Proteste e lotte per i diritti civili. La partecipazione politica dei cittadini
“D’improvviso si alza un uomo al mattino / e sente di essere popolo, comincia a camminare e a chiunque incontri per via rivolge uno shalom”: così scriveva il poeta israeliano Amir Gilboa nell’ormai lontano 1953. Sono versi semplici eppure potentissimi, di certo emblematici di un’intera nazione e delle sue origini ideologiche. Nonostante la ricchezza del corpus culturale israeliano, pochi testi, infatti, hanno saputo esprimere la percezione dell’individuo come membro attivo di una collettività responsabile in maniera altrettanto compiuta, densa e profonda.
Non è un caso che il cantautore Shlomo Artzi abbia voluto mettere in musica l’intera poesia nel 1973, all’inizio di un decennio che per Israele si annunciava particolarmente difficile da un punto di vista tanto politico quanto sociale. Né ci stupisce che questi versi siano stati cantati a squarciagola durante la rovente estate del 2011, quando Israele ha vissuto quel grande momento di condivisione e di protesta collettiva noto come la Rivolta delle tende o la Rivolta della giustizia sociale, movimento popolare che ha saputo portare nelle piazze centinaia di migliaia di persone, di ogni età e categoria, decise a insorgere contro l’aumento vertiginoso del costo della vita. La Rivolta delle tende è stata un evento travolgente, unico nel suo genere. E sebbene, nella realtà dei fatti, non abbia prodotto l’agognata rivoluzione nelle politiche sociali israeliane, esso ha rappresentato comunque una tappa rilevante nella storia recente dello Stato ebraico, rappresentando un’ulteriore testimonianza dell’impegno e del coinvolgimento diretto dei cittadini nei problemi della nazione.
La coscienza di essere popolo
Infatti, una delle differenze sostanziali tra Israele e altri Paesi – l’Italia, ad esempio – risiede proprio nella diffusa volontà di partecipazione delle persone alla vita pubblica. Nonostante le divisioni interne che lacerano la società israeliana, la coscienza di essere popolo e di potere – anzi, di dovere – camminare insieme per il benessere comune, o del gruppo di appartenenza, rimane come una caratteristica costante dello Stato ebraico, soprattutto se si ritiene che i diritti, propri o di altri, siano calpestati o se i governanti non sembrano agire nella giusta direzione. E se è vero che la disillusione nei confronti della politica tradizionale è un male comune anche in Israele, soprattutto tra i più giovani, allora si trovano dei codici di protesta “alternativi”: ad esempio, le lotte per i diritti degli animali o per l’ambiente. Sostenitori della pace a tutti i costi, oppositori del compromesso con i popoli ostili, laici, religiosi, ashkenaziti, mizrahim, membri di ogni fazione e comunità: per ciascuno in Israele uscire in strada a rivendicare la propria posizione appare un fatto normale, quasi scontato.
Indagare nel dettaglio cosa definisca le ragioni di questa situazione implicherebbe una discussione ben più ampia, tuttavia, al di là dell’idea ormai ben radicata di intima connessione tra i singoli, non possiamo dimenticare che per molti anni in Israele non è esistita una divaricazione netta tra la classe politica e i suoi elettori. I leader storici – David Ben Gurion, Menahem Begin, Golda Meir, ma anche i più recenti Shimon Peres e Yitzhak Rabin – erano sì uomini politici, ma al tempo stesso erano visti e, cosa ben più importante, vedevano se stessi, come semplici cittadini, membri del popolo ebraico in Israele, alla pari di tutti gli altri. L’accesso alla politica e alle sue decisioni appariva dunque molto differente. Benché le polemiche e gli scandali degli ultimi anni abbiano consegnato questo quadro idilliaco ai bei tempi andati, o forse proprio in ricordo di esso, la percezione di una responsabilità morale dei reggenti nei confronti dei semplici cittadini – di ognuno di essi, soprattutto delle categorie più deboli – rimane ancora molto attuale in ogni caso.
