Secondo Pellegrino Artusi, i bulbi bianchi condividono la stessa sorte delle melanzane: “cibo da ebrei”. Furono gli ebrei in Italia, infatti, i primi a coglierne bontà e versatilità
Crudi o cotti, i finocchi sono alla base di tantissime ricette della cucina italiana, specie del Centro e del Sud. Apprezzati da nutrizionisti e amanti dei fitness, sono una fonte importante di sali minerali, fibre e vitamine, a fronte di un bassissimo impatto calorico. Queste le informazioni che è più facile raccogliere intorno ai candidi ortaggi di stagione: poche, sicure e, perché no, anche un po’ scontate.
Passando alla loro preparazione si apre un capitolo forse più appassionante, di certo meno lineare. Dall’analisi del gusto alle loro infinite possibilità di abbinamento, dai molteplici tipi di cottura ai condimenti, parlare dei finocchi porta a esplorare un mondo fatto non solo di sapori. Si parte dalla cucina per abbracciare un intero universo popolato da cuochi, consumatori e, soprattutto, dalle loro storie.
Restando in Italia, i finocchi compaiono prevalentemente, come si diceva, nella tradizione del Meridione, in particolare in Sicilia, dove il pensiero va immediatamente all’impareggiabile freschezza dell’insalata con le arance, spesso arricchita da olive e condita con abbondanti quantità di ottimo olio. Quello che da noi viene considerato un piatto tipico dell’Isola, però, a guardarsi intorno trova fratelli, se non gemelli, in tantissimi altri Paesi: dal Marocco a un po’ tutto il bacino del Mediterraneo, passando dalla Grecia per arrivare in Israele. Qui, l’abbinamento tra vegetali e frutta non è certo una sorpresa e se le arance sono uno degli orgogli della produzione nazionale, i finocchi sono protagonisti di piatti che si perdono nella storia dello stesso popolo ebraico.
Guardando al presente, per trovare un vero fan di questi versatili ortaggi basta dare un’occhiata alle proposte di Yotam Ottolenghi, chef e autore di cucina di origini israeliane da tempo trasferitosi a Londra e tra i più apprezzati a livello internazionale. Nel suo libro forse più famoso, Jerusalem, scritto con il collega palestinese-israeliano Sami Tamimi, Ottolenghi riporta una ricetta che è un vero inno alla cultura gastronomica del suo Paese di origine e alle sue numerose ascendenze: il pollo arrosto con clementine e arak . In questa preparazione, che la Rete ha fatto rimbalzare tra siti nelle lingue e nazionalità più diverse, la presenza di un liquore come l’arak, diffuso un po’ in tutto il Medio Oriente ma ben poco conosciuto altrove, potrebbe sembrare un freno, ma è solo un’impressione. Questo perché il suo gusto di anice (che tra l’altro ritroviamo anche in tante bevande nostrane) rappresenta il ponte perfetto con l’altro ingrediente del piatto, che è poi anche quello che qui ci interessa.
Tra le caratteristiche salienti dei finocchi ci sono infatti proprio le note che richiamano l’anice e che diventano più dolci e amabili nel prodotto cotto. E di finocchi cotti la cucina ebraica tradizionale è ricca, sia al forno, come nella creazione di Ottolenghi, abbinati a un caposaldo come il pollo, sia in padella, rosolati nell’olio, insaporiti con l’aglio e fatti stufare come avviene nei cosiddetti finocchi alla giudia.
Meno nota dei celeberrimi carciofi fritti, vanto della cucina ebraico romanesca, questa semplice quanto deliziosa ricetta ci fa tornare in Italia. Per quanto sia presente anche nei menu di altre regioni, pare che questo piatto sia legato alla gastronomia marchigiana e, in particolare, alla sua comunità, tra le più antiche e importanti del Paese. Presenti nella Marca Anconitana fin dal Medio Evo, gli ebrei vi sarebbero arrivati sia da terra, in particolare dalla vicina Roma, sia dal mare, con i tanti levantini e sefarditi sbarcati nel corso dei secoli al porto di Ancona, in particolare dopo l’espulsione dalla Penisola Iberica del 1492.
Come già avvenuto in altri ambiti del campo gastronomico, gli arrivi da altre latitudini e culture favorirono anche nelle Marche la diffusione di ingredienti fino ad allora sconosciuti, consentendo l’incontro fra tradizioni e abitudini a volte estranee persino agli stessi correligionari. In questo caso, secondo diversi studiosi, prima fra tutti Edda Servi Machlin, sarebbero stati gli ebrei sefarditi a introdurre i finocchi nelle cucine dei ghetti e quindi nelle cucine italiane, fino a farli diventare, come sono oggi, una delle colonne della gastronomia regionale.
