Israele
Fra qui e Betlemme: “Questo è il libro delle generazioni di Adamo”

Diario in due puntate dai giorni delle rivolte

Sono tornata in Israele in autunno, per riprendere la yeshivah dove studio per diventare rabbina.
Arrivavo da Parigi, via Istanbul. Qui era un pomeriggio ancora molto caldo di fine ottobre, venerdì.
La città santa si preparava allo shabbat, al sabato di festa ebraico, il primo del nuovo ciclo di lettura della Bibbia, che l’indomani si sarebbe riaperta da capo, dal racconto di quella divinità che in principio – non si sa nemmeno poi ben perché – crea il cielo e la terra. A Parigi aveva piovuto e io in valigia avevo solo stivali e scarpe da ginnastica: mi sono diretta in città vecchia per comprare un paio di sandali, i più semplici, quelli biblici, con una suola solida e qualche striscia di cuoio per camminare fino alle prime piogge di qua. Il mio calzolaio di fiducia al shuq è sempre lo stesso da 20 anni: il padre è ormai anziano, il figlio avrà circa la mia età. Li riconosco dal naso, che hanno simile e molto pronunciato, “semita”, direbbe qualcuno, ma non so se si può. Il padre calzolaio, magari un po’ stanco e accaldato, o magari solo per far due chiacchiere, si è seduto sul suo divano, accanto a me che provavo i sandali e mi guardavo i piedi. Lui invece guardava me e quando ho alzato la testa i nostri sguardi si sono incrociati per un momento. Ho amato la calma che mi infondeva quel suo starsene così seduto lì sul divano accanto a me: una cliente europea, occidentale, ebrea, israeliana, donna. Ovviamente ho comprato l’opera delle sue abili mani e me ne sono andata con i sandali ai piedi e sulla lingua un verso del brano della Genesi che avrei ascoltato in sinagoga l’indomani e che per alcuni Maestri è il più importante della Bibbia: “Questo è il libro delle generazioni di Adamo” (Gen. 5:1), a spiegarci che tutti veniamo dagli stessi genitori e che tutti siamo fratelli molto prima di qualsiasi divisione fra popolo, religione, quartiere e nazione e anche – secondo i Maestri del Talmud – che ogni essere umano (Adam) è di per sé un mondo intero.
Subito fuori dalla porta di Giaffa, passate quelle mura già rosa per il tramonto imminente e lo Shabbat entrante,
un manifesto elettorale mi ha distolta bruscamente da queste pacifiche meditazioni: la faccia corrucciata e volitiva di Itamar Ben Gvir a braccia conserte, in completo grigio e papalina in testa si domandava retoricamente: “Chi sono qui i padroni di casa?”. Mi sono fermata orripilata, profondamente disturbata dal fatto che un pensiero del genere si potesse pubblicare, affiggere, esprimere in pubblico e incredula che potesse davvero mietere voti.
“Voti di chi?” mi domandavo con quella sciocca ingenua fiducia nel trionfo del bene, della fratellanza, quanto meno delle buone maniere, che è l’errore di tutti noi che stiamo nelle nostre belle confortevoli bolle e parliamo solo con chi già la pensa come noi, per sentirci giusti e buoni, non vedere e non soffrire di quel che c’è “fuori”.

Una settimana più tardi – inizio Novembre – ero a Budapest per lavoro e la sera dello spoglio dei seggi seguivo in TV con un amico ungherese, ebreo, cittadino israeliano come me, i tragici risultati elettorali: lo sbaragliamento totale di qualsiasi “sinistra”, la sostituzione del Sionismo religioso “moderato” e moderno di Naftali Bennett, l’eroe delle start-up del centro di Israele, rapidamente tramontato, con l’estrema destra religiosa e coloniale di Bezalel Smotrich, inneggiato negli insediamenti della Cisgiordania e la cui moglie – secondo le sue stesse parole – “Non è razzista, dio ne guardi, ma quando partorisce (cioè circa una volta all’anno, che bisogna fare tanti figli perché gli arabi ne fanno di più) poi desidera riposare e quindi vuole essere messa in camera con una silenziosa e beneducata puerpera ebrea e non con un’araba dalla famiglia rumorosa”. Questa era stata la sua “giustificazione” – nel 2016 – in seguito alla polemica scatenata da un tweet dello stesso Smotrich, all’epoca giovane esponente del partito nazional-religioso, in cui promuoveva e plaudiva la separazione già di fatto in atto in alcuni reparti maternità degli ospedali del Paese fra madri arabe ed ebree.

Mentre scrivo ora, mesi più tardi, scaldata dal sole già quasi estivo al grande tavolo di un bel locale medioriental/hipster da poco aperto nel quartiere di Baka, uno dei più chic della Gerusalemme ebraica, fra ex case arabe e le mura della città vecchia, sulla via che in appena un’ora e mezza a piedi porterebbe a Betlemme, se solo ci si potesse andare, una ragazza in jeans e canottiera accanto a me studia una pagina di Talmud – immagine che farebbe svenire un ultraortodosso, se solo fin qui se ne avventurassero – e a me pare di stare sempre più in una bolla che ignora tutto quel che c’è fuori dal centro della città buono e bello, aperto e libero, intellettuale e femminista, progressista e impegnato.

(continua)

 

Miriam Camerini
collaboratrice
È nata a Gerusalemme la sera della festa ebraica di Purim (quando ci si maschera, ubriaca e fa del teatro) del 1983.

Regista teatrale, autrice, attrice, cantante e studiosa di ebraismo, si dedica all’allestimento di spettacoli teatrali e
musicali, festival e rassegne attorno e all’interno della cultura ebraica in Italia e nel mondo. Tra i suoi spettacoli: Il Processo
di Shamgorod, Golem, Un grembo due nazioni molte anime, Il Mare in valigia, Caffè Odessa, Chouchani, Messia e Rivoluzione, Miriàm e le altre.  Il suo ultimo libro Ricette e Precetti (Giuntina, 2019), illustrato da Jean Blanchaert, con prefazione di Paolo Rumiz e ricette di labna.it, racconta il rapporto intricato fra cibo e norme religiose ebraiche, cristiane e islamiche. Sta studiando per diventare rabbino alla scuola Har’El di Gerusalemme, una delle prime accademie rabbiniche ortodosse aperte anche alle donne.

 


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