Per le minoranze
Ovviamente il conflitto con i palestinesi rimane tutt’oggi l’ambito prediletto in cui la protesta in Israele si esplica. È quasi impossibile elencare i numerosi, spesso anche minuscoli, gruppi di dissenso sorti dal 1977, l’anno in cui la destra è salita per la prima volta al potere, rimescolando le carte della politica in modo clamoroso. Da quel momento le gravi fratture presenti all’interno della società israeliana sono state messe in luce nel modo che conosciamo, esasperandosi nelle situazioni di emergenza e di ostilità. Per ovvie ragioni, la sinistra si mostra molto attiva in questo territorio. Anzi, talvolta i gruppi di protesta sembrano farsi carico della reale opposizione politica che spetterebbe ai partiti storici. Tra i gruppi di più recente formazione vale la pena di citare Omdim beyahad (Standing together). Fondato nel 2015, si tratta di un “movimento politico di lotta e di speranza”, ispirato da valori socialisti, il quale vanta membri in ogni angolo d’Israele: “giovani e anziani, ebrei e arabi, donne e uomini, provenienti dal centro e dalla periferia”. L’obiettivo di Omdim beyahad è apportare un cambiamento definitivo nella società israeliana e garantire “pace, uguaglianza e giustizia per entrambi i popoli” ma non agisce solo nell’ambito del conflitto. Ad esempio, nella primavera 2018 il gruppo ha svolto un ruolo fondamentale nella protesta circa la proposta di legge contro i richiedenti asilo dell’Africa, soprattutto a Gerusalemme e a Tel Aviv.
Insieme a Omdim beyahad hanno lavorato altri movimenti, non meno interessanti, come Koah la-qehillah, (Power to the community), un gruppo misto, formato da cittadini israeliani e da rifugiati, nato dalla collaborazione con Ahoti (Sister), un’organizzazione femminista mizrahi, il cui scopo è dare voce alle donne oppresse, principalmente delle minoranze emarginate. Proprio dal vasto mondo delle organizzazioni femminili negli ultimi anni sono giunte testimonianze di grande effetto, come Neshot Ha-Kotel (Le donne del Muro), un gruppo di donne religiose che dal 1988 si battono per veder riconosciuto il loro diritto di pregare al Muro Occidentale senza alcuna limitazione.
Piazza Rabin, Tel Aviv
Non si tratta però soltanto di battaglie politiche o sociali strutturate in maniera duratura e continua. Pochi giorni fa, a seguito dell’omicidio – l’ennesimo – di due ragazze, un piccolo gruppo di donne ha lanciato via Facebook l’idea di uno sciopero nazionale per sensibilizzare l’opinione pubblica e il governo riguardo alla violenza contro le donne, in tragico aumento negli ultimi mesi. La pagina web intitolata “Sono una donna. Io sciopero” ha ottenuto da subito un enorme sostegno, anche da parte delle autorità municipali, ebraiche e arabe. Per un giorno, i nomi delle strade di Tel Aviv sono stati sostituiti con i nomi delle vittime e decine di eventi sono stati organizzati in tutto il Paese. Poi, come sempre, i manifestanti si sono ritrovati nella piazza simbolo della nazione, cioè piazza Rabin a Tel Aviv, il luogo che più di ogni altro in Israele rammenta il prezzo e la bellezza del coraggio di gridare le proprie idee, dove, a dispetto di ogni diversità e del sangue versato, si ritorna ogni volta a essere popolo.
(Il toponimo originario era “Piazza dei Re d’Israele”: venne rinominata “Piazza Rabin” nel 1995, a seguito dell’assassinio dell’omonimo Primo Ministro. Proprio lì, infatti, Rabin aveva presenziato a una grande manifestazione in sostegno del suo governo e degli Accordi di Oslo, al termine della quale l’estremista Yigal Amir gli aveva sparato. La piazza possiede perciò un alto valore simbolico, ndr)