo di trasformazione richiesto allo halutz comporta, infatti, una perdita consistente. A sostenere però Lonya, Clara, Lassia e gli altri è una profonda fedeltà alla storia, intesa come un processo collettivo di partecipazione e di responsabilità. Una storia che essi costruiscono letteralmente con le loro mani, nonostante le complicazioni, gli errori e le controversie ideologiche. Nonostante una terra dal clima ostile e la presenza costante della malattia e della morte.
Come leggiamo in Qohelet, “una generazione va, una generazione viene”. Il kibbutz rimane saldo nelle sue fondamenta, ma non nella sua essenza. Negli anni ’80 la crisi si abbatte sui kibbutzim: sette anni di buio come una piaga biblica, al termine dei quali emerge per la prima volta la parola “privatizzazione”. Non è soltanto il kibbutz ad aver mutato il proprio aspetto, ma l’intero Stato ebraico, teso verso un cambiamento forse inevitabile. Che cosa resta allora dell’impresa di quei giovani? Rimangono i prati verdi, il canto degli uccelli e le traiettorie delle loro migrazioni. Rimane il cimitero a custodire il ricordo di quanti hanno dato corpo all’utopia, anche se per pochi decenni. In altre parole, rimane la storia stessa.