Una volta di più, dunque, sarebbe stata tutta ebraica la lungimiranza nel trattare un ortaggio altrimenti snobbato. Non a caso, Pellegrino Artusi ne accosta le sorti a quelle delle melanzane, ricordando nella sua Scienza in cucina quanto ancora a metà dell’Ottocento anche gli ottimi finocchi fossero poco diffusi nei mercati di Firenze e ritenuti a loro volta “cibo da ebrei”.
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Prova della scarsa considerazione riservata ai bianchi bulbi nel resto d’Italia sono anche i pochi piatti citati nei ricettari tradizionali dei secoli scorsi. Lo stesso Artusi si limita ad alcune preparazioni cotte: uno sformato, un fritto e un paio di contorni, l’uno al forno con la besciamella, l’altro in padella con il latte. L’esperto gastronomo, però, non dimentica di citare il gusto delicato di queste verdure e di apprezzarne la dolcezza.
Per concludere, si può azzardare che sia stata proprio la dolcezza una delle ragioni dell’amore (quasi) a prima vista dei cuochi ebrei per i finocchi. Non sarà certo un caso, infatti, che essi siano tra gli ortaggi più ricorrenti nei menu di Rosh Hashanà. Insieme alle altrettanto amabili zucche e ai porri, la loro componente zuccherina ben si presta all’attesa speranzosa del nuovo anno, mentre il loro gusto tanto particolare ne consente anche nei mesi successivi gli abbinamenti più disparati, da quello già visto con gli agrumi a quello con il pesce, sarde e acciughe in primis, oltre che con i pinoli e l’uvetta sultanina, di chiara ascendenza mediorientale.
Finocchi alle acciughe con uvetta e pinoli
Ingredienti
4 finocchi piatti (femmine)
50 g di uvetta
40 g di pinoli
40 g di acciughe sott’olio
1 spicchio d’aglio
semi di finocchio
liquore all’anice (facoltativo)
brodo vegetale
olio extravergine d’oliva
sale
pepe
Pulire i finocchi privandoli della base dura e delle eventuali foglie esterne rovinate, staccarne le barbine e tenerle da parte. Tagliare gli ortaggi a spicchi non troppo sottili. Sbucciare l’aglio e schiacciarlo leggermente. Ammollare l’uvetta in acqua tiepida per 15 minuti e tostare i pinoli per qualche istante in una padella antiaderente, poi tenerli da parte.
Scaldare 4 cucchiai di olio in una larga padella antiaderente, unirvi l’aglio e farlo rosolare, poi toglierlo, aggiungere i finocchi e lasciarli dorare a fiamma media per qualche minuto, rigirandoli di tanto in tanto. Bagnarli quindi con una mestolata di brodo caldo, aggiungere una presa di semi e l’uvetta scolata e strizzata, mettere il coperchio e cuocere per circa 10 minuti, finché il liquido si sarà asciugato e i finocchi saranno leggermente ammorbiditi.
Scolare le acciughe dall’olio di conservazione e unirle in padella, farle sciogliere a fiamma bassa schiacciandole con un mestolo, poi sfumare a piacere con un goccio di liquore. Portare a cottura i finocchi finché saranno morbidi ma non sfatti, regolare di sale e pepe e servire cospargendo la preparazione con le barbine tagliuzzate e i pinoli tostati.
Camilla Marini è nata a Gemona del Friuli (UD) nel 1973, vive a Milano dove lavora da vent’anni come giornalista freelance, scrivendo prevalentemente di cucina, alimentazione e viaggi. Nel 2016 ha pubblicato la guida Parigi (Oltre Edizioni), dove racconta la città attraverso la vita di otto donne che ne hanno segnato la storia.
Brava molto interessante la storia del piatto ed anche la ricetta con le acciughe.
Non conoscevo questa ricetta.
Assolutamente da provare perché mi sembra molto ,molto invitante.
Grazie!
Non so che dire!
Da gentile sono un’estimatrice di tutto ciò che arriva da questa incredibile cultura, letteratura in primis. Seguo da diversi anni i siti di cucina ebraica le cui ricette sono di ispirazione per le mie cene “etniche” ma non avevo mai capito quanto siano state fondamentali tutte le acute e brillanti contaminazioni con cui la Diaspora ha rivoluzionato le tradizioni italiane (già da molto tempo prima che l’ Italia esistesse). Perciò… Grazie! L’articolo mi è piaciuto molto e, da marchigiana che vive altrove, mi ha fatto ricordare i sapori della cucina di mia nonna che faceva anche la ricetta che avete descritto.